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Beni culturali: UN FARO CON TANTI FILTRI

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La ratifica finale del Parlamento italiano della Convenzione di Faro ( più esattamente: Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, STCE n. 199, 2005) ha creato violente polemiche. E’ quindi il caso di leggersela per intero e analizzarla con calma. Il testo, stilato in inglese e francese, è reperibile in rete anche in lingua italiana (1) anche se il nostro Ministero dei beni culturali ne mantiene in linea una traduzione non ufficiale, il che è già una carenza. Molte le domande inevase: perché ratifichiamo solo oggi una convenzione stilata nel 2005? E perché tra le nazioni che l’hanno ratificata mancano Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Grecia? A tutt’oggi i firmatari sono venti, consultabili in rete, ma mancano all’appello paesi di peso culturale non indifferente. Da noi la firma ma non la ratifica fu stilata nel 2013: all’epoca emersero dubbi sul puro aspetto formale della convenzione (ne abbiamo firmate decine senza mai applicarle) e sugli strumenti attuativi per renderla operativa, argomento particolarmente delicato perché la convenzione, come vedremo, delega molto potere alle comunità locali. E ci si chiede pure se fosse necessaria una convenzione nel quadro del Consiglio d’Europa per attuare quello che dovrebbe già fare l’UNESCO. A leggere comunque il testo integrale s’indovina una mediazione continua che sfuma nell’ambiguità linguistica, accanto a frasi fatte sentite quaranta volte nei documenti ufficiali su cultura e musei, più l’invito tanto attuale allo sviluppo sostenibile.

Ma passiamo al testo. Dopo un lungo preambolo e una serie di riferimenti a documenti ufficiali pregressi, si passa agli articoli. L’art.1 definisce gli obiettivi: riconoscere il diritto all’eredità culturale come inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo;   riconoscere una responsabilità individuale e collettiva nei confronti dell’eredità culturale;   sottolineare che la conservazione dell’eredità culturale, ed il suo uso sostenibile sono funzionali allo sviluppo umano  e alla qualità della vita; ne segue il ruolo dell’eredità culturale nella costruzione di una società pacifica e democratica, nei processi di sviluppo sostenibile e nella promozione della diversità culturale. Infine si fa appello a una maggiore sinergia di competenze fra tutti gli attori pubblici, istituzionali e privati coinvolti. Il termine qui usato è “eredità culturale” (Cultural Heritage) e non “patrimonio culturale” (come  nel nostro art.2 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 – Codice dei beni culturali e del paesaggio). Il termine – tanto caro agli inglesi – è sostanziale: introduce un concetto dinamico nella definizione di cultura e memoria. Né sfugge l’accento dato alla sinergia tra istituzioni e attori vari.

L’art. 2 spiega meglio il concetto di eredità culturale:

  1. l’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi; b.  una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.

Come si vede, nel concetto di eredità culturale viene inserita la variabile temporale: la cultura è il prodotto dell’interazione tra popoli e luoghi nel corso del tempo. Sono poi le comunità a identificare quanto vale la pena di trasmettere agli altri, fermo restando il supporto dell’azione pubblica. Nota: nella stampa accademica (nota 2) il termine “comunità di eredità” è tradotto correntemente come “comunità patrimoniale”. Non è ancora disponibile il testo ufficiale approvato dal nostro Parlamento, per cui teniamo presenti le due traduzioni. Si riconosce comunque che tutti hanno un diritto inalienabile all’eredità culturale. Si accenna anche al concetto di  patrimonio  culturale  immateriale quale  processo  collettivo capace di integrare nella memoria sociale anche elementi ancestrali e non immediatamente tangibili come potrebbero essere opere d’arte figurativa.

L’art. 3 definisce l’eredità culturale dell’Europa, in termini molto “pacifisti”:

  1. tutte le forme di eredità culturale in Europa che costituiscono, nel loro insieme, una fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività; e, b.  gli ideali, i principi e i valori, derivati dall’esperienza ottenuta grazie al progresso e facendo tesoro dei conflitti passati, che promuovono lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto

L’art. 4 è il più discusso e ha provocato p0lemiche violente. Il titolo recita: Diritti e responsabilità concernenti l’eredità culturale, ma è un testo bifronte: da un lato si garantisce il diritto di trarre beneficio, dall’altro si ha l’obbligo di tutela:

  1. chiunque, da solo o collettivamente, ha diritto a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento; b.  chiunque, da solo o collettivamente, ha la responsabilità di rispettare parimenti la propria e l’altrui eredità culturale e, di conseguenza, l’eredità comune dell’Europa;

Il comma c poi è la pietra dello scandalo:

l’esercizio del diritto all’eredità culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà.

Quali limitazioni? Che significa protezione dell’interesse pubblico? E quali altrui diritti e libertà potrebbero essere limitati dall’esercizio del diritto all’eredità culturale? Le reazioni violente hanno tirato in ballo il politicamente corretto, l’Islam che si offende, l’identità europea, ma il comma è ambiguo: le limitazioni possono riferirsi sia a un intervento dello Stato a scapito del diritto soggettivo di fruizione del bene culturale, sia a un controllo politico dell’esercizio del diritto all’eredità culturale. Sarebbe dunque possibile aprire un museo del fascismo?

Più ovvio l’art. 5: Leggi e politiche sull’eredità culturale. Le parti firmatarie s’impegnano a promuovere: l’interesse pubblico associato agli elementi del patrimonio culturale (a); a valorizzare il patrimonio   culturale   attraverso la   sua   identificazione,   studio,   interpretazione,   protezione, conservazione    presentazione” (b); ad  assicurare  che,  nel  contesto  specifico  di  ogni  Parte Firmataria,  esistano  le  disposizioni  legislative  per  esercitare  il  diritto  al  patrimonio  culturale, come  definito  nell’articolo  4 (c); favorire  un  clima  economico    sociale  che  sostenga  la partecipazione  alle  attività  del  patrimonio  cultuale” (d); a  promuovere  la  protezione  del patrimonio  culturale, quale elemento prioritario di quegli obiettivi(e); a riconoscere il valore del  patrimonio  culturale  sito  nei  territori  sotto  la  propria  giurisdizione,  indipendentemente  dalla sua origine”(f); formulare strategie integrate per facilitare l’esecuzione delle disposizioni della presente Convenzione”(g).  

L’art. 6, Effetti della Convenzione, concerne le misure tese a salvaguardia dei  diritti  dell’uomo  e delle  libertà fondamentali contenute nella  Dichiarazione  universale  dei  Diritti  dell’Uomo  e  nella Convenzione per la protezione dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Con questo finisce la prima parte del testo. La parte seconda (artt. 7-12) analizza le  principali  Convenzioni internazionali ed  europee che  regolano  il  patrimonio  culturale,  con  particolare  attenzione  al patrimonio  culturale  di  natura  immateriale (definito nel 2003 dall’UNESCO stessa). Tutte le fonti confermano che l’idea di una nuova convenzione tiene conto delle distruzioni causate dalla guerra civile jugoslava e cerca di superare i testi dell’UNESCO, troppo specialistici. Questo spiega frasi scontate in Italia ma non nei Balcani:

  • stabilire i procedimenti di conciliazione per gestire equamente le situazioni dove valori tra loro contraddittori siano attribuiti alla stessa eredità culturale da comunità diverse; c.   sviluppare la conoscenza dell’eredità culturale come risorsa per facilitare la coesistenza pacifica, attraverso la promozione della fiducia e della comprensione reciproca, in un’ottica di risoluzione e di prevenzione dei conflitti;

Gli artt.8 e 9 sono invece attenti all’ecologia: Ambiente, eredità e qualità della vita e Uso sostenibile dell’eredità culturale. L’unico comma innovativo è il c dell’art.8: rafforzare la coesione sociale promuovendo il senso di responsabilità condivisa nei confronti dei luoghi di vita delle popolazioni. Gli altri parlano della necessità di curare manutenzione e gestione in modo corretto, usando materiali adatti e tecnici preparati: qualità degli interventi, principi per la gestione sostenibile e per incoraggiare la manutenzione. Come al solito, più raccomandazioni che vincoli.

L’art. 10 affronta un altro problema: Eredità culturale e attività economica. In sostanza, lo sfruttamento economico di un bene culturale è un valore, a patto di b.   considerare il carattere specifico e gli interessi dell’eredità culturale nel pianificare le politiche economiche; e c.  accertarsi che queste politiche rispettino l’integrità dell’eredità culturale senza comprometterne i valori intrinseci. Il turismo di massa, il folklore reinventato e il falso artigianato non hanno dunque spazio.

E ora passiamo alla terza parte: Responsabilità condivisa nei confronti dell’eredità culturale e partecipazione del pubblico. Artt. 11-14. Si tratta di una serie di raccomandazioni per realizzare quanto scritto prima. Si parla (art.11) della organizzazione delle responsabilità pubbliche in materia di eredità culturale; di incoraggiare (art. 12) l’accesso  all’eredità  culturale  e alla  partecipazione democratica. La novità è l’accento (12.b) su  il valore attribuito da ogni comunità patrimoniale all’eredità culturale in cui si identifica; c. il ruolo delle organizzazioni di volontariato, sia come partner nelle attività, sia come portatori di critica costruttiva nei confronti delle politiche per l’eredità culturale. L’art. 13, Eredità culturale e conoscenza inserisce giustamente l’eredità culturale all’interno di un sistema scolastico e formativo, professionale e di ricerca. Infine l’art.14 si preoccupa invece di adeguare la cultura ai nostri tempi: alla voce Eredità culturale e società dell’informazione si parla doverosamente di tecnologie digitali, di standard internazionali di catalogazione e gestione dei beni culturali, ma anche di difesa della diversità linguistiche e di lotta al traffico di opere d’arte. Sibillino il comma d: che mai significa riconoscendo che la creazione di contenuti digitali relativi all’eredità culturale non dovrebbe pregiudicare la conservazione dell’eredità culturale attuale ? E’ forse un invito a non buttar via i vecchi schedari di carta e i libri rilegati passati allo scanner? O forse che una copia digitale diffusa in rete ha lo stesso valore dell’originale ai fini della divulgazione e conservazione della cultura? Testo ambiguo.

Le ultime sezioni della Convenzione sono la conclusione di quanto enunciato in precedenza. Parte 4, artt.15-17: Controllo e cooperazione; parte 5, artt.18-23: Clausole finali. Sono impegni che vanno dalla cooperazione internazionale al monitoraggio (tramite un comitato) e allo scambio di informazioni, ma non sembrano particolarmente vincolanti. Unica novità degna di nota è la possibilità di uno Stato di estendere il proprio intervento a realtà nuove ogni volta che se ne presenti l’occasione. Citiamo qui dall’art. 20.b, Applicazione territoriale:

Ogni Stato, in qualsiasi data successiva, può, mediante una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, estendere l’applicazione di questa Convenzione a qualunque altro territorio specificato nella dichiarazione

In calce alla Convenzione, una serie di indicazioni in caso di ratifica.

Conclusioni e/o osservazioni.

  1. Convenzione? Il testo sembra più  un insieme di raccomandazioni, e in Europa di dichiarazioni di principio finora ne abbiamo viste proprio tante. La  stessa relazione esplicativa precisa che le convenzioni quadro definiscono obiettivi generali e identificano aree di azione, non creando alcun obbligo di un’azione specifica e perciò lasciando allo Stato membro la competenza in merito alla forma e ai mezzi per raggiungere gli obiettivi fissati. Per quale motivo un documento poco vincolante è stato ratificato con tanto ritardo e neanche da tutti? Alla data attuale (settembre 2020) solo 20 stati hanno ratificato.
  2. Nell’articolo 3 si parla per la prima volta di “patrimonio comune dell’Europa” e se ne fornisce una definizione chiara e scevra da religioni e nazionalismi.
  3. Il baricentro si è spostato dagli oggetti agli uomini. C’è un forte accento sullo sviluppo di una società umana più democratica, pacifica e sostenibile. La peculiarità della Convenzione sta, infatti, nel superare la visione di un patrimonio culturale da tutelare soltanto per il suo valore intrinseco o scientifico, per promuovere la concezione di un patrimonio governato da più attori e valutabile anche attraverso l’efficacia del suo contributo allo sviluppo umano e al miglioramento della qualità della vita.
  4. Si riconosce il diritto al patrimonio culturale, ma in che senso e in quali termini di responsabilità giuridica? E come verrà esso  recepito all’interno del quadro giuridico e normativo dei singoli stati europei e del diritto internazionale?
  5. C’è un passaggio importante dalla cultura materiale alla centralità della comunità che di questa cultura si assume la responsabilità della conservazione e della trasmissione. E’ come passare dal museo a qualcosa di più avvolgente e dinamico. L’ICOM (l’istituzione internazionale che coordina i musei) ancora non è riuscita a dare una definizione univoca e aggiornata di museo, ma questa convenzione fornisce interessanti linee guida in argomento.
  6. L’articolo 2.a (vedi) è generosamente onnicomprensivo: la formulazione di patrimonio culturale è talmente estesa che nel concetto di eredità culturale è compreso tutto e il contrario di tutto. Come esercitare realmente le funzioni di tutela e valorizzazione e gestione davanti a una definizione così estesa?
  7. E’ evidente un forte accento su realtà associative non statali o istituzionali: singole comunità locali, associazioni culturali, comunità patrimoniali. Il confronto fra enti di natura diversa non sarà facile: va necessariamente rielaborata una legislazione che coordini forme istituzionali di dialogo tra pubblico e privato per la gestione dei beni culturali o eredità culturale che sia. Da un lato viene esaltata l’importanza della partecipazione attiva delle comunità locali, ma dall’altra vanno perfezionati gli strumenti normativi.
  8. Nell’art.12.b (vedi) si dice che gli Stati debbano prendere in considerazione il valore attribuito da ogni comunità patrimoniale al patrimonio culturale in cui essa s’identifica, ma in che modo gestirlo? In Italia il modello è fortemente statale e centralizzato, pur essendo l’Italia una democrazia.
  9. La c.d. comunità patrimoniale è trasversale e numerose sono le organizzazioni o associazioni che, alla luce della Convenzione, possono definirsi tali. Sono gruppi flessibili, trasversali e aperti, più o meno spontanei, non necessariamente accomunati da parametri quali la cittadinanza, l’etnia, la professione, la classe sociale, la religione, ma piuttosto uniti da interessi  e  obiettivi simili.  Possono  avere  un’estensione locale,  regionale,  nazionale, sovranazionale; essere temporanei o permanenti; formati da individui che appartengono allo stesso tempo a più gruppi, senza alcuno schema predefinito. Questa impostazione può superare gli schemi classici a cui siamo abituati.

NOTE

  1. https://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1492082511615_Convenzione_di_Faro.pdf
  2. http://paduaresearch.cab.unipd.it/9619/1/Miranda_Martins_Juliana_tesi.pdf
  3. Bibliografia in rete: https://farovenezia.org/materiali/testi-download/

Alla ricerca di un personale museo

Pensando a luoghi e opere d’arte che possano rappresentare l’Italia nel Mondo, nell’anno dell’Expo milanese, che ha fatto uscire dal cappello delle illuminanti iniziative VeryBello.it, ribolle un pentolone con più di 1000 eventi culturali che mette insieme la Biennale d’Arte di Venezia con Umbria Jazz, il Teatro Greco di Siracusa con il festival degli artisti di strada di Ferrara, passando per il Giardino dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle, viaggiando sul web attraverso l’offerta culturale che potrebbe avere un seguito anche dopo l’Esposizione Universale, con una continuità nel proporre itinerari turistici sulla presenza non solo stabile, ma anche temporanea di cultura e spettacolo.

Meno ambizioso e più di nicchia sono la serie di incontri che offre Rai 5 con programma Museo Italia di Antonio Paolucci per illustrare le bellezze italiane racchiuse negli edifici o visibili per le strade il più coinvolgente Museo Nazionale Radio3, in onda il sabato e la domenica dalle ore 13, composto da 100 opere scelte per raccontare l’arte della storia d’Italia. Un’iniziativa nata non solo alla radio ma anche sui social come Instagram, dove gli ascoltatori potranno condividere le foto delle opere preferite.

Infatti per creare il Museo Nazionale di Radio 3 ha bisogno anche della partecipazione degli ascoltatori che potranno partecipare alla raccolta delle foto anche attraverso i social network come Facebook, Twitter e, ovviamente, Instagram.

La fotografia, abbinata all’esaltazione della Bell’Italia, è protagonista anche dell’#empty italiano, basato sulla perpetuazione degli spazi, non solo museali, nelle ore di chiusura. L’iniziativa, nata a New York e poi a Londra, è promossa da alcuni instagrammers nel persuadere musei e teatri di tutto il mondo a far entrare i “visitatori” dopo l’orario di chiusura per fotografare gli spazi nella loro essenzialità architettonica ed espositiva con il solo uso di uno smartphone. Musei fotografati senza la folla era un privilegio riservato a pochi fotografi professionisti, ma ora si aprono nuovi orizzonti alla condivisione di massa.

Un’esperienza vissuta anche in Italia, quella di raccontare attraverso le immagini il fascino dei luoghi negli orari di chiusura al pubblico, che ha portato otto instagrammers, più amichevolmente igers, alla Reggia di Venaria Reale, Torino, tra la fine della mostra e in attesa di un nuovo allestimento.

Anche con le iniziative del Fai si realizza un elenco preferenziale dei nostri beni culturali come I Luoghi del Cuore, una sorta di referendum di quale luogo avrà la priorità ad essere recuperato dal degrado e dall’abbandono, o Giornate FAI di Primavera, un occasione di visitare dei luoghi che solitamente sono preclusi allo sguardo dei molti.

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Fotomania

Parlando con una guida turistica mia amica, il discorso è caduto sul Museo civico archeologico di Velletri. “Dottore, guardi che quel museo non se lo vedrà mai nessuno”. Incuriosito, le ho chiesto il motivo. “Semplice: non permettono di fare le foto”. Al che mi ha spiegato la sua teoria: più la gente può riprendere immagini, più queste saranno proiettate e riproposte nei vari siti e nei social network e quindi produrranno un effetto di moltiplicazione sulla popolarità e dunque sulla promozione del luogo fisico.
Il discorso non fa una piega, e bene lo ha capito il Metropolitan Museum di New York che permette lo scarico e la circolazione gratuita di 400.000 immagini prodotte dal museo. Ma io aggiungo: la singola persona aumenta il proprio prestigio personale con un monumento o un’opera d’arte per sfondo.
Parafrasando il noto saggio di Walter Benjamin (l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica), potremmo andare oltre e parlare oggi di riproducibilità tecnica *dell’immagine* dell’opera d’arte, ridotta spesso a supporto feticistico per il proprio esibizionismo. Sport di massa: se una volta educatamente mi fermavo vedendo un turista che fotografava un monumento o sua moglie in posa , oggi gli traverso la strada.
Vista la massa di gente che fotografa tutto, a far come mi ha insegnato mio padre resterei sempre fermo per strada. So benissimo di essere finito in almeno cinquecento album di turisti giapponesi e mi sono riconosciuto in una foto di Google Street View ripresa davanti al negozio di famiglia, lo stesso dove i turisti fotografavano mio padre come elemento caratteristico.
Non mi sorprenderei di rivedere un giorno la sua immagine su National Geographic. Perché in fondo la filosofia è una sola: la mia immagine è pubblica, quindi esisto. Forse questa tendenza era latente nella società, ma ora sicuramente il basso costo della riproduzione digitale e la facilità d’uso dei nuovi dispositivi hanno azzerato l’esigenza di competenze tecniche richieste dalle macchine fotografiche e dalle cineprese ancora in uso pochi anni fa. In più, la rete e i social netto hanno fatto il resto, col risultato di scatenare l’esibizionismo, la curiosità e la volontà di comunicare agli altri le proprie esperienze ed emozioni. Che poi ci sia più quantità che qualità è ovvio, ma è il principio quello che conta. Possiamo al massimo deplorare l’ossessione per la propria immagine, inizialmente adolescenziale, ora comune, al punto che il termine *selfie* è passato da poco alla lingua corrente.
Quello che sfugge a molti è poi il pericolo di effetti collaterali. A parte le ragazzine che si mettono nei guai diffondendo le loro foto private, ci sono teppisti che postano su Youtube le loro prodezze senza rendersi conto di denunciarsi da soli. Frequenti poi su facebook scene di sbornia (al nord) o saluti fascisti (da noi) che non aiuteranno quei giovani a trovar lavoro. E visto che questo esibizionismo ha contagiato tutto il mondo, sorprende la disinvoltura con cui nei filmati addestrativi dei miliziani islamisti e ucraini si vedono dettagli che potrebbero favorire l’identificazione del luogo e quindi attirare la reazione nemica.
In un video girato a Mosul si vedono benissimo sullo sfondo un ponte con una campata lunga quasi un chilometro e, più a destra, un edificio grosso quanto un ministero. Per un ufficiale osservatore di artiglieria tutto questo è un regalo. Nel filmato ucraino i miliziani sono invece accampati in un campeggio estivo lungo un fiume, con tanto di bungalow e parco giochi. Anche qui un esperto può identificare il sito e agire. Ma per finire, mi piace ricordare che qualche mese fa un fotografo di un quotidiano è stato multato per aver fotografato i binari di una stazione italiana. A norma di un regio decreto del 1940, tuttora in vigore, per motivi di sicurezza è severamente proibito fotografare gli impianti ferroviari italiani.
Inutile dire che quel decreto aveva ragion d’essere in tempo di guerra, eppure a nessun parlamentare è ancora venuto in mente di abrogarlo.

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Italia: La Repubblica fondata sul Volontariato

Lo stato della cultura in Italia è presto detto: si poggia sul volontariato di singole persone o di gruppi formatisi in associazioni.

Questo non dovrebbe essere la norma per una nazione che benché sia ricca di beni culturali ed effervescente di creatività debba contare, per non sprofondare nell’ignavia, nell’iniziativa dei cittadini perché purtroppo l’incapacità politica non riesce a trasformare in fatti le numerose frasi celebrative dedicate a un patrimonio che solo la fortuna di possedere dovrebbe essere una via aperta allo sviluppo d’intere aree del paese.

Non è sufficiente fregiarsi di possedere luoghi come una Pompei o un’Aquileia, una Sibari o Alba Fucens, se non si ha la capacità di conservarli e salvaguardarli dagli eventi meteorologici, rendendoli dei luoghi solitari e trascurati per mancanza di infrastrutture necessarie per poterli raggiungere anche con mezzi pubblici e visitarli con adeguati supporti didattici.

Non può essere il Fai (Fondo Ambiente Italiano) o Italia Nostra a sopperire alle carenze amministrative e finanziarie con la raccolta di fondi e indirizzarli per il recupero di monumenti come con la campagna I luoghi del cuore.

La burocrazia raffredda ogni entusiasmo, ma la timida apertura che il ministro dei beni culturali Dario Franceschini ha fatto con l’Art-bonus è un primo passo per avvicinare i benestanti a investire nel patrimonio artistico.

Forse un giorno le notizie di un’area archeologica allagata o di monumenti che crollano nell’abbandono e nell’indifferenza potranno ritenersi un ricordo.

Per ora si continua con il volontariato e con politici che ritengono talmente insignificante la cultura di una città come Roma, da lasciare scoperto il ruolo dell’omonimo assessore da diverse settimane, affidandosi a una situazione di Status quo per non prendere delle decisioni impegnative che potrebbero andare a influire sul già particolarmente precario equilibrio politico capitolino.

Sembra che l’ordine inviato a tutte le componenti dirigenziali sia di fare solo lo stretto indispensabile che non comporti la realizzazione di grandi eventi, un esempio sono i fasti del bimillenario della morte di Augusto con la ricostruzione storica con supporti multimediali ideata da Piero Angela.

È apprezzabile che la cultura possa essere spettacolo, ma non solo ridotta a quell’effimero che certo non era l’impegno di Augusto nel suo principato e replicato nei secoli per il suo carattere di propaganda.

La mancanza di un provato impegno verso la cultura è anche la chiusura del Museo della civiltà romana per le violazioni alle norme sulla sicurezza e di conseguenza anche il planetario di Roma è stato interdetto alle visite, nonostante lo spazio fosse stato già adeguato alle norme di sicurezza.

Una situazione quella romana che Francesco Merlo ha ben stigmatizzato nel suo articolo su La Repubblica del 26 luglio, al quale il Sindaco Ignazio Marino prova a dare delle spiegazioni nel suo temporeggiare con la formula – non è colpa mia, sto vagliando con responsabilità varie soluzioni e il giorno seguente con un’intervista sulle pagine dello stesso quotidiano. Una città come Roma non può fare a meno di un Assessorato alla cultura pienamente operante, avendo già fatto a meno di un Assessorato al turismo.

Anche il Rapporto Annuale di Federculture fornisce un panorama sconfortante della cultura nel nostro paese e Roma appare in prima fila, ma solo il Sindaco Ignazio Marino sembra non accorgersene.

Una pubblicazione rivolta non solo al Governo e a tutti i politici, oltre ai diversi “tecnici”, ma soprattutto alla società civile (cittadini e imprese, studenti e università.

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00 Italia La Repubblica fondata sul Volontariato Rapporto

 

Beni di un’Italia dismessa

Dall’Unione europea, come dagli Stati uniti e senza dimenticare tutto il Medio sino all’Estremo Oriente, vengono continuamente indirizzate all’Italia lusinghieri complimenti e additata come un Paese dalle grandi potenzialità; forse a non crederci sono gli stessi italiani, ma che confidano tanto nei cambiamenti promulgati dai politici. Un popolo di cinici creduloni che facilmente si accoda all’Opinion Leader di turno.

Una speranza che ha portato gli italiani ad affidarsi più di una volta a un qualsiasi imbonitore, dai toni velleitariamente populisti, alternando lo sconforto vittimistico a toni minacciosi nell’additare il nemico di turno, mentre una gran parte dei cittadini diserta gli appuntamenti elettorali perché non si sente rappresentato per poi protestare e inveire contro tutti.

Inveire contro la presenza migrante o l’Europa intera non ha importanza, tutto serve per distrarre dalla cronica incapacità di affrontare i problemi con gli strumenti della democrazia e quando non si rimane soddisfatti si grida al colpo di stato o alla dittatura.

Giudizi gridati da politici disarcionati e da italiani che s’incontrano solo in piazza per la cronica sindrome individualista, incapaci di compartecipazione alla vita comunitaria, interessati al loro orticello, senza alcun riguardo per il vicino.

Tutto ciò come speranza di una sana riflessione sulla necessità di potenziare il servizio al pubblico che la politica dovrebbe dare seguito nel 2014 e non limitarsi ai soliti editti di buone intenzioni, guardando al privato.

È risaputo che le parole non costano nulla se non l’utilizzo coscienzioso dell’italiano, ma far seguito dalle intenzioni ai fatti, nel dare un addio a una politica costosa, più incline a rendere soddisfatta quella minoranza d’italiani che non deve vivere con mille, millecinquecento euro mensili.

A Pompei arriva un generale impegnato da anni con il corpo dei carabinieri sul fronte della salvaguardia del patrimonio artistico, per poter utilizzare con oculatezza e lontano dalle mani della Camorra, i 105 milioni di euro per rendere il sito archeologico più famoso e frequentato del Pianeta a rendersi presentabile nella sua interezza. Ma l’incuria e i crolli continuano.

I Bronzi di Riace tornano a essere visti, dopo due anni passati orizzontalmente, nella nuova sala al Museo della Magna Grecia. Ma sono numerose le realtà museali che stentano a promuovere e far vedere i loro tesori.

L’immensa ricchezza italiana non è solo sigillata nei musei, ma è anche nella quotidiana espressività delle arti e non si può cavalcare la tigre del cinema quando è sotto i riflettori di una ribalta estera, per poi negare qualsiasi altro supporto nei meandri ministeriali.

La Grande bellezza non può essere ricondotta solo a un film sopravalutato da politici superficiali, dimenticando pellicole bel più incisive nella storia della cinematografia, per farsi belli davanti agli italiani poco interessati alla vera bellezza dell’Italia dei monumenti e dei paesaggi. Un patrimonio che si vuol svendere per pochi immediati euro e non valorizzare per renderli una costante fonte di ricchezza per la comunità.

Un concetto quello della valorizzazione del patrimonio artistico italiano che ha difficoltà nel trovare una giusta considerazione nel vocabolario dei politici che si barcamenano tra le testimonianze storiche e la dismissione del Demanio militare e quello confiscato alle organizzazioni criminali.

Un patrimonio che i politici appaiono più propensi a denigrare con balzelli e invenzioni burocratiche, negando un concreto supporto che valichi le formali parole di riverenza a tutta la cultura italiana.

L’Italia è uno di quei paesi con una classe politica misera e quando c’è chi può fare la differenza, mettendo in evidenzia le private meschinità e i pubblici vizi, viene solitamente emarginato.

Si invoca la discontinuità, con la fine del caos amministrativo, ma è un’interminabile consequenzialità della cattiva gestione del bene pubblico, affossando ogni possibile supremazia italiana sia nell’ambito dell’arte, che per il paesaggio e il cibo.

Non può essere sufficiente l’appassionata difesa che il neo segretario del Partito democratico non manca di fare, da nord a sud, del Bel Paese perché l’Italia possa svettare sulle altre nazioni.

A Matteo Renzi gli capita di scivolare su concetti neoliberisti, ma ha un innato ottimismo sul riuscire a coniugare il pubblico e il privato per il bene pubblico e sembra che abbia ben chiaro il percorso che trasforma le parole in risultati, moltiplicando i pani e i pesci sulla sponda di un lago ridotto a discarica, sventolando bandiere pacifiste nel proporre un ulteriore taglio alle spese militari con il dimezzamento della fornitura dei fantomatici F35.

Nei precedenti vent’anni come può essere venuto meno il patto con l’elettore se era così facile approntare interventi che potevano favorire il lavoro, la casa e la scuola? E vedere così trascorsi i vent’anni prima senza veri interventi sul patrimonio culturale e ambientale, ma purtroppo anche i vent’anni anteriori sono passati senza uno sguardo avveduto nel preparare un futuro meno disagevole per l’odierna Italia.

Il prof. Stefano Settis, con la pubblicazione su l’Unità del 6 marzo dell’introduzione al più argomentato libro Il territorio, bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico di Paolo Maddalena, non tralascia alcuna occasione per evidenziare, oltre all’importanza della salvaguardia dell’ambiente e del nostro patrimonio culturale, la poca disponibilità dei politici ad amministrare i beni pubblici per l’interesse della comunità e non del privato.

Ma quali politici che ambiscono a essere ricordati come statisti hanno fatto delle scelte oculate per tracciare il percorso di sviluppo e non limitarsi a barcamenarsi per far sopravvivere le loro candidature e non il bene pubblico?

 

01 Italia Sette mosse del 2014 Il territorio, bene comune degli italiani di Paolo Maddalena

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Autore: Paolo Maddalena

Editore: Donzelli

Collana: Saggine

Prezzo di copertina: € 18.00

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