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Un anno con due guerre

L’anno che si è appena chiuso sarà ricordato come il peggiore di quelli recenti: alla guerra in Ucraina iniziata nel febbraio del 2022 si è aggiunta nell’ottobre 2023 quella fra Hamas e Israele. Due guerre molto diverse tra di loro, una fra nazioni e l’altra fra una nazione e un gruppo terroristico difficilmente inquadrabile in un’ottica tradizionale: Hamas: per la sua capacità organizzativa e logistica, per il raggio di azione delle operazioni militari del 7 ottobre e per il supporto che riceve da alcuni stati esterni alla Palestina non è inquadrabile come gruppo terroristico di capacità e obiettivi limitati. Piuttosto è l’esercito di uno stato nello stato. In più c’è l’appoggio di Hezbollah dal Libano e degli Houthi dallo Yemen. I primi per ora conducono azioni di disturbo dal sud del Libano, gli altri cercano di disturbare o impedire il traffico navale nel Mar Rosso, per ora contrastati da alcune navi da guerra francesi, inglesi e statunitensi: è impensabile che qualcuno si permetta di sabotare il 12% del traffico merci navale mondiale senza essere prima o poi preso a cannonate.

Un’altra osservazione: tutti sono rimasti sorpresi dalle due impreviste operazioni militari. Ebbene, mi permetto di dire che a guardar bene, l’aggressione russa all’Ucraina e il conflitto fra Hamas e Israele, pur avendo colto di sorpresa gli analisti, rientrano in una continuità storica prevedibile: l’Unione Sovietica / Russia ha sempre impedito con la forza l’attrazione delle nazioni vicine per l’Occidente, mentre Israele è da sempre in guerra con chi vuole distruggerlo. Nel primo caso in quasi cento anni ne hanno fatto le spese i Paesi Baltici, l’Ucraina, la Polonia, la Germania Est, l’Ungheria e la Cecoslovacchia, praticamente tutti tranne la Bulgaria e la Romania (anche se per motivi diversi). Occupare la capitale altrui per impiantare un proprio governo di fiducia ha funzionato per anni a Berlino, a Budapest, a Varsavia e a Praga, e nei piani di Putin avrebbe funzionato anche nell’Ucraina di Zelensky. Il passaggio dall’Unione Sovietica alla Russia di Putin non ha rotto la continuità di una politica estera, almeno una volta ripreso saldamente il timone del potere. Per certo si è sottovalutata la capacità russa di riprendere in mano una situazione di egemonia, ma non si credeva possibile una guerra ad alta intensità in Europa. Era un calcolo sbagliato ma razionale: almeno sul breve periodo, una guerra costa più di quanto puoi guadagnare sul terreno e la globalizzazione del commercio. Si è persino arrivati al paradosso di aggirare l’embargo da una parte e l’altra semplicemente perché l’economia non può fermarsi. Nulla di nuovo: nel ‘600 Spagnoli e Olandesi si facevano la guerra nelle Fiandre ma lasciavano aperto il commercio navale con cui finanziavano i propri eserciti. Anche Venezia e l’Impero Ottomano non bloccavano mai del tutto il traffico navale pur essendo spesso in conflitto aperto.

La guerra in Ucraina ha invece tutti i carismi della guerra classica, del conflitto ad alta intensità, della guerra lampo impantanata in trincee che mio nonno troverebbe familiari. Tipica “Materialschlacht”, attrito di materiali, dove vincerà chi avrà ancora qualcosa da mandare al fronte, sia mezzi materiali che soldati addestrati, ma è verosimile che si verrà a un armistizio: la guerra ha un costo che alla lunga è difficile sopportare per tutti. Ogni giorno si sono scambiati 5000 colpi di artiglieria e tra morti e feriti è verosimile calcolare 300.000 perdite per parte. Una guerra di posizione è come la prima guerra mondiale e come tale finisce per esaurimento di uno dei contendenti o per lo sfaldamento delle alleanze. Ma almeno finirà perché gli obiettivi sono limitati e razionali, mentre il conflitto fra Israele e Hamas con i Palestinesi in mezzo sa il cielo dove porterà: nessuno dei due contendenti è disposto a limitare i propri obiettivi e il conflitto potrebbe allargarsi in modo imprevisto. Difficilmente p.es. si permetterà alle batterie di missili dei ribelli Houthi di disturbare o interrompere il traffico navale nel Mar Rosso, dove passa il 20% di quello che arriva in Europa. Quanto alle Nazioni Unite, si è visto quanto valgono.

Ora qualche osservazione. Lo scopo di una guerra è impadronirsi delle risorse di un altro stato o nazione. L’ideologia crea una giustificazione emotiva più che razionale,, ma alla base le motivazioni sono sempre economiche. Se le guerre non sono frequenti (almeno in Europa) è perché nell’analisi costi-benefici condurre una guerra comporta spese maggiori di quanto si può guadagnare sul campo. La guerra è la continuazione del processo politico con altri mezzi (cito Karl von Clausewitz, un classico), ma altri mezzi possono appunto conseguire gli stessi obiettivi in modo più economico. Questo lo pensavamo ancora due anni fa, ora dovremo rivedere meglio i nostri parametri e le nostre sclerotizzate abitudini mentali

Cercando di consolidare l’Arte

È difficile trovare nelle Fiera internazionale di Arte moderna e contemporanea delle nuove proposte e quella di Roma non fa eccezione, ma i Modigliani, i De Chirico, i Campogrossi e i Giosetta Fioroni non hanno necessità di trovare un mercato.

Sono gli sconosciuti ad avere necessità di essere promossi, ma le “vecchie” gallerie, come le nuove, preferiscono ufficializzare le loro produzione piuttosto che andare alla ricerca di novità per il domani.

Tra le nuove presenze nel panorama contemporaneo risalta la presenza della Talk Gallery, con sede a Parigi e a Bruxelles, nel proporre Camilla Ancilotto con le sue opere multi componibili, con le loro tre facce, in una poetico interagire nel sollecitare la creatività dello spettatore nel comporre, con le tre opere, numerose possibilità di giocare con la rivisitazione di opere antiche e i vari aspetti della natura.

Mentre Guillaume Garri e Onie Jackson offrono una visione contemporanea delle credenze sulla creazione del mondo e della mitologia greca,  in una lettura “picassiana” che sfocia nel graffitismo.

L’allestimento dello stand si completa di alcune sculture di inflessione primitiva di Guillaume Garrié e quelle futuribili  di Camilla Ancilotto.

In questo mercato dell’arte di 120 gallerie espositrici italiane ed estere c’è anche lo stand di Israele, nel quale vengono proposti artisti di varie ispirazioni, dal naif al concettuale e, per quanto possiamo saperne, questi 17, tra scultori, pittori, fotografi e ricamatori, sono presenti per rappresentare le tante sfaccettature della realtà israeliana contemporanea

Unico stand nazionale, d’altronde il contemporaneo non è nelle corde del nostro ministro Franceschini e dei suoi consulenti, che non hanno buone gambe per andare a scovare artisti che continuano ad essere ignorati; invece la Regione Lazio è presente per pubblicizzare le iniziative sul patrimonio e i luoghi della cultura, mentre il Lazio Contemporaneo è un opuscoletto come spunto per un’indagine approfondita.


Roma Arte in Nuvola
Dal 18 al 21 novembre 2021

Nuvola di Fuksas
Roma (Eur)

https://romaarteinnuvola.eu/

Giro d’Italia, il buco nero dell’informazione

di Enrico Campofreda –

Tutti a parlar di buche, che in una Roma addomesticata dai peggiori politicanti millantatori di cambiamento e propositori di affarismo, ha visto il chiacchierato Froome primeggiare; i corridori frenare e trasformarsi in cicloturisti per non rischiare, uno squarcio via l’altro, l’osso del collo; il pubblico far finta di godersi uno spettacolo che non è stato tale perché una tappa ciclistica non è la scampagnata che ha in mente l’attuale sindaco dell’ignavia seduto in Campidoglio. Dicono, a ragione, gli organizzatori che il fondo degli 11 spettacolari chilometri, su cui la carovana a due ruota avrebbe dovuto girare dieci volte, doveva essere asfaltato da mesi. Virginia Raggi e il suo personalissimo staff hanno applicato il programma che i romani conoscono ormai da un biennio: il nulla condito, nel caso delle strade, da qualche sputo di cemento e pezzatura di catrame seminati qua e là. Oggi i lettori trovano tanti noti colleghi di testate mainstream, sportive e non, a parlar giustamente delle buche delle vie romane che hanno rallentato i pedalatori professionisti e dei buchi nei piani di politici inadeguati non solo per una buona amministrazione, ma semplicemente per un’ordinaria lista delle urgenze che sui sette colli sono diventate alture insormontabili. Però i media e i loro operatori in questo Giro che doppia il centenario, ed è stato portato nelle prime battute a Gerusalemme, hanno evidenziato il proprio stratosferico buco al compito che gli compete. Un buco nero nel quale s’è persa o viene omessa la finalità primaria del ruolo: informare raccontando quel che accade.

Così nel rievocare le gloriose storie delle due ruote in rosa, visto che si partiva dalla Città Santa non c’è stata alcuna contestualizzazione su chi (Israele) con l’occupazione militare nel 1967 ha violato tale santità, anche della propria religione. Qualcuno obietterà che non c’entra nulla, invece c’entra eccome. Dipende dal senso che si vuol dare alla cronaca. Nell’inquadrare soldati coi mitra spianati s’è detto delle ragioni di sicurezza, tralasciando l’insicurezza e la morte che negli stessi giorni i commilitoni di quei militari spargevano in un altro angolo della Palestina lacerata e umiliata con la creazione dello Stato di Israele. A Gaza morivano più di cento cittadini che manifestavano ricordando il diritto al ritorno sulle proprie terre, mentre i finanziatori del Giro sbarcato nella Palestina storica più i suiveurs che lo stavano narrando, ricordavano il giusto Bartali, salvatore di ebrei perseguitati, ma non spendevano una parola per rammentare ciò che accadeva attorno alle strade riempite dal ticchettìo armonico di cambi e catene. Nel mondo disarmonico di un’informazione non dedita ai fatti, ma schiacciata sugli interessi di editori più politici che imprenditori e di direttori e cronisti asserviti alle due tipologie citate, non c’è spazio neppure per brandelli di racconto per offrire un servizio al lettore, figurarsi per un percorso di verità. Il settorialismo sotterra la cronaca, così chi doveva descrivere le tappe nei Territori occupati parlava esclusivamente di scatti e tempi, senza soffermarsi neppure un attimo sui luoghi e il contorno.

Del resto se già in partenza mancava, e non pensiamo involontariamente, la riflessione del motivo per cui il Giro dovesse sostenere il piano d’Israele di condire con un simile evento internazionale  la celebrazione del 70° anniversario della sua nascita come entità statale, non ci meravigliamo, ma lo denunciamo, che tanti colleghi abbiano taciuto la presenza lungo il percorso della Corsa Rosa rientrata nella penisola, di dimostranti pro palestinesi. Rumorosi con slogan, visibili con bandiere coloratissime, seppure compressi da manipoli di poliziotti in borghese e tenuti lontani dai traguardi dove si concentrano telecamere e obiettivi. Spiace che troppe camere e flash e taccuini si siano disinteressati d’una presenza, ovviamente politica, che parlava di Palestina e dei diritti calpestati di questo popolo. La contestazione della linea criminale spacciata da Israele come autodifesa diventa una conseguenza dei discorsi di tali attivisti. E costoro, possono piacere o no, erano presenti a bordo strada. In gruppi talvolta sparuti, tal altra più numerosi, dicevano la loro, ma sono stati ignorati da un’informazione che non vuole informare e punta a presentare una realtà di comodo, secondo princìpi ben lontani dalla deontologia. Nel termine, rivendicato da chi svolge questo mestiere, il discorso è unito al dovere cui si è tenuti a rispondere. Per coscienza, per morale o semplicemente per coerenza col ruolo prescelto. Un ruolo principalmente di servizio, ancor più se pubblico. Poi, nella neutralità assoluta che non esiste, ogni operatore dell’informazione ha opinioni proprie e magari può esprimerle a commento. Quel che diventa insostenibile è celare la realtà. Tutto ciò nel giornalismo diventato propaganda è un comportamento purtroppo diffuso. E’ quel cancro che trascina in un abissale buco nero non solo l’informazione, ma la stessa esistenza professionale.

Pubblicato lunedì 28 maggio 2018
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Striscia di Gaza: via Crucis palestinese

di Enrico Campofreda

19050f970ef144139acdd1865927ad39_18La marcia per il ritorno dei profughi palestinesi si trasforma in una via Crucis nel venerdì di passione. Si chiamavano prevalentemente Mohammad ed erano sicuramente islamici le quindici vittime messe in croce con la tecnologia dei droni che sparavano lacrimogeni dall’alto, mentre tiratori scelti di Tsahal da terra hanno colpito a morte e ferito quei corpi ammassati sul confine che riproponevano una protesta contro omicidi più antichi. Era il 1976, proprio il 30 marzo, quando sei palestinesi disarmati che aderivano alla prima manifestazione intitolata al ‘Giorno della terra’ contro la decisione israeliana di espropriare cospicue aree della Cisgiordania,  vennero centrati mortalmente anch’essi da proiettili. Questa trama omicida ripetuta in tante, troppe circostanze, ha avuto oggi l’ennesimo copione stragista. Oltre a quindici cadaveri di uomini compresi fra i 19 e i 38 anni si contano millequattrocento fra feriti e intossicati dal gas. Una repressione inconcepibile, un piano preparato a puntino secondo precise direttive del governo di Tel Aviv, vista la presenza di tiratori scelti dislocati su una vasta linea di confine dove i manifestanti avevano montato tende per offrire assistenza logistica ai numerosi partecipanti anche d’età adulta e avanzata. Per questo Israele ha accusato Hamas di gettare allo sbaraglio migliaia di persone.

Hamas, per bocca del suo leader Haniyah, ha precisato che l’iniziativa è partita dal basso ed era molto sentita dal suo popolo e che la marcia è l’inizio del ritorno sull’intera Palestina. Israele che quest’anno festeggia il 70° anniversario della sua fondazione, è coadiuvata in tale scadenza da un copioso sostegno occidentale. Si pensi alle prime tre tappe del Giro ciclistico d’Italia, previste appunto in quella che era la Palestina storica, un’iniziativa propagandistica con cui il premier Netanyahu ha voluto sancire anche tramite lo sport delle due ruote, popolarissimo in Europa, un benestare alle occupazioni originarie e attuali, tramite militari e coloni. Inoltre il leader sionista sente il pieno conforto dell’amministrazione Trump e accresce gli agguati criminosi come quello odierno. Poiché gli organizzatori della protesta palestinese prevedono sei settimane di mobilitazione sino al 15 maggio, di fronte a repressioni così sanguinose, la situazione può precipitare. Il Centro legale palestinese ha diramato una durissima condanna dell’esercito israeliano che compie l’ennesimo crimine “in violazione a ogni diritto internazionale, senza distinguere nell’uso delle armi fra combattenti e civili disarmati” quali erano tutti i partecipanti alla mobilitazione. Cancellerie, Capi di Stato e le stesse Nazioni Unite finora tacciono.

Pubblicato 30 marzo 2018
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dal blog di Enrico Campofreda

 

L’Europa in cerca di una nuova anima

La nuova Cortina di Ferro all’interno dell’Unione europea vede ampliarsi il Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) con lo spostamento a destra dell’Austria e che farà muro contro l’impennata d’orgoglio dell’Ue nell’attivazione delle procedure previste dall´Articolo 7 dei Trattati, quando si riscontrano delle violazioni gravi di uno Stato membro, la Polonia, dei valori fondamentali dell’Unione.

La Polonia rischia sanzioni che prevedono la riduzione degli aiuti e la sospensione dei diritti di voto, per aver approvato una riforma che mina l’indipendenza della giustizia polacca, mettendo in pericolo lo Stato di diritto.

Il vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per la migliore legislazione, Frans Timmermans, ha affermato che la Polonia ha adottato, in questi ultimi anni, 13 leggi capaci di mettere in pericolo i valori fondamentali per uno stato democratico.

L’Europa solo ora si accorge di quanto la Democrazia sia in pericolo in Polonia, dopo aver lasciato da sole tutte quelle migliaia di persone che hanno manifestato per settimane contro il progetto legislativo per ingabbiare la Giustizia.

Per sospendere la Polonia dal diritto di voto in Consiglio, prevista dall’articolo 7 del Trattato, serve l’unanimità degli Stati membri che si prevede difficilmente raggiungibile, vista l’opposizione scontata dell’Ungheria di Viktor Orbán e degli altri del Gruppo di Visegrá.

Il Consiglio d’Europa potrebbe sospenderli tutti, dopo aver riscontrato non solo una deriva autoritaria nei singoli paesi, ma anche per la loro avversità a conformarsi alle scelte sulla ripartizione della ricollocazione dei richiedenti asilo all’interno della Ue.

Anche in occasione della risoluzione di condanna del riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale d’Israele, messa in votazione all’assemblea generale Onu, lo schieramento dei paesi dell’est europeo (Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania), si è differenziato dal resto della Ue, scegliendo di astenersi e non esprimere un voto contrario.

L’Europa, in occasione del caso Polonia, si sta muovendo non più per procedure di infrazione di ordine economico, ma per i valori fondanti dell’UE, e ciò potrebbe essere l’occasione di rifondare Unione sui principi originari e non solo sugli interessi economii.

Per l’Europa, ritrovare l’Anima del Manifesto di Ventotene, è un’opportunità per riscattarsi dai tanti anni di arido tecnocratismo e trovare un’unità nei valori etici piuttosto che sulla convenienza.

Una convenienza che i paesi di Visegrá sembrano aver ben messo a frutto e ora, dopo aver preso tutto il possibile dalla Ue, si apprestano rendere difficile la convivenza tra gli stati membri.

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Qualcosa di più:
Europa: anche i tecnocrati sognano
Migrazioni, cooperazione Ue-Libia | L’ipocrisia sovranazionale
Migrazione | Conflitti e insicurezza alimentare
Migrazione in Ue: il balzello pagato dall’Occidente
Macron: la Libia e un’Europa in salsa bearnaise
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Europa: Le tessere del domino
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Europa: la Ue sotto ricatto di Albione & Co.
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Europa: i nemici dell’Unione
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
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Un’altra primavera in Europa

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