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Putin lo Zar

Putin occupa ormai ogni giorno le cronache, ma a questo punto è interessante rileggersi il saggio che Sergio Romano pubblicò nel 2016, quindi dopo l’occupazione della Crimea ma prima dell’invasione dell’Ucraina. L’autore oltre ad essere un fine analista politico è stato ambasciatore a Mosca dal 1985 al 1989, seguendo l’ascesa e il declino di Gorbaciov (più amato da noi che dai russi), l’implosione dell’Unione Sovietica e il caos che ne è seguito, politico ed economico. Non ci vuole molto a capire che la popolarità di Putin si deve alla sua capacità di mettere ordine, non importa con quali mezzi: la debolezza storica delle istituzioni democratiche e l’accentramento dei poteri in un paese immenso sono elementi russi strutturali. Non si può capire l’ascesa di Putin senza tener conto delle forze centrifughe dei governatori di provincia, delle minoranze musulmane in un paese a egemonia cristiana, e soprattutto della “cleptocrazia” (governo dei ladri) incoraggiata da Boris Eltsin, quando una minoranza di imprenditori e burocrati si è accaparrata in aste riservate gli enti di stato privatizzati e l’azionariato diffuso, ricreando la classe dei boiari come ai tempi di Ivan il Terribile. Putin con le buone o meno li ha costretti a pagare le tasse e a non comprare più tv e giornali per presentarsi in politica, anzi da quel giorno gli oligarchi che hanno provato a farla sono finiti male, come del resto sono finiti male i dissidenti di ogni ordine e grado. Putin proviene dal KGB e non riesce a immaginare una società democratica e infatti ha pure chiuso le istituzioni culturali non allineate. Ha invece favorito la Chiesa ortodossa, vera anima della Russia. Oriente significa divinizzazione del potere e anche qui Putin non fa che rinverdire le strutture profonde di un paese che occupa nove meridiani ma si sente sempre accerchiato. Putin ha ridato dignità a una società traumatizzata, esattamente come Hitler negli anni Trenta. Questo gli ha permesso di sistemare la Cecenia, intervenire in Siria, riprendersi la Crimea e reagire all’allargamento della NATO a Est. Quanto all’ipotesi di aver organizzato i sanguinosi attentati terroristici compiuti in Russia negli ultimi anni, è impossibile dare una risposta senza un’indagine indipendente. Ricordiamo però una frase del filosofo tedesco Jurgen Habermas: il terrorismo non provoca la repressione, ma la legittima.
Il libro si ferma al 2016, quindi non copre ovviamente gli ultimi due anni di guerra, anche se Sergio Romano ha rilasciato interviste (reperibili su Youtube) e curato aggiornamenti del libro (1). Non si parla p.es. della crisi politica causata dall’allargamento a Est della NATO (che del resto non è mai stato sottoposto a negoziato e ha lasciato pochi documenti ufficiali). Si accenna comunque alla crisi del Donbass e agli accordi di Minsk (mai messi in pratica da Zelensky, ndr.). I russi usano ora il termine “ricongiungimento” (in russo: vossoyedineniye) per definire queste operazioni di riconquista dei confini del tempo sovietico e traccia ce n’è persino in alcuni nostri libri scolastici. Storicamente, le uniche operazioni del genere riuscite sono la Reconquista spagnola della penisola iberica e – per duecento anni – la riconquista di Siria e Cilicia da parte dell’Impero Bizantino contro gli Arabi, più l’espulsione dei Turchi Ottomani dall’Europa dopo l’assedio di Vienna del 1683. Fallita invece la politica della Serbia verso il Kosovo e la Bosnia-Erzegovina, che avrebbe dovuto insegnare qualcosa anche a noi: la Jugoslavia era il paradigma di uno stato federale che dissolto scatena il delirio nazionalista. Naturalmente il cambio di politica ucraino dopo Maidan è stato pagato dagli agenti imperialisti: per Putin e i russi l’autodeterminazione dei popoli vale solo per gli africani. Ma le democrazie occidentali hanno fatto anche grossi errori politici: l’illusione tedesca che il commercio fosse più produttivo della guerra, la troppo rapida espansione di quella che era ed è un’alleanza difensiva, ma non è percepita nello stesso modo dai russi. Sergio Romano chiosa il libro: “dovremmo chiederci se all’origine dell’autoritarismo di Putin non vi sia anche la pessima immagine che le democrazie stanno dando di se stesse”. Ebbene, l’attuale guerra in Ucraina dimostra che Putin l’autoritarismo ce l’ha nel sangue e che se l’immagine delle democrazie è pessima, quella che ha dato lui di se stesso era al di sopra di qualsiasi previsione.


Putin e la ricostruzione della grande Russia
di Sergio Romano
Editore: Longanesi, 2016, pp. 160

EAN: 9788830445147

Prezzo: € 18,00


R.I.P. Clive Cussler, il fuoriclasse della suspense avventurosa

Prendo spunto dalla recente pubblicazione del suo ultimo romanzo intitolato “Il destino del faraone” per spendere due parole di saluto al maestro, al fuoriclasse e al creatore di numerose avventure che, per tutta la mia vita di lettore, ha accompagnato le mie giornate: Clive Cussler, scomparso il 24 febbraio, a cui va il merito di tutta la mia passione per la lettura e l’amore per il mare.

Ultimo romanzo che, neanche a farlo apposta, fa parte della serie di opere  che hanno per protagonisti Dirk Pitt e Al Giordino, i personaggi su cui l’autore ha costruito la sua fama, e la National Underwater & Marine Agency o più semplicemente N.U.M.A., l’agenzia di cui i due protagonisti fanno parte. (Agenzia poi realmente creata da Cussler e specializzata nei recuperi marittimi).

Non mi dilungherò molto su quest’opera che segue il solito filone: evento storico, tempi moderni, super-criminale, disastro marittimo, vittime da salvare e misteri da risolvere da una parte all’altra del mondo.

Per l’ennesima volta lo scrittore riesce con il suo stile a catturare il lettore nonostante la trama e l’epilogo siano piuttosto prevedibili, sfruttando la sua abilità nel creare colpi di scena mozzafiato che si susseguono pagina dopo pagina, oltre ai soliti aneddoti storici che fanno da contorno alle sue avventure senza tempo.

Ma, non solo Dirk Pitt ha fatto grande questo autore. Nel corso degli anni infatti, e con l’ausilio di altri romanzieri tra cui suo figlio, Cussler ha dato vita a più serie di opere che spaziano dall’ambito scientifico, quelle con protagonisti Kurt Austin e Joe Zavala, a quello dello spionaggio con protagonista Juan Cabrillo, passando poi recentemente ai romanzi gialli con Isaac Bell, fino ai coniugi Fargo, cercatori di tesori. Non mancano infine un paio di storie vere dove l’autore racconta le sue avventure personali nel mondo marino.

Ciò che Clive Cussler lascia ai suoi milioni di lettori è senza dubbio un patrimonio di avventure, storie, sogni e ricordi di momenti passati immersi nelle sue opere. Per nostra fortuna ce ne sono ancora parecchie in attesa di pubblicazione anche se il pensiero che prima o poi finiranno non è di certo rincuorante ma del resto tutte le belle storie finiscono.

Non è escluso che suo figlio, Dirk Cussler, tenterà di portare avanti il filone di romanzi come è già accaduto nelle ultime opere scritte a quattro mani, l’idea però di non vedere più il suo nome scritto sulle copertine farà un certo effetto.

Che dire, mancheranno i suoi personaggi, la sua ironia, le sue auto, le sue navi e i suoi mari, ma ancor di più mancherà quel vecchietto che nei momenti più impensabili dei suoi libri compariva per poche pagine a dare una mano ai protagonisti. Quel vecchietto si chiamava Clive Cussler e, come loro lo ringraziavano per il piccolo aiuto fornito, anche io voglio concludere con le sole parole che mi vengono in mente ripensando a tutto ciò che mi ha regalato: grazie maestro.


Titolo: Il destino del faraone
Autore: Clive Cussler, Dirk Cussler
Traduttore: Federica Garlaschelli
Editore: Longanesi, 2020, pp. 416
€ 19,50
EAN: 9788830454354
ISBN: 8830454354

Disponibile anche in ebook


Dalle ceneri di Roma

Rivisitazione approfondita di un imperatore accusato, forse ingiustamente, di aver acceso il fuoco sbagliato.

Nerone. E’ forse uno dei nomi storici più forti da pronunciare, un nome in cui è racchiuso il potere di un uomo che rase al suolo una città come Roma, la Roma dell’Impero Romano. Ma fu davvero lui il colpevole?
La scrittrice americana Margaret George ripercorre la vita di questo notevole personaggio con un romanzo intitolato semplicemente “Nerone”, dove la figura dell’imperatore viene completamente rivisitata stravolgendo la sua immagine di despota dedito alle pazze gioie, in favore di un più mite e razionale sovrano, non privo di difetti ed eccessi, ma neanche così terribile come a lungo si è creduto. E’ l’autrice stessa nelle note finali, a spiegare come, in seguito a recenti studi ed analisi storiografiche, la figura dell’imperatore sia stata notevolmente rivisitata rispetto a quanto si sapeva di lui in precedenza.
Il romanzo parte dall’infanzia del piccolo Nerone il cui nome prima di diventare imperatore era Lucio Domizio Enobarbo, nipote di Caligola e discendente di Augusto per parte sia di padre che di madre: la famosa Agrippina minore che ne combinò di cotte e di crude e che condizionò non poco la vita del giovane. L’autrice dedica particolare attenzione alle vicende di palazzo anzi, dei palazzi, dove Nerone crebbe al seguito della madre, una grande stratega capace di costruire trame, intrighi e congiure ma, soprattutto, abile nell’infilarsi nei letti migliori.
Il carattere apparentemente influenzabile dei primi anni lasciò pian piano il posto ad una volontà più ferrea che portò Nerone ad essere maggiormente padrone di sé dimostrando che, sia nell’ambito politico che in quello strategico, egli fu un abile interprete del suo ruolo nonostante la giovane età, merito forse degli insegnamenti di Seneca e Burro, risolvendo positivamente anche alcuni duri conflitti nel vasto impero.
E i delitti a lui imputati? Tali rimangono, ma motivati da una logica, se così si può definire, che in quel tempo era più che normale per rimanere al potere, lo stesso Augusto non fu un santo in quel senso, né Claudio subito prima di Nerone.
Ma allora come si è arrivati a descriverlo come un uomo pazzo e terribile? Non che l’autrice sia in possesso di una verità assoluta, essa però sottolinea come le biografie di Nerone arrivate fino ai giorni nostri, siano state parecchio condizionate dalle correnti di pensiero degli stessi biografi: aristocratici che non vedevano di buon occhio il suo favore nei confronti del popolo, con memorie raccolte oltretutto molto tempo dopo la sua morte. Lo stesso incendio di Roma viene presentato con dinamiche diverse che potrete scoprire leggendo il libro.
La storia di Nerone non è sicuramente la prima ad aver subito modifiche e rivisitazioni nel corso degli anni ma, la presenza di dati certi, di alcuni più imprecisi e di altri frutto di elaborati studi o congetture ci permettono comunque di godere le gesta memorabili, nel bene e nel male, di personaggi che rimarranno per sempre impressi nella nostra memoria; proprio come lui, la cui mente acuta lo portò ad essere un innovatore su più fronti, purtroppo offuscati dal fuoco di un incendio dalle cui ceneri emerse l’immagine di un despota senza cuore, che probabilmente egli non fu.
Non abbiate fretta di arrivare all’epilogo e l’autrice vi spiegherà meglio il perché nelle note finali, ma godetevi piuttosto il fascino di un personaggio e del suo mondo circostante: una Roma ancora una volta magnifica e infinita, abbellita anche dall’arte che lo stesso Nerone promuoveva in ogni sua forma, dalla musica al teatro, senza dimenticare il suo interesse per l’architettura, lo sport e i giochi; che fosse questo il suo vero essere da tramandare ai posteri? Sicuramente rimane ancora qualcosa da scoprire…
Dopo Enrico VIII, Cleopatra, Elisabetta I e altri romanzi perlopiù biografici, Margaret George si cimenta ancora una volta in un romanzo storico con protagonista uno dei personaggi più intriganti del passato, senza risparmiarsi troppo sulla lunghezza resa leggera dal ritmo veloce e incalzante a cui già ci aveva abituati; del resto lei fa parte di quegli autori che la storia la fanno amare, e ancora una volta è così.

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Titolo: Nerone
Autore: Margaret George
Traduttore: F. Garlaschelli
Editore: Longanesi, 2018, pp. 544
Prezzo: € 22,00

Disponibile anche in ebook

EAN: 9788830450813

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Tra una Costituzione disattesa o un eccesso di difesa

Da dove iniziare? Naturalmente dall’articolo 11 della Costituzione:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

L’Italia dunque rifiuta la guerra, tant’è vero che lo ha messo per iscritto e a chiare lettere. Ma è proprio vero? Storicamente lo è, ma solo dopo la disastrosa sconfitta militare che ha spazzato via il regime fascista e la monarchia che lo aveva appoggiato. Fino a quella data l’Italia di guerre ne ha fatte tante, con alterne vicende e col supporto di un apparato ideologico superato solo da pochi anni. Il libro di Andrea Santangelo a dire il vero inizia da molto lontano, addirittura dalla preistoria e protostoria italiche, mentre forse troppo poco è dedicato ai decenni più recenti. Che le legioni romane siano un esempio perfetto di grande unità funzionale ai fini strategici di Roma lo sapevamo, com’è assodato che le guerre italiane sono passate dai professionisti al popolo grazie alle guerre napoleoniche, lasciandosi alle spalle le compagnie di ventura e le guerre dinastiche. L’excursus storico copre mille anni, ma in effetti senza leggerlo è difficile capire come mai una penisola in mezzo al Mediterraneo possa essere, a seconda delle epoche, troppe volte terra d’invasione (anche ora) e quasi mai potenza egemone. In senso negativo hanno influito sicuramente il frazionamento politico che segue la caduta dell’Impero Romano, il feudalesimo, il potere temporale dei Papi e così via. Ma arriviamo finalmente all’unità d’Italia, guarda caso attraverso le guerre d’Indipendenza, tre per i manuali scolastici, quattro con la Grande Guerra secondo la vecchia ideologia. L’Italia a quel punto cosa fa? Ambisce al ruolo di media potenza e, pur priva di risorse, sgomita per entrare nel concerto europeo, cerca di conquistare colonie e devolve alle forze armate parte consistente del PIL, introducendo la leva obbligatoria e stabilendo la centralità dell’Esercito nella vita sociale italiana. La guerra poi può anche deflettere verso l’esterno le tensioni sociali, come sanno tutti i nazionalisti. La dinastia sabauda poi ha origini e tradizioni guerriere e le ribadirà fino alla fine, anche se nessuno dei Savoia regge il confronto con gli antenati: Emanuale Filiberto comandante dell’invitta 3° armata nel 1917 è un mediocre stratega e il Duca d’Aosta che si arrenderà ad Amba Alagi nel 1941, in quei frangenti altro non poteva fare. Quanto a Vittorio Emanuele III, si fa sempre ritrarre in divisa e nella Grande Guerra è il Re Soldato che visita tutti i reparti, ma nel 1943 lascia i soldati al loro destino. Quanto abbia influito nel Regno d’Italia lo spirito di casta dei militari di alto grado legati al Re ma nei fatti poco preparati al loro mestiere è comunque un argomento trattato nel libro. Sia chiaro: in Italia il concetto di casta è relativo, visto che agli alti gradi delle FF.AA poteva arrivare anche la piccola e media borghesia di provincia, ma quello dei militari di carriera era ed è rimasto per decenni un mondo a parte. Peccato che l’autore non vada in profondità, perché la Grande Guerra ha messo in crisi un sistema intero e perché alla fine le guerre italiane si somigliano tutte, comprese le attuali c.d. operazioni di pace: la mancanza di risorse spinge ad alleanze temporanee, le decisioni politiche non vengono affrontate in modo coordinato; le operazioni militari sono inizialmente assai caute, lente, e il dispositivo militare si dimostra sempre sottodimensionato e inesperto, salvo imparare la lezione a proprie spese e se il nemico gliene lascia il tempo. Il risultato è quindi alla fine sempre inferiore alla spesa e lo sforzo richiesto agli italiani supera il preventivo iniziale. Niente di che meravigliarsi se a livello popolare esercito e guerre non sono la passione degli italiani. Andrebbe però meglio analizzato il rapporto profondo che lega gli italiani alla propria classe dirigente, visto che le guerre non si fanno senza un consenso collettivo. Il Fascismo ha cercato di ottenerlo, ma nella riforma delle proprie forze armate ha inciso solo sulla forma (scenografica) e non sulla sostanza, affrontando una guerra mondiale con un esercito buono per quella precedente, e non incidendo assolutamente sulla casta militare sabauda, antiquata e poco aggiornata sulla guerra moderna. E’ vero che l’esercito era del Re, ma le Camicie Nere (MVSN) non erano certo meglio comandate, addestrate ed equipaggiate dei reggimenti di linea. Di questo il libro poco parla, ma sarebbe invece un ottimo argomento di studio. Già comunque lo storico inglese Denis Mack Smith ne Le guerre del Duce (1976) aveva notato che il Fascismo ha sempre cercato la guerra ma poco si dava da fare per organizzarla in modo moderno. Ma passiamo al dopoguerra: l’Italia ha perso tutto, è stata devastata da sud a nord e sia popolo che nuova classe politica di guerra non ne vogliono più sapere. L’Italia però entra nella NATO nel 1948 e fino alla fine della Guerra Fredda (1989) avrà precisi obblighi militari, subordinati agli USA, che hanno interesse ad avere basi militari proprie e considerano il nostro paese strategicamente importante. Sono gli anni dell’egemonia democristiana, ma anche quelli in cui tutti gli italiani maschi hanno fatto il militare nell’arco geografico che va da Bolzano a Trieste. Ma sono comunque anni di pace, mentre nell’arco della loro vita i nostri nonni e padri hanno fatto anche due guerre. Da trent’anni a questa parte abbiamo poi scoperto (o riscoperto) la nostra vocazione internazionale e accettiamo di mandare soldati ovunque la pace sia minacciata, cioè quasi dappertutto. Le c.d. operazioni di pace sono affidate ragionevolmente a soldati professionisti e il bacino di reclutamento è assicurato dalla disoccupazione meridionale, ma bisogna prendere atto che la loro qualità – ufficiali e sottoufficiali compresi – è sicuramente migliorata e la loro esperienza preziosa. Rimane aperta la questione di cui si parlava prima: quali sono gli interessi nazionali e come vengono prese le decisioni politiche? Ci siamo fatti invischiare in Iraq e in Afghanistan; la Folgore nel 2000 l’abbiamo mandata persino a Timor Est, mentre in Libia nel 2011 la guerra ce la siamo fatta da soli, né ancora si capisce bene come vogliamo gestire il problema dei migranti e di chi traffica sulle loro vite. Sappiamo ora dalla TV che manderemo soldati in Niger, ma – per carità – non combatteranno. Nel frattempo ci si è accorti di quanto costa un esercito professionale e si vorrebbe reintrodurre una sorta di servizio militare ausiliario. Purtroppo l’instabilità politica italiana non aiuta né ha mai aiutato la strategia. Infine, nell’ultimo capitolo l’autore ipotizza la natura delle guerre del futuro, compresa la cyberwarfare. Che dire? Chi fa la guerra non produce armi e noi le esportiamo. La guerra elettronica è una eccellenza russa e americana, mentre noi europei ancora non riusciamo a coordinare un’industria bellica comune. Sul terrorismo nulla di originale; sulla resilienza dell’italiano medio di fronte alle varie crisi imposte dalla globalizzazione poche righe. Ma lascerei aperto il capitolo, anche se scritto nel 2017: le operazioni russe in Siria suggeriscono la sopravvivenza di operazioni militari tradizionali integrate da guerra irregolare, i c.d. conflitti misti. Mai fare l’errore di prepararsi a combattere un solo  tipo di guerra. E soprattutto, non rimuovere il problema. Fino alla Guerra Fredda la guerra veniva chiamata col suo nome, ora si parla solo di pace, anche quando si mandano i soldati in missione in zone dove si spara. Parlate coi militari e sentite cosa ne pensano delle belle parole riservate al telegiornale! Indicativa poi è la storia del 4 novembre: fino al 1976 era festa nazionale ed era ufficialmente il giorno della Vittoria (del 1918); successivamente è stato derubricato e ogni anno viene ribattezzato e ridefinito in una maniera diversa. Se anche la guerra è stato l’elemento che ha unito l’Italia e gli italiani, perché negarlo? E per una volta che abbiamo vinto noi, perché dobbiamo vergognarcene? Come si vede, l’Italia è ancora un paese politicamente giovane.

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L’Italia va alla guerra.
Il falso mito di un popolo pacifico
di Andrea Santangelo

Editore: Longanesi, Milano, 2017, pp. 199
Prezzo: € 16,90
EAN:9788830448261

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