Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Poveri Musei

L’attacco della Destra al direttore del Museo Egizio di Torino è l’ultimo di una serie di disavventure della cultura e della sua conservazione e diffusione. Christian Greco è un noto egittologo e anche bravo manager, qualità che non si trovano sempre insieme nelle direzioni di musei e sovrintendenze. Eppure c’è chi spinge per la sua rimozione in base a motivi ideologici. Vittorio Sgarbi, pur legato all’attuale governo, ha difeso Greco riconoscendone la cultura e i meriti, ma resta la domanda: perché la politica si occupa di governare la cultura senza averne competenza? In più il Museo Egizio di Torino è una fondazione, quindi le nomine comunque non le fa il Ministero della Cultura ma il consiglio di amministrazione della fondazione stessa, organizzata in modo privatistico. Quanto poi all’ingresso di favore agli arabi residenti a Torino, nessuno ha pensato che l’Egitto è sì patria dei faraoni e delle piramidi, ma gli eredi del patrimonio archeologico e artistico dell’antico Egitto sono in questo momento gli arabi. In più c’è un movimento di pensiero – non necessariamente settario – che vede nello sviluppo dell’antico Egitto l’incontro fra culture africane e asiatiche piuttosto che un “unicum” sorto dal nulla e fiorito in modo autonomo per migliaia di anni.

Altro museo nei guai: il prestigioso British Museum, dove un curatore addetto all’organizzazione di mostre ha sottratto per una ventina d’anni almeno duemila reperti dai magazzini per rivenderli persino su Ebay. Questo collaboratore era stato licenziato, ma evidentemente George Osborne, nella sua veste di presidente dei trustee del British Museum, aveva cercato di non dar troppa pubblicità alla notizia, che invece è alla fine esplosa e ha portato non solo alle sue dimissioni, ma anche a pressioni da parte di governi stranieri – quello della Grecia per primo – per chiedere la restituzione dei reperti ”acquisiti” in passato: se un museo straniero non ne garantisce la sicurezza, meglio allora riportarli a casa.

Avendo lavorato per molti anni nei musei, ne ipotizzo però anche alcune criticità. La prima è la mancanza di investimenti nella cultura, soprattutto per quanto riguarda le strutture di conservazione. Musei, archivi e biblioteche richiedono personale specializzato ma producono risultati nel lungo periodo, mentre rendono dividendi immediati se trasformati in economici contenitori per mostre temporanee finanziate da ditte esterne e con un forte indotto commerciale. Non a caso il ladro del British Museum era un noto curatore di mostre. Ma questo spostamento di risorse penalizza gli altri investimenti: a parte i sistemi di allarme, la catalogazione può rimanere indietro di anni per mancanza di archivisti e funzionari specializzati. Ogni museo ha i magazzini pieni di materiale acquisito per donazioni private, recuperi di fondi da altri enti, scavi archeologici o sequestri giudiziari. Ma se un pezzo non è catalogato e fotografato non sarà possibile identificarlo se immesso sul mercato antiquario. In più c’è anche l’imprudenza di alcuni funzionari che permettono l’accesso ai magazzini anche a persone esterne alla struttura, sempre che gli interni siano tutti onesti. I furti nei musei avvengono sempre nei magazzini e non certo in sala dove tutto è esposto. Ma posso citare anche l’esempio di un funzionario di museo che per la compilazione del catalogo ha chiamato un collezionista, senza rendersi conto della possibilità che un reperto nei depositi possa essere sostituito con un altro dello stesso tipo ma di minor valore.

Roma di Chiese e soprattutto di Teatri

Lo scarno titolo non rende appieno la ricchezza del libro, il quale è diviso in due parti ben distinte: la storia del teatro a Roma, inteso sia come struttura fisica che come espressione artistica, e uno schedario sistematico, esauriente e aggiornato di schede dei singoli teatri. La prima parte è organizzata in ordine cronologico, la seconda è divisa per ordine alfabetico e completata da un indice analitico. L’autrice è già nota come artista e curatrice di mostre (1) e per una serie di monografie di arte e altro, tra cui citiamo: I mosaici a Roma dall’antichità al Medioevo, Santa Maria in Montesanto, Il vino a Roma e nel Lazio, Sciamè. Alchimia del rosso, Il canto della terra, L’ essenza della solitudine, Dolores Prato, Vostra Veronica. In questo libro appena uscito Stefania Severi ripercorre non solo la storia degli edifici teatrali dall’antica Roma a oggi, ma anche degli autori, artisti, impresari e promotori che hanno reso possibile una continuità culturale che supera i duemila anni. E naturalmente si parla anche del pubblico, il vero protagonista delle fortune e sfortune della scena romana, dove la storia del teatro presenta caratteristiche uniche: da un lato c’è l’origine sacrale dello spettacolo – pagana o cristiana non importa – e dall’altro la coesistenza da sempre di espressioni di cultura alta insieme a spettacoli plebei, popolari, con curiose ibridazioni fra i due registri – sarcasticamente commentati nei sonetti del Belli – dovute alla particolare struttura sociale romana: la Chiesa condizionava la durata della stagione teatrale (iniziava a dicembre, ma per la Quaresima i teatri erano chiusi) ma promuoveva le sacre rappresentazioni e lasciava una certa libertà al teatro popolare o aulico che fosse, purché non si discutesse di politica o di religione. Ma nei teatri come nei palazzi convivevano, sia pur in settori diversi, nobili e plebei, borghesi e “generone”, senza quella separazione di casta presente in altre società anche italiane. I viaggiatori stranieri notavano da un lato la grande passione dei romani per il teatro a tutti i livelli, ma dall’esterno vedevano i romani come parte stessa dello spettacolo, fosse per la prima di un’opera lirica o per una processione della Settimana Santa (2). Nell’antica Roma il pubblico non pagava (panem et circenses..) e i teatri col tempo erano divenuti monumentali. Il teatro di Ostia antica ancora è attivo, gli altri – teatro di Pompeo, di Marcello, di Traiano – restano monumenti a memoria di fasti passati. Il medioevo vede sacre rappresentazioni, cerimonie, cortei e processioni registrate da precisi cronisti e cerimonieri come il Burcardo, ma col Rinascimento e il Barocco rinasce il teatro laico, patrocinato dalle famiglie nobili, le quali inseriscono fino a due secoli dopo un teatro privato nei loro palazzi, mentre ben presto l’iniziativa privata si adegua alla domanda e diversifica l’offerta, che va dal dramma e melodramma alla commedia, dall’aulico alla farsa popolare, dal teatro di parola al mimo e ai burattini. Giustamente l’autrice parla in questo senso di “sistema teatrale”, data la quantità e la diversificazione dell’offerta romana, col suo ampio spazio per nobili mecenati e impresari privati, attori e cantanti professionisti e confraternite di dilettanti, primedonne, gigioni, musicisti, artisti di scena e artigiani. Alla fine di ogni secolo è riportato l’elenco dei singoli teatri con la data di apertura. Se manca l’asterisco la struttura è ancora aperta alla scena. Se l’Apollo non esiste più, alcuni sono ancora in attività, magari con repertorio diverso. Penso al teatrino di palazzo Altemps, al teatro Argentina ora di prosa ma nato lirico (vide la prima del Barbiere di Siviglia), ma anche all’Oratorio del Borromini. Pur nella relativa stasi dello Stato Pontificio, la vita teatrale romana ha sempre avuto un grande impulso creativo e una grande popolarità

La cesura tra due epoche avviene quando nel 1870 Roma diviene capitale d’Italia, con la rapida trasformazione urbanistica e sociale delle sue strutture e del pubblico. Risale alla seconda metà del XIX secolo la costruzione di nuovi teatri. La gran parte dei teatri di fine secolo è attiva: il Costanzi per l’Opera, il Quirino, l’Eliseo, la Sala Umberto, il Salone Margherita, l’Ambra Jovinelli, tanto per citarne alcuni. Carente è invece il secondo dopoguerra, che ha visto solo ristrutturazioni e riconversioni spesso discutibili (la distruzione dell’Adriano per farne una multisala è emblematica) e soprattutto ha penalizzato la periferia continuando a concentrare lo spettacolo al centro storico, a parte gli introvabili teatri tenda. Ma dagli anni 60 ci immergiamo in nella realtà più difficile da schedare: l’esplosione del teatro sperimentale e dei “teatrini” – talvolta scantinati o locali recuperati – che renderanno Roma una delle città più vivaci d’Italia. “Uno, cento, mille teatrini” è più di uno slogan. Concentrati fra Trastevere e Testaccio ma non solo, pur in autentica povertà di mezzi diventano un mondo parallelo che per osmosi trasmette al Teatro Stabile nuovi linguaggi e rinnova un repertorio all’epoca fin troppo alimentato dagli abbonamenti del pubblico borghese. Ripercorrere con la Severi le vicende dell’avanguardia teatrale romana è divertente quanto difficile, ogni segmento essendo originale e non sempre documentabile con precisione. Non era il mondo dell’Effimero dell’assessore Nicolini – grande rinnovatore della periferia e inventore dell’estate Romana – ma ne ha preparato il terreno.

E il nuovo secolo come si presenta? Da un lato Roma con l’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano (2001) ha finalmente uno spazio adeguato a un capitale europea e l’offerta teatrale si è decentrata anche in zone prima culturalmente deserte, vuoi per intervento pubblico (Tor Bella Monaca, Quarticciolo, Corviale, circuito TIC, Teatri in Comune) che privato (Teatro degli Audaci, Il Globo fondato da Proietti), mentre i “teatrini”, decimati dalle nuove leggi di sicurezza e dall’età dei fondatori, sopravvivono o passano il testimone ai loro allievi, visto che proliferano le scuole di teatro a tutti i livelli. Passato il Covid, in questo momento il teatro non è in declino, a differenza delle sale cinematografiche che chiudono. Il motivo? C’è il desiderio naturale di vedere fisicamente l’attore e lo spettacolo dal vivo è un salutare  antidoto all’inflazione da immagini registrate e/o scaricabili.

Addenda: per contenere il prezzo (22 euro per 327 pagine) il libro è privo di illustrazioni. Per integrarne la lettura consiglio un sito completo di immagini, schede e indicazioni topografiche: https://www.info.roma.it/teatri_di_roma.asp


Note:

  1. https://www.exibart.com/artista-curatore-critico-arte/stefania-severi/
  2. Vedi p.es. Città teatrale. Lo spettacolo a Roma nelle impressioni dei viaggiatori americani 1760-1870, di Alessandro Gebbia, 1985.

Dizionario dei teatri di Roma
Stefania Severi
Edilazio, Roma, 2023. pp.327
Prezzo 22,00 euro


Quando la Musica non placa l’irrequietudine

Negli anni ’60 molti artisti pop erano attratti dal buddismo e dalle religioni asiatiche in genere, oggi le tendenze sono più diversificate. Intendo parlare delle conversioni di Cat Stevens e di Sinead O’Connor all’Islam. Quella di Cat Stevens (oggi Yusuf Islam) avvenne in circostanze da lui spesso ribadite: nel 1977 stava per annegare a Malibu (California) e questa fu la rivelazione sulla via di Damasco. Da quel giorno si ritira dalle scene, vende le chitarre e diventa un attivista e membro influente della comunità islamica di Londra, al punto di aprire anche la Islamia Primary School e finanziare una serie di attività umanitarie, ma provocando anche la reazione e il boicottaggio dei suoi fan quando nel 1989 difende la fatwa (condanna religiosa) contro Salman Rushdie per i suoi Versetti satanici. Da quel momento il mondo musicale gli è ostile e nel 2004 si vede rifiutare il visto per gli Stati Uniti dopo l’attacco alle Torri Gemelle (2001). Fa però a fine secolo un ben documentato viaggio in Bosnia (1), all’epoca fresca di guerra civile, finanziando attività umanitarie islamiche e cantando in pubblico a Sarajevo (2) per la prima volta dopo molti anni. Ha ripreso a cantare e a tenere concerti praticamente da quest’anno e uno si è anche tenuto a Roma il 18 giugno all’Auditorium Parco della Musica. Yusuf/Stevens ha ormai 75 anni ed era visibilmente invecchiato, ma i suoi fan non l’hanno tradito.

Sinead O’Connor (ora Shuhada Sadaqat) è un caso diverso. La sua conversione è stata presentata come una delle tante mattane di una instabile mentale, ma è un giudizio affrettato e non rende giustizia del rapporto profondo e conflittuale dell’artista con la religione, e chissà che qualcuno non ci faccia la tesi di laurea in teologia. Irlandese di nascita e quindi cattolica, Sinead è sempre stata profondamente religiosa. Nel 1992, ospite del Saturday Night Live, durante la sua performance distrusse una foto di Papa Giovanni Paolo II, vent’anni dopo ha definito le dimissioni di Ratzinger «una saggia decisione». Sono atteggiamenti tipici di un credente, non di uno scettico. In un’intervista, dichiarò infine di volere «salvare Dio dalla religione». Negli anni ’90 Sinead si era fatta addirittura “preta”, ordinata da una setta scissionista cattolica di nome Irish Orthodox Catholic and Apostolic Church e le foto la ritraggono in abiti ecclesiastici. Poco si sa di questa chiesa cattolica scissionista, ma sicuramente la preparazione teologica di Sinead  non era superficiale. Ed ecco nel 2018 il gran finale:

 “Sono orgogliosa di essere diventata musulmana. Questa è la conclusione naturale di un viaggio di ogni teologo intelligente. Lo studio di tutti i testi porta all’Islam e rende tutti gli altri inutili”

Non sono parole di una popstar, ma di una mistica. Anche se gli atteggiamenti possono sembrare plateali, Sinead O’Connor è assimilabile a Ildegarda di Bingen, monaca benedettina, scrittrice, mistica, teologa e grande musicista, la prima donna a firmare con il suo nome alle proprie composizioni musicali religiose (3). Anche Sinead O’Connor ha avuto con la religione un rapporto comunque profondo, tormentato e lo ha trasmesso anche alla musica. Per questo va rispettata.

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Note:

  1. https://catstevens.com/tag/bosnia/
  2. https://www.youtube.com/watch?v=jmVMcMfxm5Q
  3. https://www.santa-ildegarda-di-bingen.it/

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Scritture misteriose e Intelligenza artificiale

Gli archeologi in genere sono molto gelosi del loro mestiere e non gradiscono intrusioni, ma il problema è mal posto: decifrare scritture antiche è compito del filologo, mentre loro devono preparare e ordinare il materiale, come fece negli anni ‘50 John Chadwick (archeologo) nei confronti di Alice Kober (latinista) e Michael Ventris (architetto, paleografo e crittografo). Ventris decifrò in modo convincente la c.d. Lineare B cretese dimostrando che era un greco arcaico, eppure in certi ambienti ancora si sente dire che Ventris era un dilettante. Tale era Schliemann, mentre invece Ventris lo definirei più correttamente un professionista prestato all’archeologia. Né era un dilettante Giovanni Maria Semerano, bibliotecario e filologo, morto nel 2005. Non ha mai avuto una cattedra universitaria e ha subìto l’ostilità di un archeologo come Salvatore Settis, ma la sua interpretazione p.es. delle c.d. Lamine di Pyrgi (documento etrusco bilingue) è per certo più convincente di quella di Pallottino, che pur ha il merito di aver messo ordine nel Corpus Inscriptionum Etruscarum. Semerano era un grande conoscitore delle lingue semitiche come l’accadico (sorta di assiro-babilonese) e metteva in dubbio l’esistenza dell’ Indoeuropeo, mito politico oltre che linguistico. E soprattutto, ha messo in collegamento lingue diverse tra loro.

Nel frattempo il mestiere di filologo si è arricchito delle potenzialità offerte dall’Intelligenza artificiale (IA). Nel 2022 sono stati decifrati i simboli della scrittura del Regno di Elam, una delle culture più antiche del mondo, esistita in Persia nel III millennio a.C. e conquistata dall’Impero Persiano nel VI secolo a.C. , ma di cui sono rimasti solo una quarantina di testi scritti. E ora l’Università di Bologna ci prova col cipriota-minoico, una scrittura sillabica indecifrata usata nell’isola di Cipro durante la tarda età del bronzo. Ma nel frattempo sempre con l’aiuto dell’IA si cerca di mettere ordine nelle tavolette cuneiformi assiro-babilonesi ( progetto Electronic Babylonian Literature). I testi antichi non si presentano regolari e ben ordinati come nei libri di scuola e le varianti grafiche sono infinite, per cui analizzare grandi insiemi di dati è un lavoro improbo e ora gli algoritmi di apprendimento automatico “imparano” analizzando enormi insiemi di dati. Qualsiasi lingua può cambiare solo in determinati modi essendo una macchina logica, ma per le lingue antiche non puoi interagire coi parlanti e hai comunque un numero di testi non sempre enorme. Nel caso della scrittura cuneiforme, ora grazie agli sviluppi dell’IA, i computer vengono addestrati a leggere e tradurre i segni grafici e soprattutto a rimettere insieme tavolette frammentate per ricreare antiche biblioteche e, quando è possibile, ipotizzare frammenti di testo mancanti. Nel caso poi di una documentazione scritta abbondante, come quella in greco antico, ancora meglio: l’enorme quantità dei dati (più di tre milioni di parole di iscrizioni risalenti dal 600 a.C al 400 d.C.) ha incoraggiato i ricercatori dell’Università di Oxford a sviluppare Pythia (la sacerdotessa indovina dell’oracolo di Apollo a Delfi), un software che ha sbaragliato i pur bravi studenti di Oxford, riuscendo a completare quasi tremila iscrizioni con un tasso di errore pari al 30% (contro il 57,3% degli studenti) in pochi secondi. Da qui poi una revisione delle datazioni di molte epigrafi. Che dire? Speriamo che questa procedura venga presto applicata al CIL, il Corpus Inscriptionum Latinarum.

Biancaneve senza i Nani

La Disney, sempre attenta al vento che tira, ha deciso di eliminare i nani dalla prossima riedizione di Biancaneve, i quali saranno sostituiti da una folla di esseri mitologici e fantastici, si suppone scelti in base al Manuale Cencelli del politically correct. Questo mentre in Sud America le chiese evangeliche e pentecostali non gradiscono il  film Barbie perché troppo inclusivo con i LGBTQ+ e altre forme di modernità sociale. Inutile chiedersi se quello che va bene a Los Angeles possa esser assorbito allo stesso modo in Brasile o in Italia: il mondo non cammina in sincrono. Piuttosto, voglio difendere i nani e il loro apporto alla creatività. A differenza di altri “diversi”, ai nani è stato sempre data la possibilità di esprimersi, anche se in un contesto grottesco, distopico. Nel circo equestre il nano ha un proprio spazio creativo, pur se egli è accettato come “monstrum”, campione di bizzarria della natura. E’ un nano l’egiziano Bes, visibile a Roma nella Porta Magica di Piazza Vittorio. Sono assimilati ai nani i Pigmei degli affreschi pompeiani (anch’essi realmente esistenti, anche se non combattono contro le gru). E’ piena di nani la pittura del barocco spagnolo e italiano, da Bronzino al Guercino per arrivare a Goya quasi due secoli dopo. Ed è proprio nella cultura iberica che il nano resta un’immagine persistente, a metà tra arte e perversione. Il governo spagnolo ora vuole abolire la “corrida comica”, una corrida incruenta tra vitelli addestrati e nani vestiti da toreri, un vero residuato bellico del barocco. Ma i nani si sono opposti alla decisione del governo: con quello spettacolo popolare ci guadagnano bene e sono famosi. Anni fa ho visto un documentario in argomento e qualcosa c’è pure su Youtube: fa impressione la serietà con cui i nani entrano nella loro parte di toreri e allo stesso tempo ci si chiede che razza di pubblico paghi ancora il biglietto per questi arcaismi culturali.

E passiamo al cinema. I nani non sono solo macchiette o sono presenti nella pornografia come espressione di una sessualità distorta e perversa, ma sono stati anche protagonisti di un film d’autore. Sto parlando di un film di Werner Herzog, più estremo degli altri: Anche i nani hanno cominciato da piccoli. E’ un film del 1970 e il regista aveva solo 27 anni; fu presentato alla Quinzaine des Réalisateurs al 23º Festival di Cannes, in mezzo a feroci polemiche: tutti gli attori non professionisti erano nani e la vicenda si svolge in una sorta di colonia penale o microuniverso chiuso dove la rivolta fallisce e la ricaduta sugli altri è caratterizzata dalla violenza. Il film è interpretabile in vario modo: ribellione, fallimento politico, autodistruzione, ma dal canto suo Herzog non ha mai voluto dare un’interpretazione univoca al film, per lui la sceneggiatura di un film non è in alcun modo legato alla trattazione di un “tema” ma solamente alla narrazione di una storia. Una storia tuttora inquietante.