Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Scritture misteriose e Intelligenza artificiale

Gli archeologi in genere sono molto gelosi del loro mestiere e non gradiscono intrusioni, ma il problema è mal posto: decifrare scritture antiche è compito del filologo, mentre loro devono preparare e ordinare il materiale, come fece negli anni ‘50 John Chadwick (archeologo) nei confronti di Alice Kober (latinista) e Michael Ventris (architetto, paleografo e crittografo). Ventris decifrò in modo convincente la c.d. Lineare B cretese dimostrando che era un greco arcaico, eppure in certi ambienti ancora si sente dire che Ventris era un dilettante. Tale era Schliemann, mentre invece Ventris lo definirei più correttamente un professionista prestato all’archeologia. Né era un dilettante Giovanni Maria Semerano, bibliotecario e filologo, morto nel 2005. Non ha mai avuto una cattedra universitaria e ha subìto l’ostilità di un archeologo come Salvatore Settis, ma la sua interpretazione p.es. delle c.d. Lamine di Pyrgi (documento etrusco bilingue) è per certo più convincente di quella di Pallottino, che pur ha il merito di aver messo ordine nel Corpus Inscriptionum Etruscarum. Semerano era un grande conoscitore delle lingue semitiche come l’accadico (sorta di assiro-babilonese) e metteva in dubbio l’esistenza dell’ Indoeuropeo, mito politico oltre che linguistico. E soprattutto, ha messo in collegamento lingue diverse tra loro.

Nel frattempo il mestiere di filologo si è arricchito delle potenzialità offerte dall’Intelligenza artificiale (IA). Nel 2022 sono stati decifrati i simboli della scrittura del Regno di Elam, una delle culture più antiche del mondo, esistita in Persia nel III millennio a.C. e conquistata dall’Impero Persiano nel VI secolo a.C. , ma di cui sono rimasti solo una quarantina di testi scritti. E ora l’Università di Bologna ci prova col cipriota-minoico, una scrittura sillabica indecifrata usata nell’isola di Cipro durante la tarda età del bronzo. Ma nel frattempo sempre con l’aiuto dell’IA si cerca di mettere ordine nelle tavolette cuneiformi assiro-babilonesi ( progetto Electronic Babylonian Literature). I testi antichi non si presentano regolari e ben ordinati come nei libri di scuola e le varianti grafiche sono infinite, per cui analizzare grandi insiemi di dati è un lavoro improbo e ora gli algoritmi di apprendimento automatico “imparano” analizzando enormi insiemi di dati. Qualsiasi lingua può cambiare solo in determinati modi essendo una macchina logica, ma per le lingue antiche non puoi interagire coi parlanti e hai comunque un numero di testi non sempre enorme. Nel caso della scrittura cuneiforme, ora grazie agli sviluppi dell’IA, i computer vengono addestrati a leggere e tradurre i segni grafici e soprattutto a rimettere insieme tavolette frammentate per ricreare antiche biblioteche e, quando è possibile, ipotizzare frammenti di testo mancanti. Nel caso poi di una documentazione scritta abbondante, come quella in greco antico, ancora meglio: l’enorme quantità dei dati (più di tre milioni di parole di iscrizioni risalenti dal 600 a.C al 400 d.C.) ha incoraggiato i ricercatori dell’Università di Oxford a sviluppare Pythia (la sacerdotessa indovina dell’oracolo di Apollo a Delfi), un software che ha sbaragliato i pur bravi studenti di Oxford, riuscendo a completare quasi tremila iscrizioni con un tasso di errore pari al 30% (contro il 57,3% degli studenti) in pochi secondi. Da qui poi una revisione delle datazioni di molte epigrafi. Che dire? Speriamo che questa procedura venga presto applicata al CIL, il Corpus Inscriptionum Latinarum.

Biancaneve senza i Nani

La Disney, sempre attenta al vento che tira, ha deciso di eliminare i nani dalla prossima riedizione di Biancaneve, i quali saranno sostituiti da una folla di esseri mitologici e fantastici, si suppone scelti in base al Manuale Cencelli del politically correct. Questo mentre in Sud America le chiese evangeliche e pentecostali non gradiscono il  film Barbie perché troppo inclusivo con i LGBTQ+ e altre forme di modernità sociale. Inutile chiedersi se quello che va bene a Los Angeles possa esser assorbito allo stesso modo in Brasile o in Italia: il mondo non cammina in sincrono. Piuttosto, voglio difendere i nani e il loro apporto alla creatività. A differenza di altri “diversi”, ai nani è stato sempre data la possibilità di esprimersi, anche se in un contesto grottesco, distopico. Nel circo equestre il nano ha un proprio spazio creativo, pur se egli è accettato come “monstrum”, campione di bizzarria della natura. E’ un nano l’egiziano Bes, visibile a Roma nella Porta Magica di Piazza Vittorio. Sono assimilati ai nani i Pigmei degli affreschi pompeiani (anch’essi realmente esistenti, anche se non combattono contro le gru). E’ piena di nani la pittura del barocco spagnolo e italiano, da Bronzino al Guercino per arrivare a Goya quasi due secoli dopo. Ed è proprio nella cultura iberica che il nano resta un’immagine persistente, a metà tra arte e perversione. Il governo spagnolo ora vuole abolire la “corrida comica”, una corrida incruenta tra vitelli addestrati e nani vestiti da toreri, un vero residuato bellico del barocco. Ma i nani si sono opposti alla decisione del governo: con quello spettacolo popolare ci guadagnano bene e sono famosi. Anni fa ho visto un documentario in argomento e qualcosa c’è pure su Youtube: fa impressione la serietà con cui i nani entrano nella loro parte di toreri e allo stesso tempo ci si chiede che razza di pubblico paghi ancora il biglietto per questi arcaismi culturali.

E passiamo al cinema. I nani non sono solo macchiette o sono presenti nella pornografia come espressione di una sessualità distorta e perversa, ma sono stati anche protagonisti di un film d’autore. Sto parlando di un film di Werner Herzog, più estremo degli altri: Anche i nani hanno cominciato da piccoli. E’ un film del 1970 e il regista aveva solo 27 anni; fu presentato alla Quinzaine des Réalisateurs al 23º Festival di Cannes, in mezzo a feroci polemiche: tutti gli attori non professionisti erano nani e la vicenda si svolge in una sorta di colonia penale o microuniverso chiuso dove la rivolta fallisce e la ricaduta sugli altri è caratterizzata dalla violenza. Il film è interpretabile in vario modo: ribellione, fallimento politico, autodistruzione, ma dal canto suo Herzog non ha mai voluto dare un’interpretazione univoca al film, per lui la sceneggiatura di un film non è in alcun modo legato alla trattazione di un “tema” ma solamente alla narrazione di una storia. Una storia tuttora inquietante.

Poznan: l’arte contemporanea secondo Molski

Poznan è una dinamica città polacca equidistante tra Berlino e Varsavia, incrocio di correnti culturali diverse e per questo molto attiva. La Molski gallery & collection – una galleria d’arte contemporanea  – è nata nel 2022 dalla passione di collezionare opere d’arte e dal desiderio di condividere l’arte con un pubblico più ampio su iniziativa del suo proprietario, Michał Molski – esperto e collezionista di arte contemporanea polacca, capace di rappresentare una combinazione dei più importanti artisti polacchi della seconda metà del XX secolo con i principali artisti polacchi di oggi. Il programma autoriale della galleria si concentra sulla creazione di un dialogo intergenerazionale. La mostra inaugurale intitolata. “Collection of Contemporary Art” ha presentato opere dei classici, cioè Krasinski, Stażewski e Tarasin, che corrispondevano a opere di artisti di grande talento della generazione più giovane, cioè Misiak, Berdowska e Starowieyski. La combinazione di arte classica con opere create negli ultimi anni è diventata dunque un’avventura estremamente interessante e stimolante. Durante lo scorso anno si è stabilita una collaborazione con molti artisti eccezionali come Mariusz Kruk, Michal Misiak, Sebastian Krzywak, Dominik Lejman e Kinga Popiela.

Nell’ottobre 2022 è stata organizzata la mostra personale di uno degli artisti più importanti dell’arte contemporanea polacca – Mariusz Kruk – dal titolo “Ci sono due tipi di bellezza, bellezza (a) e bellezza (b)”. Erano esposte più di 40 opere tra assemblaggi, oggetti pittorici, disegni e sculture – realizzati negli ultimi cinque anni. Per la prima volta, sono state giustapposte le opere di tre cicli – precedentemente presentati nelle seguenti quattro mostre: “Pion” (Arsenal City Gallery, Poznań 2017), “Symbiosis of oppostos” (MAK Gallery, Poznań 2020), “Co-sound of meanings” (Arsenal City Gallery, Poznań 2020), “/ arI sz kRU” (White Gallery, Lublin 2022) e opere realizzate appositamente per la mostra presso MOLSKI gallery&collection.

Nel marzo di quest’anno si è vista la prima mostra retrospettiva di Jan Tarasin a Poznań in quasi 20 anni, intitolata “Jan Tarasin. Sequenze di significato”. I 22 dipinti raccolti da varie fonti hanno formato una narrazione che mostra come lo stile di Tarasin sia cambiato nei decenni successivi. L’attenzione è stata richiamata sul sottile processo di scarto dei singoli elementi a favore di quelli successivi, che sono stati arricchiti di contenuto, significato e forma precedentemente non correlati.

Nel maggio di quest’anno, in collaborazione con la Magdalena Abakanowicz University of Arts di Poznan, nello spazio della galleria è stata presentata un’installazione video intitolata “Monk. “Monk” di Dominik Lejman, che è stata accompagnata da una presentazione di opere scultoree selezionate dalla collezione di artisti come Magdalena Abakanowicz e Andrzej Szewczyk. Come si vede, la galleria Molski si sta sviluppando in modo molto dinamico nel mercato emergente dell’arte polacca, con l’obiettivo non solo di promuovere l’arte polacca sia in Polonia che all’estero, ma anche di creare sinergie internazionali con artisti e istituzioni artistiche, missione diventata un’avventura molto stimolante.


MOLSKI gallery&collection
Contemporary art gallery

Poznan (Polonia)


Nella selva del Verano

Il cimitero del Verano è immenso e bellissimo. Soprattutto nelle sue parti monumentali è un’enciclopedia di stili e di arti minori da tutelare, e infatti dipende dall’Ufficio Monumenti Moderni della Sovraintendenza di Roma Capitale e sono anche previsti itinerari e visite guidate. Solo che è più facile sapere dove è sepolto Trilussa o Paolo Stoppa o Enrico Toti che non il caro estinto. Mi ero riproposto di trovare la tomba di famiglia, comprata nel lontano 1912 dal mio bisnonno e situata nella zona del Pincetto Nuovo, la parte in collina che si vede dall’inizio della via Tiburtina. L’impiegato mi ha gentilmente stampato le coordinate della tomba, senza però sapermi dire altro. Mi ha comunque dato la mappa del Verano, dove le varie zone sono numerate. Tutto facile? No. Nella stampata si parlava di “Viale Circonvallazione, loculi esterni”. Ebbene, sul terreno non c’è nessuna indicazione topografica con questo nome. In più, mi sono presto accorto che settori diversi ripetono la stessa numerazione, così ci sono due 31, due 140. In più, i numeri sono spesso cancellati o poco leggibili e – dulcis in fundo – ho scoperto che la tomba di famiglia era a terra e non a loculo. Ma per trovarla mi sono dovuto rivolgere a un paio di giardinieri pratici della zona, altrimenti avrei vagato ancora per sepolcri e sterpaglie. In realtà mi avevano fermato, insospettiti dal mio girovagare. E qui purtroppo va detto che in certe zone il Verano è una savana piena di zanzare. Ha sicuramente piovuto molto, ma l’incuria è impressionante, sia perché molte famiglie si sono estinte, sia perché l’AMA non riesce a garantire una manutenzione ordinaria decente. Fa impressione vedere tombe monumentali avvolte da vegetazione infestante o in totale rovina. Ma un intervento pubblico deve distinguere tra restauro conservativo e manutenzione ordinaria, la quale in questo momento è carente per mancanza di organici e di organizzazione. Un vero peccato, perché il Verano fa parte della cultura romana ed è un luogo pieno di arte. Sarebbe anche auspicabile che sorgano associazioni culturali che adottino una serie di sepolcri da restaurare o manutenere.

Due eserciti son troppi

Lo confesso: questa storia del comandante della Wagner che guida un ammutinamento contro l’esercito regolare russo mi tiene sul  filo, sia perché dicevo da mesi che due eserciti sono troppi anche in tempo di pace, sia perché è come ripercorrere la storia del tardo Impero Romano, quando il potere dell’Imperatore era prima o poi messo in discussione da qualche generale delle legioni stanziate nelle province più remote dell’Impero, le più combattive ma scontente del Potere centrale. Imperium significa comando e come tale il termine indicava la delega riservata al comandante, che almeno fino in età repubblicana non era un militare di carriera come lo intendiamo oggi, ma un funzionario (console, magistrato, tribuno) investito temporaneamente delle funzioni di comando. Le guerre essendo stagionali, non trasformavano la funzione di comando in modo permanente. Solo dopo le prolungate guerre sociali l’esercito romano si è professionalizzato, mentre prima i soldati-contadini potevano tornare al lavoro dei campi dopo l’estate. Caio Mario è sicuramente il primo comandante che poteva contare su truppe a lui devote, mentre Scipione l’Africano resta l’esempio retorico del militare fedele alla Res Publica e pronto a ritirarsi a vita privata. Caio Mario fu anche il primo a riconoscere nell’aquila il simbolo dell’esercito, tradizione che tuttora segue il nostro Stato Maggiore. Nel frattempo Giulio Cesare aveva varcato il Rubicone e Augusto riusciva infine a stabilizzare per secoli l’equilibrio fra potere politico ed esercito, almeno fino alla crisi del III secolo (grosso modo tra il 235 ed il 284), tra il termine della dinastia dei Severi e l’ascesa al potere di Diocleziano. Senza entrare in dettaglio, fu un’epoca dove le legioni più combattive e lontane da Roma erano legate più al proprio comandante che alla Res Publica e spesso lo proclamavano Imperatore. Una dinamica simile si sarebbe poi ripetuta negli ultimi due secoli dell’Impero Romano d’Occidente. Ho tra l’altro riportato alla memoria tutte le mie letture di storia romana, accorgendomi che gli studiosi hanno affrontato la materia da un punto di vista storicistico, ma senza mai approfondire la vera natura del problema; il controllo politico delle proprie forze armate.

Passando ai nostri giorni, mi accorgo che anche l’analisi italiana del problema è partita in ritardo: gli unici studi seri escono tra  il 1982 e il 1984 e sono un articolo di convegno di Falco Accame, ammiraglio e politico italiano, e un saggio scritto dall’analista Sergio Bova per i tipi di Einaudi nel 1982 (1). Sono guarda caso anni difficili per la nostra democrazia. Nel frattempo la bibliografia internazionale – su cui sorvolo – si occupava dell’ingombrante ruolo dei militari in Africa e in America Latina e anche del controllo politico delle forze armate in Russia dopo la fine del Comunismo. Fino a quel momento il PCUS aveva mantenuto su di esse un controllo continuo, capillare e il commissario politico era una figura onnipresente anche se impopolare. Con Putin assistiamo a un fatto nuovo: accanto all’Armata coesiste una sorta di Legione Straniera; difficile parlare di mercenari nel senso stretto, visto che questa formazione militare dipende strettamente da Putin stesso.

Ma chi è realmente Evgenij Prigozhin, indiscusso comandante della compagnia di ventura statale Wagner? Non è un militare di carriera e neanche il reduce di una guerra, ma un avventuriero e un delinquente: nel 1990 a trent’anni ha iniziato come venditore di hot-dog a San Pietroburgo non appena uscito dal carcere dopo aver scontato una pena detentiva per una rapina compiuta a 17 anni. Il lavoro rende bene (1000 dollari al mese, a parte il “pizzo”) e lo estende ai locali con strip-tease e alla ristorazione di lusso. Nel 2014 riesce a ottenere l’appalto per le forniture alimentari alle forze armate. In seguito l’ex detenuto imprenditore del cibo, estende i suoi interessi economici ai mercenari che mette a disposizione del Cremlino e delle sue avventure nel mondo, offrendo alla politica estera della Russia una sorta di legione straniera svincolata dalle leggi di guerra. Poi ha fatto fortuna con una catena di negozi alimentari, il catering per le scuole e l’esercito. I suoi ristoranti a San Pietroburgo hanno più volte ospitato le cene del capo del Cremlino con i leader stranieri, da Jacques Chirac a George W. Bush, al punto da valergli il soprannome di «cuoco di Putin». E quando gli si chiede l’altr’anno di reclutare anche i delinquenti dalle patrie galere, lui che ci è stato è sicuramente molto persuasivo: come si è riabilitato lui lo possono fare anche gli altri. Prigozhin comanda 25.000 mercenari decisi e spietati, ma non viene dalla scuola di guerra e spesso ha forti perdite. Ma accumula anche oro e valuta in Africa in cambio del suo aiuto ai regimi locali. Per noi sarebbe impossibile accettare un simile individuo, ma le modalità del sistema di potere di Putin – e l’abbiamo già analizzato – ricordano quelle di un clan mafioso, o almeno quelle tipiche di una ristretta oligarchia, per cui c’è spazio anche per milizie private ma di fatto armate, organizzate e pagate da Putin, lo dimostrano gli standard di armi ed equipaggiamento. Resta da capire quale sia l’appoggio reale delle forze armate russe verso Putin e i suoi oligarchi, visto che il paese ha sentito l’esigenza di avere due eserciti invece di uno. Ora Prigozhin si è ribellato al suo padrone (a meno che non sia una manovra concordata per favorire il pugno di ferro), ma in un paese europeo chi si sarebbe mai fidato di un delinquente comune uscito di galera? Prigozhin avrà anche i suoi motivi per attaccare i generali russi, ma quelli sono comunque soldati di un esercito regolare fedele allo Stato e sta alla politica o allo stato maggiore decidere quando e perché sostituirli. Se Putin finora non era intervenuto avrà avuto il suo utile e avrà fatto i suoi calcoli, anche se li aveva già fatti male un anno fa. Difficile che 25.000 uomini potessero conquistare Mosca, ma gli applausi della gente a Rostov sul Don ai mercenari della Wagner sono un campanello d’allarme. Saranno gli storici del futuro a capire i motivi e le ricadute di avere due eserciti invece di uno, con buoni rapporti solo finché erano distanti uno dall’altro: procedure e mentalità sono molto diverse e le rivalità reciproche erano facili da intuire, gli attriti prevedibili. E’ ancora presto per capire cosa è realmente successo e soprattutto quello che succederà. Ma è facile immaginare un quadro di instabilità politica.

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Note:

  1. Il controllo politico delle forze armate in Italia / Falco Accame, in: Pace e sicurezza : problemi e alternative / F. Accame … \et al.! , p. 173-190. Milano : Franco Angeli, 1984; Il controllo politico delle forze armate : l’organizzazione della difesa nello Stato repubblicano / Sergio Bova. Torino : Einaudi, 1982