Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Lettori spiati, Scrittori addio

Mi hanno incuriosito due notizie, che cercherò di collegare secondo una logica. La prima è che esiste un controllo capillare degli e-book che leggiamo, il quale è utilizzato dai grandi editori. L’altra notizia riguarda lo sviluppo di due tipi di algoritmi: il primo per capire o addirittura prevedere il successo di un libro, il secondo per costruire e formalizzare testi tecnici.

La prima notizia è inquietante: il gruppo Adobe spia i lettori digitali attraverso l’app *Digital Editions 4* e i dati viaggiano in chiaro. I grandi gruppi editoriali americani controllano dunque non solo le vendite o la lettura in linea degli e-book e l’eventuale pirateria, ma anche il titolo del libro, l’autore, la data di acquisto, la durata della lettura, la percentuale letta, quali pagine sono state lette, l’identificativo univoco dell’utente, del dispositivo di lettura e l’indirizzo IP. E’ una violazione del privato che va ben oltre la gestione commerciale. Sapere che qualcuno controlla i titoli dei libri che leggo e persino i capitoli letti può darmi fastidio, ma se fossi un dissidente cinese o uno studente islamico mi preoccuperei : chi mi assicura che quei dati saranno gestiti esclusivamente da Amazon o Google Books e non passati piuttosto a un’agenzia di stato per la sicurezza? La fantasia di George Orwell oggi è superata dalla realtà.

La seconda notizia riguarda lo sviluppo di una serie di algoritmi. Per algoritmo s’intende un procedimento formale che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passaggi semplici. Col supporto dell’informatica, oggi il settore si è molto sviluppato. Nel primo applicativo – capire i motivi del successo di un libro – si analizzano gli elementi lessicali e sintattici più ricorrenti nei libri più venduti, più la serie degli argomenti e dei motivi che caratterizzano l’opera. I risultati sono curiosi: sono più popolari i romanzi che descrivono più sentimenti che azioni, quelli dove le descrizioni di ambiente sono messe nel punto giusto, mentre la sintassi preferita è quella coordinata invece che subordinata. Anche la lunghezza del periodo conta molto, esattamente come la scelta degli aggettivi, che non devono mai mancare. Che dire? Balzac o i Dumas ci arrivavano col genio e l’esperienza, mentre gli onesti e duttili professionisti della penna tanto diffusi nel mondo anglosassone e francese hanno comunque sviluppato nel tempo buone capacità se non creative, almeno redazionali. Capire cosa vuol leggere la gente e saper mettere l’imprevisto o la descrizione d’ambiente nel punto giusto è parte del mestiere, come lo è preparare per bene il momento in cui i due amanti finiranno a letto. E se gli scrittori italiani fossero meno aristocratici, avremmo anche noi una buona letteratura di consumo, pur senza arrivare agli eccessi di Harmony, una serie che sembra veramente scritta da una macchina. Ora, proprio le macchine vengono in aiuto dello scrittore e dell’editore, assicurando dunque il successo di un futuro best seller. Detto così è stupendo ma forse troppo ottimistico. Intanto diciamo subito che il genio è un’altra cosa. Gli algoritmi in questione sicuramente hanno senso per forme letterarie industrializzate, che vanno dal best-seller agli sceneggiati televisivi, ma i gusti del pubblico sono anche aleatori: magari il mercato è saturo di storie d’amore tutte uguali e la gente è attratta dalle biografie dei terroristi. Oppure entra in scena uno scrittore che ha il coraggio di proporre un’idea originale senza curarsi dei sondaggi, anche se è più facile che lo ascolti un piccolo editore piuttosto che un colosso della letteratura commerciale. E come nella vita reale, spesso la trasgressione paga più del conformismo. Il limite di questi algoritmi è che, pur aiutando gli editori a strutturare meglio i loro prodotti, non possono stabilire in anticipo e con approssimazione matematica il successo di un libro. Ma se dalla creazione letteraria passiamo alla compilazione di testi scientifici destinati a un mercato professionale definito, le cose cambiano.

Passiamo dunque alla seconda serie di algoritmi, un sistema brevettato nel 2007 da Philip M. Parker, professore di marketing alla INSEAD Business School. Nel sito c’è anche un video che mostra il procedimento passo per passo. Consiglio di studiarlo e di rivederlo più volte. In sostanza, si sceglie un argomento, si setacciano tutti i siti dove questo è trattato e si infilano in una specie di tritacarne informatico che spunta i doppioni, organizza e impagina il materiale, struttura intestazioni principali e secondarie, numera le note e compila gli indici analitici, decide corpo e formato e dei caratteri. Alla fine esce un libro vero, impaginato e stampabile. Con questo sistema l’agenzia che ha sviluppato l’algoritmo afferma di aver prodotto più di 800.000 opere a minimo costo e di venderle su Amazon. Sono prodotti di nicchia a tiratura programmata, basta vedere i titoli: lo studio di malattie rare, l’analisi del fatturato del commercio della gomma per la produzione di preservativi. Nelle opere di mera compilazione va messo in conto almeno un redattore, mentre in questo modo i costi sono azzerati e il prezzo di listino non è assurdamente alto come per le riviste del gruppo Elsevier o di Serra editore. Ma cerchiamo ora di analizzare meglio la fattura di queste opere. Intanto per la compilazione del testo finale si macina materiale già scritto in inglese secondo uno standard fissato dagli editori di genere, con regole redazionali precise, su cui si scontrano quei ricercatori italiani costretti a rinunciare alle loro barocche elucubrazioni. Buffo è che potremmo scrivere in automatico anche un fantasioso libro su un argomento assurdo, purché documentato in una quindicina di siti pseudoscientifici. In ogni caso, le operazioni di base non le ha inventate Parker: un motore di ricerca accademico seleziona gli argomenti in base anche alla semantica, mentre con Word un redattore sa strutturare titoli, grassetto, corsivi, capoversi, note numerate e indici, mentre con XPress chiunque può impaginare il testo e farne un libro. Sorprende casomai la capacità automatica di condensare e strutturare coerentemente in un testo unico fonti diverse, operazione semantica e non solo formale. Anche decidere cosa vada inserito nel testo principale piuttosto che in nota è un problema logico che va ben oltre l’impaginazione, in quanto entriamo nella strutturazione gerarchica del sapere. Sicuramente dall’uso di questi algoritmi possono trar vantaggio i redattori di relazioni aziendali e i giornalisti specializzati in economia e finanza, costretti a impaginare continuamente grafici, tabelle e dati statistici in strutture formalizzate ripetitive. L’importante è che l’editore non pensi di fare a meno dei giornalisti.

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Ebola e le lingue ariane

Anche lo studio sulla diffusione dei virus può aiutare la linguistica. Questo è il ragionamento che ha suggerito di applicare anche alla filologia metodi e algoritmi inizialmente studiati per ricostruire l’origine e seguire l’evoluzione dei virus e prevenire magari le epidemie. Tutto questo s’inquadra nella collaborazione tra discipline diverse che in linguistica ha messo in contatto i filologi con i biologi e gli informatici, nel tentativo di reinventare la linguistica storica su basi più scientifiche. Questi studiosi trattano le parole come i teorici dell’evoluzionismo trattano i geni e concettualizzano la diffusione delle lingue come gli epidemiologi modellano la diffusione dei virus. Il metodo – sostengono – ha permesso di rispondere a grandi interrogativi di vecchia data, in particolare quello sull’origine della famiglia c.d. indoeuropea. Sicuramente c’era bisogno di metter ordine, se solo si pensa all’ambiguità dello stesso termine *indoeuropeo*, che mischia etnia con lingua e geografia, esclude gli apporti di Medio Oriente e Asia Minore e fa quasi rimpiangere il vecchio e discusso termine *ariano*, anche se ai guerrieri a cavallo armati di armi di bronzo che invadevano dall’Asia le steppe d’Europa parlando una lingua comune ormai credono in pochi. Oggi gli studiosi sono sostanzialmente divisi tra i sostenitori di due ipotesi: la prima prevede che i primi parlanti fossero agricoltori del Neolitico che emigrarono dall’Anatolia, la seconda li individua in allevatori di cavalli dell’Età del Bronzo che, partendo dalle steppe dell’Eurasia, si diffusero successivamente in Asia e in Europa portando con sé importanti innovazioni tecnologiche come la ruota e le armi di metallo. Teoria classica e sfruttata anche troppo dalle ideologie nazionaliste e razziste degli ultimi due secoli. La seconda teoria, più recente, registra e segue l’aumento della popolazione e l’espansione dei popoli in funzione dell’agricoltura, che alla fine del neolitico permise di mantenere gruppi sociali più numerosi e di stabilizzarne le attività. Nessuna delle due teorie è esente da pregiudizio, ma almeno la seconda è supportata dalla genetica, la quale va apparentemente oltre l’ideologia. Vediamone in breve i risultati.
Intanto è ormai geneticamente provato che il genere umano si è espanso dall’Africa in almeno due migrazioni. Le analisi genetiche di Alan R. Templeton, della Washington University di St Louis, propongono un nuovo schema filogenetico, ottenuto combinando dati e geni di varie popolazioni, per ricostruirne i movimenti. (1). L’analisi di GEODIS ha indicato che una prima migrazione dall’Africa avvenne fra 840.000 e 420.000 anni fa, mentre una seconda, molto più recente, fra 15.000 e 80.000. L’analisi mostra anche che l’ondata di uomini non si limitò a sostituire le popolazioni già residenti in Europa, ma vi fu una fusione. La razza pura dunque non esiste.
Lo stesso sistema è stato usato per analizzare la variabilità delle parole imparentate in 109 lingue indoeuropee antiche e moderne. L’idea di base era che i tassi di apparizione e di scomparsa delle parole imparentate fossero assimilabili a quelli dei nucleotidi nell’evoluzione del patrimonio genetico del virus. Negli studi di linguistica del resto è normale individuare l’origine di una data lingua tracciandone anche la diffusione geografica, analizzando le variazioni nel vocabolario, nelle pronunce e nella grammatica e confrontandole poi con i dati disponibili sulle antiche migrazioni delle popolazioni dei parlanti. L’ultimo studio in ordine di tempo, diretto da Quentin D. Atkinson dell’Università di Oxford, porta a concludere che i primi parlanti indoeuropei abitavano l’Anatolia, che corrisponde all’Asia minore di Greci e Romani o, in termini moderni, alla Turchia asiatica, supportando così una delle due teorie concorrenti sostenute da diversi studiosi. Secondo le conclusioni dello studio, le simulazioni al computer sono infatti compatibili con l’ipotesi dell’Anatolia più che con l’ipotesi delle steppe euroasiatiche. Ma il risultato è destinato ancora a dividere gli studiosi. Alcuni linguisti hanno già sottolineato che non può essere considerato conclusivo, soprattutto per la parzialità dei dati utilizzati, relativi al solo vocabolario. Ma torneremo su quest’argomento.
Terzo punto: la fase successiva: circa 9000 anni fa, popolazioni provenienti dal Medio Oriente arrivarono in Europa passando per l’Anatolia, e da lì attraverso Creta e le isole del Dodecanneso, si diffusero per tutta l’Europa del sud. Lo ha stabilito un’analisi genetica su circa 1000 individui di 32 popolazioni diverse di Europa, Africa e Medio Oriente, e hanno cercato specifiche varianti denominate polimorfismi a singolo nucleotide, che riguardano differenze nei singoli “mattoni elementari” che costituiscono la catena del DNA. Risultato: le popolazioni del Neolitico potrebbero essere migrate dunque in Europa dal Medio Oriente lungo diverse isole del Mediterraneo. È il risultato di uno studio di genetica di Peristera Paschou, dell’Università “Democrito di Tracia” ad Alexandroupolis. Paschou e altri ricercatori hanno analizzato il DNA di soggetti europei, mediorientali e nordafricani ricostruendo la distribuzione geografica di specifiche varianti genetiche note come polimorfismi a singolo nucleotide e deducendone quindi le rotte seguite nelle migrazioni dei loro lontani antenati. Il genoma degli europei mostra i segni di un mescolamento di geni delle antiche popolazioni paleolitiche, che colonizzarono il Vecchio Continente circa 35.000 anni fa, con quelli delle popolazioni neolitiche, originarie del Medio Oriente, che arrivarono in Europa circa 9000 anni fa. Incerte sono ancora le stime del contributo dei geni neolitici al genoma europeo, variabili, tra il 10 e il 70 per cento, secondo il tipo di analisi usata. Gli studiosi tuttavia concordano sul fatto che queste popolazioni mediorientali abbiano portato in Europa trasformazioni epocali, come nuove tecniche agricole e forse anche le lingue c.d. indoeuropee. Ma quali rotte migratorie seguirono questi agricoltori neolitici? Le ipotesi, sostenute anche da scoperte archeologiche, sono tre. La prima, via terra, parte dal Vicino Oriente e passa per l’Anatolia, e poi da lì attraverso il Bosforo e i Dardanelli verso la Tracia, nell’attuale Grecia, e va verso i Balcani. Una seconda via, marittima, passa per le coste ora turche e attraversa le isole del Mediterraneo, arrivando alle coste dell’Europa meridionale. La terza via parte dalle coste del Medio Oriente e attraversa invece le isole dell’Egeo e arriva in Grecia. Con questo tipo di analisi, è possibile ricostruire come le caratteristiche possano variare con la geografia: le differenze tra il DNA di un europeo e quello di un africano aumentano andando da est verso ovest. In particolare, l’analisi dettagliata è compatibile con l’ipotesi che la maggior parte delle migrazioni del Neolitico abbiano seguito la rotta marittima, e nello specifico quella che collega la regione costiera dell’Anatolia, ed Europa meridionale, passando per Creta e per le isole del Dodecanneso. Da qui, le popolazioni di agricoltori del Medio Oriente si sparpagliarono per tutta l’Europa del sud.
La ricerca in realtà è condizionata da un pregiudizio: che una lingua sia un elenco di parole, mentre la realtà è che l’evoluzione linguistica non può essere compresa attraverso modelli non-linguistici che riducono la lingua a una semplice raccolta di parole. Né si capisce perché si parli tanto di agricoltura e poco di allevamento seminomade o di popoli cacciatori raccoglitori, che si devono spostare per ampi spazi in tempi anche brevi per trovare le risorse alimentari necessarie alla loro crescita demografica o per adeguarsi a un diverso regime climatico o idrico.
E qui arriviamo al quarto punto: per andare oltre le parole dobbiamo entrare in un campo più avanzato e affrontare grammatica e sintassi. Poiché i vocabolari cambiano molto rapidamente, il loro uso per determinare i cambiamenti delle lingue nel corso del tempo può consentire di raggiungere al massimo epoche distanti fra gli 8.000 e 10.000 anni. Per studiare i linguaggi del Pleistocene, il periodo compreso fra 1,8 milioni e 10.000 anni fa, Michael Dunn e colleghi del Max-Planck-Institut di psicolinguistica di Nimega, in Olanda (link: http://www.mpi.nl/), hanno sviluppato un programma al computer che analizza le lingue basandosi su come le parole sono legate le une alle altre. Rimandiamo al lungo articolo di Dunn, scaricabile liberamente (2), che ci porta però molto lontano dall’Europa, visto che studia la parentela genetica fra le lingue estese tra Australia e Nuova Guinea. Risultato notevole, visto che lì mancano testi scritti e le popolazioni sono notevolmente disperse o demograficamente poco consistenti. Dunn dimostra in modo convincente che le strutture profonde, sintattiche, permangono nel tempo e nella dispersione etnica in modo anche indipendente dal vocabolario, che può invece cambiare nel tempo o prendere parole dai vicini. E c’è solo da sperare che con lo stesso metodo si affrontino anche le lingue parlate in Europa, superando anche la tradizionale divisione scolastica fra grammatica e sintassi, cosa che Noam Chomsky aveva già fatto da tempo, a favore di uno studio dei processi mentali e genetici che sottendono la strutturazione gerarchica della sintassi intesa come organizzazione del linguaggio.

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Ebola diventa business peluche e magliette ebola_panty3NOTE:
• (1) Si è analizzato l’albero genealogico genetico ottenibile dal DNA mitrocondriale e da altre regioni di DNA. Usando il software GEODIS, creato dallo stesso Templeton nel 1995, sono state determinate le relazioni genetiche fra le popolazioni basate su specifici aplotipi, o gruppi di geni che vengono ereditati collettivamente. Le conclusioni raggiunte in questo modo sono più solide dei risultati ottenuti da studi che prendevano in considerazione una sola area del DNA.
• (2) http://www.plosbiology.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pbio.1000241

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Manoleste

Sua Santità ha recentemente accusato i romani di trattare con disprezzo i rom che salgono sui mezzi pubblici. E’ vero, ma dovrebbe anche raccontarla per intero. Tuttavia suggerisco di non inseguire facili stereotipi: se alcuni delinquenti abituali sono noti, palesi e sfacciati, non sono i più pericolosi. Alludo ai distinti, quelli che ti chiedono sempre informazioni davanti alla banca o all’ufficio postale; quei signori tanto gentili – troppo – che si offrono di portarti i bagagli alla stazione Termini o girano frettolosi per scompartimenti e corridoi dei vagoni senza neanche una borsa e solo per scendere due minuti prima che il treno parta. Scommetto che alcuni sono persino incensurati.
A scanso di equivoci, non sto parlando di chi ruba per fame e può esser recuperato dai servizi sociali, ma dei professionisti recidivi. E qui il consiglio è uno solo: non fissatevi su ciò che un uomo sembra, ma su quello che fa.
Tanto per fare un esempio: alla fermata dell’Atac tutti guardiamo a sinistra per vedere se arriva l’autobus; ma se qualcuno invece fissa le borse, allora non va bene. E ricordatevi che il ladro non è mai solo: ha sempre un complice che si mette davanti alla porta e rallenta il flusso in uscita, oppure segnala la preda al compare, o ti distrae chiedendoti un’informazione mentre l’altro ti mette la mano in tasca. Ed ora guardatevi intorno : scoprirete che troppi si fanno avvicinare da tutti, che tengono i soldi o il bagaglio personale in modo sbagliato; che non chiudono la borsa; che non si guardano mai alle spalle o con troppa disinvoltura prendono i soldi al bancomat senza chiedersi se qualcuno li stia osservando, o peggio, lasciando in giro lo scontrino. E non sono sempre turisti o provinciali.
Mi è capitato di metter sull’avviso un gruppo di ragazzi romani, solo per farmi guardare strano: a loro proprio non passava per la mente che qualcuno potesse rubargli il portafoglio o il telefonino. Eppure non erano sprovveduti, sicuramente nella loro periferia sapevano riconoscere a volo i ladri d’auto o gli scippatori. In ogni caso chi ha un negozio o gira sempre a piedi o prende i mezzi pubblici ha un occhio più allenato, riconosce il ladro anche dall’andatura (furtiva o casuale), diversamente da chi guida e deve solo controllare semafori e precedenze. Ma siccome le masse di turisti girano per lo più a piedi, i borseggiatori a Roma usano la fiocina, sono scene che vediamo ogni giorno, quindi non dico niente di nuovo.
Fa rabbia però la mancanza di un vero contrasto sistematico e collettivo. Vero è che gli arresti sono frequenti – 600 negli ultimi mesi, su 7000 e passa denunce – ma sappiamo benissimo che per i reati per i quali è prevista una pena inferiore ai tre anni non c’è la pena detentiva ma solo l’obbligo di firma.
Se poi l’autore del reato è un minore, può essere solo riaffidato ai genitori, ma immaginiamo tutti che tipo di rieducazione possono dare le famiglie a quei gruppi di ragazzine che vediamo sulla metro o persino sotto il Campidoglio.
Si è parlato anche di istituire la polizia turistica (un’altra!), ma basterebbe che gli stessi vigili si diano da fare sul serio, tanto certe facce son sempre le stesse, né basta mascherarsi da turisti.
Sarà un caso, ma da quando il Messaggero ha pubblicato foto inequivocabili di flagranza di reato, ai piedi del Campidoglio stazionano sempre un paio di vigili. Ma non è solo una questione di presidio: non si capisce p.es. perché alla stazione Termini non esistano da anni né facchini né carrelli, col risultato di rendere stanziali quelli che onestamente o meno ti vogliono per forza aiutare a portare i bagagli.
In sostanza, a Roma vogliamo il turismo perché fa comodo, ma non sappiamo proteggerlo. E qui metto in conto anche le guide turistiche improvvisate, i tassisti abusivi, i chioschi mobili senza prezzi segnati, i B&B fai-da-te, i conti taroccati al bar e al ristorante, i posteggiatori e truffe varie.
Niente di strano se poi il britannico Foreign Office, l’omologo del nostro Ministero degli esteri, mette ufficialmente in guardia i propri concittadini che vengono a Roma.
Ha un bel dire il nostro sindaco che quelle son notizie false, che i romani si sono offesi (!) e che anche Londra è pericolosa: nella percezione urbana il borseggio è una piaga sociale priva di un deterrente credibile, divenuta endemica in seguito ad una cattiva gestione dell’ordine pubblico, aggravata sì dalla crisi economica, ma anche dalla pratica giudiziaria. Le sentenze della magistratura vanno sicuramente rispettate, ma se una società cambia, perché mai le leggi dovrebbero restare quelle di cinquant’anni prima, quando un problema era marginale? E se la protervia dei delinquenti spingesse i cittadini a far da soli, sarebbe forse meglio? Che senso ha mandare i soldati nei Balcani se non sappiamo poi gestire i Balcani trasferiti a Roma? E se per legge si proibisce ai tifosi violenti di frequentare gli stadi per mesi o anni interi, perché invece si permette al ladro appena rilasciato di salire di nuovo sul 64?
A parte l’affollamento delle carceri, sicuramente a favore del garantismo italiano ha influito a suo tempo l’idea democratica di non permettere dopo il Fascismo leggi che potessero essere usate anche contro i dissidenti politici. Solo che la Germania ha avuto una dittatura peggiore, ma non per questo ha leggi più generose di quelle italiane, anzi. Ed è ovvio che il delinquente – italiano o straniero non importa – sceglie il paese dove rischia di meno; è umano che lo faccia. Quindi, occhio al portafoglio.

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Fotomania

Parlando con una guida turistica mia amica, il discorso è caduto sul Museo civico archeologico di Velletri. “Dottore, guardi che quel museo non se lo vedrà mai nessuno”. Incuriosito, le ho chiesto il motivo. “Semplice: non permettono di fare le foto”. Al che mi ha spiegato la sua teoria: più la gente può riprendere immagini, più queste saranno proiettate e riproposte nei vari siti e nei social network e quindi produrranno un effetto di moltiplicazione sulla popolarità e dunque sulla promozione del luogo fisico.
Il discorso non fa una piega, e bene lo ha capito il Metropolitan Museum di New York che permette lo scarico e la circolazione gratuita di 400.000 immagini prodotte dal museo. Ma io aggiungo: la singola persona aumenta il proprio prestigio personale con un monumento o un’opera d’arte per sfondo.
Parafrasando il noto saggio di Walter Benjamin (l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica), potremmo andare oltre e parlare oggi di riproducibilità tecnica *dell’immagine* dell’opera d’arte, ridotta spesso a supporto feticistico per il proprio esibizionismo. Sport di massa: se una volta educatamente mi fermavo vedendo un turista che fotografava un monumento o sua moglie in posa , oggi gli traverso la strada.
Vista la massa di gente che fotografa tutto, a far come mi ha insegnato mio padre resterei sempre fermo per strada. So benissimo di essere finito in almeno cinquecento album di turisti giapponesi e mi sono riconosciuto in una foto di Google Street View ripresa davanti al negozio di famiglia, lo stesso dove i turisti fotografavano mio padre come elemento caratteristico.
Non mi sorprenderei di rivedere un giorno la sua immagine su National Geographic. Perché in fondo la filosofia è una sola: la mia immagine è pubblica, quindi esisto. Forse questa tendenza era latente nella società, ma ora sicuramente il basso costo della riproduzione digitale e la facilità d’uso dei nuovi dispositivi hanno azzerato l’esigenza di competenze tecniche richieste dalle macchine fotografiche e dalle cineprese ancora in uso pochi anni fa. In più, la rete e i social netto hanno fatto il resto, col risultato di scatenare l’esibizionismo, la curiosità e la volontà di comunicare agli altri le proprie esperienze ed emozioni. Che poi ci sia più quantità che qualità è ovvio, ma è il principio quello che conta. Possiamo al massimo deplorare l’ossessione per la propria immagine, inizialmente adolescenziale, ora comune, al punto che il termine *selfie* è passato da poco alla lingua corrente.
Quello che sfugge a molti è poi il pericolo di effetti collaterali. A parte le ragazzine che si mettono nei guai diffondendo le loro foto private, ci sono teppisti che postano su Youtube le loro prodezze senza rendersi conto di denunciarsi da soli. Frequenti poi su facebook scene di sbornia (al nord) o saluti fascisti (da noi) che non aiuteranno quei giovani a trovar lavoro. E visto che questo esibizionismo ha contagiato tutto il mondo, sorprende la disinvoltura con cui nei filmati addestrativi dei miliziani islamisti e ucraini si vedono dettagli che potrebbero favorire l’identificazione del luogo e quindi attirare la reazione nemica.
In un video girato a Mosul si vedono benissimo sullo sfondo un ponte con una campata lunga quasi un chilometro e, più a destra, un edificio grosso quanto un ministero. Per un ufficiale osservatore di artiglieria tutto questo è un regalo. Nel filmato ucraino i miliziani sono invece accampati in un campeggio estivo lungo un fiume, con tanto di bungalow e parco giochi. Anche qui un esperto può identificare il sito e agire. Ma per finire, mi piace ricordare che qualche mese fa un fotografo di un quotidiano è stato multato per aver fotografato i binari di una stazione italiana. A norma di un regio decreto del 1940, tuttora in vigore, per motivi di sicurezza è severamente proibito fotografare gli impianti ferroviari italiani.
Inutile dire che quel decreto aveva ragion d’essere in tempo di guerra, eppure a nessun parlamentare è ancora venuto in mente di abrogarlo.

 Beni Culturali 14092901 Fotomania web

Roma: Passeggiate coloniali

Non ho ancora letto Roma negata, di Igiaba Scego, ne ho solo sentito parlare stamane alla radio, ma conosco i suoi libri e la ricordo quando, da studente, veniva a studiare nella biblioteca di quartiere dove io ero stato assegnato dal Comune di Roma. Qualche osservazione però posso farla già da ora. Intanto la memoria della storia coloniale italiana a Roma è praticamente relegata alla toponomastica del c.d. quartiere africano: viale Libia, piazza Gondar, via Migiurtina, via Giuba, via Macallè e così via. Il resto è stato rimosso dagli edifici pubblici – penso al comunicato ufficiale di Badoglio che entra nel 1935 ad Addis Abeba – oppure è visibile nel Circolo Ufficiali, come il ritratto del Duca d’Aosta o il quadro d’epoca dell’Amba Alagi. Non esiste più il Ministero delle Colonie (dove è ora la FAO) e l’obelisco di Axum è stato restituito ai legittimi proprietari. Da lì iniziava viale Africa, che ora si chiama viale Aventino e giunge fino alla Piramide, che invece non è stata rubata agli egiziani ma costruita da un antico governatore romano. Quanto al monumento ai cinquecento Caduti di Dogali (1887), è ormai privo del Leone di Giuda (restituito anche quello) e non sta più al centro di Piazza dei Cinquecento, ma è seminascosto nel viale di collegamento con piazza della Repubblica. Gli altri reperti del nostro passato coloniale uno se li deve andare a cercare al chiuso: nel cortile del Museo della Civiltà Romana è affissa l’ultima carta geografica marmorea dell’Impero che completava il ciclo esposto a via dei Fori, mentre il Museo storico della Fanteria ha invece ereditato la parte militare che stava al già Museo Africano di via Ulisse Aldovrandi, dove invece sono rimaste solo le raccolte di scienze naturali ora organizzate come Museo civico di Zoologia. Una collezione completa di modellini delle nostre fortificazioni coloniali sta nel Museo storico dell’Arma del Genio, chiuso da anni. Infine, la sede dei Bersaglieri a Trastevere conserva gelosamente il labaro della disciolta sezione di Mogadiscio. Come si vede, gli unici a ricordarsi ancora dell’Africa coloniale sono i militari. Dunque Igiaba Scego – giovane e affermata scrittrice italiana di ascendenze somale – ha ragione: il passato coloniale italiano è stato rimosso e i giovani non ne sanno niente. A dire il vero, che non fossimo stati santi ed eroi l’ho imparato tardi, dai libri di Angelo del Boca, il primo storico italiano a sfatare, documenti alla mano, l’immagine dell’Italia coloniale foriera di civiltà (vedi la bibliografia). Ma per motivi anagrafici – ho 60 anni – prima vedevo le cose in modo diverso : tutti in famiglia abbiamo avuto almeno un parente che ha combattuto in Africa, l’ultimo è stato mio nonno nel 1940 (nella foto). Ricordo poi benissimo somali, etiopi ed eritrei che si davano appuntamento per gruppi alla Stazione Termini; le donne somale erano vestite in modo stupendo e colorato. E poi rivedevo ogni tanto i nostri parenti nati all’Asmara, dove erano poi rimasti come imprenditori. Ricordo anche i giovani ufficiali somali che venivano addestrati a Cesano anche dopo la fine dell’Amministrazione Fiduciaria della Somalia (1949-1960), a noi assegnata nel dopoguerra dall’ONU. E ricordo ancora il monopolio delle banane somale poi distrutto dall’United Fruits in nome del libero commercio. A Roma c’è ancora qualche vecchia drogheria del centro che reca sull’insegna la dicitura “generi coloniali”. Aggiungo infine che negli anni Sessanta nessuno a Roma era razzista: le nazioni africane sbocciavano come fiori, le colonie erano un capitolo chiuso, non avevamo avuto come i Francesi la guerra d’Algeria e l’ondata degli immigrati africani era ancora al di là da venire. Chi aveva cantato “Faccetta nera / sarai romana” certo non immaginava che un giorno qualcuno ci avrebbe preso alla lettera, senza peraltro scatenare un’altra guerra coloniale. In realtà tra noi e gli africani già nostri concittadini non c’e mai stata una vera comunicazione, e anche questo era un retaggio: il Fascismo da un lato era razzista, dall’altro imitava le leggi dell’Impero Romano, inclusivo per eccellenza, e noi giovani eravamo figli del nostro tempo. Oggi scommetto che nessuno distingue più le varie identità africane nella massa dell’immigrazione, ma io sapevo riconoscere benissimo i somali dagli eritrei o e li rispettavo come tali. Gli Abissini poi hanno a Roma da sempre le loro chiese cristiane di rito copto. Il vero problema era che nessuno di noi parlava con loro, anche se si sapeva che molti erano cittadini italiani, magari per aver fatto il servizio militare in Italia o perché sfuggiti alla dittatura di Mengistu in Etiopia e di Siad Barre in Somalia. E qui passiamo a dire quello che noi italiani *non* abbiamo fatto dopo il colonialismo. In sostanza, è mancata una politica estera coerente, capace di esercitare una vera influenza nelle aree da noi in precedenza amministrate. Non abbiamo saputo creare una vera democrazia e uno stato moderno in Somalia, dove Siad Barre ha imposto una dittatura (1969-1991) e ha contribuito a sfasciare uno stato tuttora a pezzi. Non abbiamo difeso l’Eritrea dall’annessione all’Etiopia (1962). Non abbiamo saputo difendere gli italiani residenti in Libia e cacciati da Gheddafi (1970). Non abbiamo saputo pacificare la Somalia nel 1992-93 (Operazione Ibis), anche se la colpa va attribuita alla’incoerente politica americana. Infine, nel 2011 Gheddafi non è stato difeso neanche da chi ancora pochi mesi prima l’aveva costosamente ospitato a Roma come grande amico. E infine, finora non abbiamo saputo realmente integrare non solo le masse d’immigrati africani non acculturate che ora affollano a vario titolo città e campagne d’Italia, ma nemmeno le ristrette comunità che avevamo ereditato da un recente passato coloniale, anche se per vari motivi esse erano assai meno influenti e corpose di quelle residenti in Francia o nel Regno Unito. E qui entra in scena il libro di Igiaba Scego, che vede le cose dal punto di vista proprio di quei cittadini con un’identità a cavallo di due culture ma sempre tenuti a distanza dalla diffidente Italia matrigna. Ma ne riparleremo presto.

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Libri Roma negataTitolo: Roma negata
Autore: Rino Bianchi, Igiaba Scego
Editore: Ediesse
Pagine: 176
Prezzo: 13 euro

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