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Le culture delle persone

Mai come in questo momento in Italia si pone il problema dell’integrazione degli immigrati e lo dimostra da sola l’impressionante serie di insulti al ministro Kyenge. Il dibattito è dunque molto animato, ma da un punto di vista teorico rimane fermo ad una serie di stereotipi, mentre questo libro introduce una tesi nuova. Ma andiamo per ordine. I primi contributi scientifici sul problema appaiono alle fine degli anni ’80, quando ci si accorge che l’Italia da terra di emigrazione sta diventando anche il contrario (1). Si tratta di studi ora originali, ma spesso tradotti dal francese, visto che molti dei problemi erano stati affrontati dagli altri prima di noi. Proprio gli studiosi francesi notavano la debolezza del pensiero antirazzista – vagamente umanitario – nel confronto con il razzismo quotidiano del francese medio verso i suoi ex popoli colonizzati Il primo s’ispira a princìpi etici universali, il secondo tira le somme di una convivenza forzata (2). Da quel giorno i continui flussi migratori continuano a spostare milioni di persone, alimentando il dibattito nelle nostre società tra chi è propenso ad accogliere l’altro e chi tiene a chiudere frontiere reali e culturali, in nome della sicurezza e della difesa dell’identità nazionale. Si è passati nel frattempo dal concetto di assimilazione a quello di integrazione (3) ed è cresciuto anche il discorso interculturale, fondato sulla valorizzazione della ricchezza dell’altro. Si è però sottovalutato l’impatto che milioni di stranieri possono avere in pochi anni nel tessuto sociale. Giulietto Chiesa, ottimo giornalista e attivista politico, nella sua prefazione a un manuale sulla legislazione italiana verso gli stranieri (4), indica correttamente nella globalizzazione dei processi produttivi e dei mercati la causa dell’accelerazione dello spostamento di popolazioni verso i centri produttivi e ne descrive a lungo le sofferenze umane. Ma non spende una parola per capire cosa pensa il cittadino medio privo di cultura politica o di un ritorno economico diretto, davanti a una massa di estranei con cui è obbligato a convivere. Storicamente, i rapidi spostamenti di popolazione e di risorse provocano sempre conflitto, ma non averne riconosciuto la portata è una carenza teorica pagata con l’affermarsi in Italia e all’estero di formazioni politiche dichiaratamente xenofobe (5).

Ma torniamo al nostro discorso iniziale. Una volta il diverso per essere accettato doveva rientrare nelle categorie del pittoresco e dell’esotico. La prima era riservata agli abitanti della nazione dai costumi arretrati ma interessanti: scugnizzi, briganti, gitane, mangiatori di maccheroni, pastori sardi. L’esotico invece rimandava al favoloso Oriente e all’Africa nera, magari con un pizzico di erotismo. E l’antropologia, dal canto suo, quando non giustificava il razzismo, aveva fino a pochi anni fa il limite di descrivere le varie etnie sul posto dove vivevano. Ma ora sono loro che vengono da noi, e la pretesa scientificità dell’antropologia e della sociologia cede troppo spesso il passo alla politica, scivolando nella propaganda ora in senso razzista, ora integrazionista (6). Walter Baroni ha dunque dedicato il suo studio all’analisi dei discorsi attorno all’accoglienza, al mescolamento delle culture e delle matrici. (7). Il dispositivo di enunciazione interculturale è ricostruito attraverso l’esame di materiali eterogenei, che vanno dalle campagne di comunicazione visiva di governo, Ong e associazioni contro la discriminazione, alle opere degli scienziati dell’intercultura e alla letteratura della migrazione. Al centro dell’attenzione vengono poste le modalità con le quali si produce la trasfigurazione discorsiva dei migranti in carne e ossa nel simbolismo interculturale, sorta di doppione normalizzato dei primi, costretto a un dialogo tra culture che è poco più che un monologo dei professionisti dell’accoglienza.

I risultati? Negli ultimi decenni, all’ombra del discorso reazionario, centrato sulla minaccia dell’immigrato criminale, è cresciuto anche il discorso interculturale, fondato sulla valorizzazione della ricchezza dell’altro. Ma quella che a prima vista potrebbe apparire come un’opposizione, in realtà è una solidarietà segreta, che qui si cerca di mostrare, articolando una scrupolosa analisi delle retoriche dell’accoglienza e dell’integrazione. Si nota intanto l’efficacia – almeno in certi ambienti – delle motivazioni conservatrici rispetto a quelle ideologiche della sinistra e dei cattolici. Il discorso della destra ha uno sfondo economicistico: l’immigrato è forza lavoro, quindi rifiutare oziosi e delinquenti è normale: in fondo nessuna società sente il bisogno di importarne. Ma se un camionista dell’Est accetta paghe più basse e turni di notte, danneggia i padroncini, gli stessi che in realtà gli cedono la licenza in subappalto. Insomma l’immigrato va bene se si integra senza rompere troppi equilibri, tanto che in una delle campagne di comunicazione, quella del Progetto integrazione promosso dal Ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali, la badante parla veneto e il pizzaiolo napoletano! Evidentemente il centro-sinistra ha cercato di mediare davanti a un’opinione pubblica italiana tutto sommato razzista, accettando la segregazione neoliberista di una società ancora provinciale e poco internazionale, profondamente divisa tra “leghisti” e “progressisti”. Ma proprio qui s’inserisce la tesi dell’autore: gli argomenti dei primi sono basati su concetti economici ed etici, ma quelli dei secondi sono in sostanza una parodia delle motivazioni economiche che combattono. Il discorso produttivo resta – mascherato involontariamente – anche nel discorso umanitario: l’immigrato ti arricchisce (anche quando delinque?); un campo nomadi  produce al suo interno socialità. C’è un razzismo sotterraneo, non dichiarato, più gentile, che s’incardina sull’idea di valorizzazione della cultura altrui. C’è dunque anche un razzismo di centro-sinistra che ritiene che lo straniero sia qualcosa di diverso e vada integrato a tutti i costi: l’idea di alterità è talmente radicata che dell’immigrato facciamo un diverso. L’intercultura è dunque il problema di cui crede di essere la soluzione: questa, in sostanza, la tesi di fondo sostenuta e scrupolosamente argomentata da Baroni:

“In una campagna di Lettera 27 che analizzo nel libro, l’idea di fondo è che queste persone devono venire qua per arricchirci. Non ci passa neppure per l’anticamera del cervello che abbiano dei diritti universali e possano vivere dove vogliono. Così alla fine, a destra il discorso ha uno sfondo economicistico (l’immigrato è forza lavoro), a sinistra c’è un arricchimento simbolico, ma di fatto l’immigrato è sempre visto come qualcuno che deve darci qualcosa, avere una funzione. Quindi in sostanza il discorso non cambia.”

Conclusioni: il 2008 è stato l’anno europeo dell’intercultura, ma essa dovrebbe servire a tutti. Invece i progetti sono finalizzati a minoranze e immigrati, perché dobbiamo aiutarli, farli integrare e comunque giustificarne la presenza sul territorio. Si nega di fatto il concetto che l’integrazione sia una questione di diritti. Le varie campagne enfatizzano l’accettazione della cultura degli altri, ma è un compromesso. Il percorso dovrebbe essere alla rovescia: iniziamo a parlare di diritti (e doveri) e solo dopo facciamo un discorso di accettazione culturale. Perciò è un libro consigliato a tutti, e in particolar modo agli operatori culturali e ai mediatori (spesso in buona fede quanto lo erano i missionari), a chi fa informazione, ma anche ai politici, se interessati a costruire un paese democratico.

 

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Titolo: Contro l’intercultura. Retoriche e pornografia dell’incontro

Autore: Walter Baroni

Editore: Ombre Corte, 2013

Collana: Culture, Nr. 104

Pagine: 176

ISBN-10: 8897522424

ISBN-13: 9788897522423

Prezzo: 17 euro

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NOTE:

 

 

(1) Razzismo e antirazzismo tra presente e tradizione Roma : Editori riuniti riviste, 1989 – Fa parte di: Democrazia e diritto : rivista critica di diritto e giurisprudenza

 

(2) Razzismo e antirazzismo / Alain De Benoist, André Béjin, Pierre-André Taguieff  Firenze : 1992 ; Razzismo e antirazzismo : la sfida dell’immigrazione / René Gallissot ; Bari : 1992 ; La forza del pregiudizio : saggio sul razzismo e sull’antirazzismo / Pierre-André Taguieff  Bologna :1994

 

(3) L’assimilazione prevede in una qualche misura l’abbandono della propria lingua e dei propri valori a favore di quelli della cultura egemone, l’integrazione permette l’esistenza di isole culturali aliene, purché non entrino in conflitto coi valori della società di accoglienza.

 

(4) Legislazione stranieri : per comprendere, decodificandolo, un diritto difficile / Lucio Barletta ; con la collaborazione di Domenico Colotta . Roma , 2007.

 

(5) E’ noto che in Europa esistono movimenti ben più estremi della Lega Nord, ma non sempre hanno quel riconoscimento giuridico e morale che in Italia abbiamo permesso ai leghisti, né all’estero un ministro della repubblica verrebbe insultato impunemente in aula e fuori. Il razzismo della Lega fa passare tra l’altro in secondo piano meccanismi istituzionali di separazione ed esclusione ben più radicali e strutturati, come quelli imposti dalla Sud Tiroler Volkspartei in Alto Adige non solo agli immigrati, ma agli stessi cittadini italiani..

 

(6) Il problema è più chiaro se impariamo a distinguere l’informazione dalla propaganda. L’informazione deve essere attendibile, verificabile e completa. La propaganda non lo è. Esiste in realtà una via intermedia, laddove l’informazione è scientifica e attendibile ma non completa. Penso a Lacio drom, la rivista di studi zingari diretta da Livia Karpati, che per diciotto anni è riuscita a parlare di Sinti, Rom e Camminanti senza mai nominare la parola furto; come parlare di Corleone discorrendo di soli agrumi. Eppure il livello scientifico della rivista era ottimo: spaziava dalla politica all’etnologia, dalla giurisprudenza alla sociologia, dalla letteratura al cinema, coprendo zone geografiche vastissime. Ma era viziata dal pregiudizio positivo, ammesso che il termine abbia senso.

 

(7) Walter Baroni collabora con il Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università di Genova. Al centro della sua attività di ricerca sono i processi di soggettivazione e di segregazione discorsiva dell’altro. Ha pubblicato saggi sulla marginalità urbana e sulla differenza culturale, in riviste e volumi nazionali e internazionali.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Razzismo e antirazzismo tra presente e tradizione Roma : Editori riuniti riviste, 1989 – Fa parte di: Democrazia e diritto : rivista critica di diritto e giurisprudenza

 

Bianco su nero : satira e illustrazione su razzismo e antirazzismo / a cura di Elisabetta Cirillo, COSPE, Cooperazione per lo sviluppo dei paesi emergenti  – Milano : Nuages, 1992

 

 Razzismo e antirazzismo / Alain De Benoist, André Béjin, Pierre-André Taguieff  Firenze : La roccia di Erec, 1992

 

Razzismo e antirazzismo : la sfida dell’immigrazione / René Gallissot ; cura e introduzione di Annamaria Rivera.  Bari : Dedalo, 1992

 

L’ antirazzismo in Italia e Gran Bretagna : uno studio di educazione comparata / Sandra Chistolini ; prefazione di Mauro Laeng.  Milano : F. Angeli, 1994

 

Antirazzismo ed istituzioni : atti dell’incontro-dibattito con la Polizia di Stato SOS Razzismo Italia e SIULP / a cura di Angela Scalzo ; prefazione di Luigi M. Lombardi Satriani. Roma : CentroStampa De Vittoria, 1994

 

Guida per amare i tedeschi / Roberto Giardina.  Milano : Rusconi, 1994, 1995. –  351 p. ; 21 cm Collezione · Problemi attuali. Interventi  In copertina. dopo il tit.: come superare i pregiudizi e smontare i luoghi comuni

 

La forza del pregiudizio : saggio sul razzismo e sull’antirazzismo / Pierre-André Taguieff.  Bologna : Il mulino, 1994

 

Razzismo ed antirazzismo in pubblicita / Maria Laura Mautone ; rel. M. Livolsi  Milano : Istituto Universitario di Lingue Moderne, 1993/94

 

Con quella faccia da straniero … : sussidio per l’educazione alla convivenza interculturale e all’antirazzismo / a cura di Alberto Caldana e Cinzia Sabbatini  – S.l. : s.n., 1995?

 

Il razzismo spiegato a mia figlia / Tahar ben Jalloun. Milano, Bompiani, 1998

 

Rappresentazioni degli immigrati a Torino. Problemi per l’antirazzismo / Laura Maritano  -Fa parte di: Afriche e orienti : rivista di studi ai confini tra Africa, Mediterraneo e Medio Oriente

 

Razzismo e antirazzismo nella cultura europea : tesi di laurea / Michela Fabris ; relatore: Paolo Sibilla  , A.a. 2002-2003

 

Attacco antirazzista : Rapporto sul razzismo e antirazzismo nel calcio / a cura di Mario Valeri. Roma : Associazione culturale Panafrica, ©2006

 

Legislazione stranieri : per comprendere, decodificandolo, un diritto difficile / Lucio Barletta ; con la collaborazione di Domenico Colotta . Roma : Sinnos, 2007.  223 p. ; 21 cm + 1 CD-ROM.

 

Educare al confronto : antirazzismo : aspetti teorici e supporti pratici / Monique Eckmann, Miryam Eser Davolio ; prefazione: Georg Kreis ; presentazione: Concetta Sirna  Milano ; Lugano : Casagrande, 2009

 

Razza, razzismo e antirazzismo : modelli rappresentazioni e ideologie / a cura di Zelda Franceschi  – Bologna : I libri di Emil, 2011

 

Razzismo e antirazzismo : una introduzione / Rita Cavallaro Acireale ; Roma : Bonanno, [2012]

 

Contro l’intercultura. Retoriche e pornografia dell’incontro. / Walter Baroni.  Ed. Ombre Corte, 2013 . Collana: Culture , Nr. 104 ; 176 p.

 

 

 

Gli eredi di Nerone

Abbiamo appreso con piacere che chi ha incendiato il liceo Socrate è stato consegnato alla Giustizia. Nei servizi giornalistici vengono descritti come Ragazzi di buona famiglia, ma senza spiegare il significato del termine. Ci auguriamo solo che i quattro vendicativi ragazzi siano condannati a lavorare nel cantiere che dovrà ricostruire la scuola da cui sono stati poco amati. Sicuramente per la loro formazione sarebbe meglio di una pena detentiva. Purtroppo la polizia non è sempre così tempestiva: nella zona compresa tra Conca d’Oro e Prati Fiscali nel giro di tre anni ben quattro incendi dolosi hanno distrutto almeno sei macchine e una dozzina di motorini e motociclette. L’ultimo risale alla notte tra il 29 e il 30 giugno, questi sono quelli precedenti: 26 maggio 2011 22 ottobre 2011 10 agosto 2012 Nella pianta in allegato sono riconoscibili le strade degli atti criminali: In sostanza, tutto avviene in un quadrato compreso tra via Val pellice, Via Val Maira, Conca d’Oro e via Val di Sangro, oppure tra Via Val Maira e via dei Prati Fiscali all’altezza della parrocchia di San Frumenzio. È un perimetro così limitato che è’ quasi istintivo pensare a gente del quartiere, che si muove a piedi e trova una facile via di fuga negli accessi di una delle quindici palazzine comprese tra queste poche strade. Evitano poi accuratamente i tratti coperti dalle telecamere delle banche e dell’ufficio postale, dimostrando anche qui una precisa conoscenza della zona. Ora si dice pure che i mandanti siano i gestori dei garage di zona per incentivare gli abbonamenti, ma sono chiacchiere da bar: l’altra volta si parlava di ragazzini incappucciati. Eppure da tre anni questo ettaro di terreno urbanizzato rimane zona franca per il prossimo rogo: polizia e carabinieri non hanno finora cavato un ragno da un buco. “Chi sa non parla”, neanche fossimo a Corleone. Eppure non è difficile studiarsi l’anagrafico dei residenti in una quindicina di palazzine a cinque piani, controllare curricula scolastici, fedine penali e schede cliniche. L’impressione personale è che, se non c’è di mezzo la droga, non esista attività investigativa. Mi auguro solo di sbagliarmi.

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Il potere del controllo

Leggere su Facebook “Mettiti il GPS dove vuoi, così posso sapere dove sei.”, fortunatamente non era indirizzata a me, sembra quasi il titolo di una canzone e potrebbe anche diventarlo, tuttavia mi ha provocato una reazione di fuga: l’istinto mi dice che situazioni simili ti soffocheranno, sono peggio di quei genitori apprensivi che usano il cellulare per tempestare di chiamate il figlio a scuola. Un senso di ansietà fomentata dal manicomio a cielo aperto nel quale ormai viviamo tutti: mi dicono che siamo arrivati allo spionaggio faidate, pieno di profili civetta Facebook, apps localizzatrici sull’Iphone dei figli. Poveri genitori, bisogna capirli: la figlia adolescente vanta 350 amici e loro di faccia ne conoscono al massimo cinque o sei. Il GPS addosso a fidanzati, mariti e amanti ora apre invece un nuovo mercato alla gelosia morbosa, all’insicurezza affettiva della coppia. Il localizzatore inventato nella guerra del Vietnam per recuperare i piloti degli aerei abbattuti ormai è un oggetto d’uso comune e per fortuna ora gli escursionisti non si perdono più come una volta e possono essere rintracciati per tempo. La geolocalizzazione satellitare non era stata inventata dunque solo come strumento di controllo di polizia, anche se è un utile antifurto per il proprio veicolo. A parte l’orrenda eleganza dell’invito (“mettitelo dove vuoi”), tornando al GPS di partenza, mi ricorda tanto il braccialetto elettronico che periodicamente viene rilanciato per diminuire l’affollamento carcerario. Mentre i delinquenti possono sperare nella solita amnistia mascherata, per noi non c’è scampo: la mia saggezza dice che alla fine tutti si abitueranno all’idea di essere geolocalizzati dalla propria donna, esattamente come nessuno potrebbe fare più a meno del cellulare o dell’app che ti preconizza l’arrivo dell’autobus alla fermata. Apprezziamo la tecnologia ma siamo ormai assuefatti al controllo, alla pubblicità non richiesta nelle mail, spesso mirata attraverso le informazioni da noi incautamente concesse. Sappiamo ormai riconoscere le offerte commerciali dagli accenti dialettali delle voci dei call center. Non ci facciamo illusioni: anche se si moltiplicano le leggi sulla privacy, ormai sappiamo ufficialmente che gli statunitensi, come i francesi e tutti quelli dediti a giocare alle spie, controllano tutte le comunicazioni trasmesse in digitale, cioè tutto tranne i pizzini dei corleonesi. Come difendersi? Al prezzo di qualche scomodità, senza prendere il GPS e legarlo al collare di Fido mentre andate da un’altra parte. Semplicemente, l’Iphone e l’Ipad lasciateli agli altri. Per motivi anagrafici so ancora trovare una strada senza il Tom Tom, anche se a Roma riesco ancora a perdermi grazie alla segnaletica insufficiente o mal posta. Mentre c’è chi non sa più distinguere il nord dal sud e consulta l’Iphone per sapere che tempo fa anche quando potrebbe affacciarsi alla finestra. Se avessi figli, prima ancora di sapere cosa fanno mi preoccuperei di sapere cosa pensano. So difendermi dalle truffe in linea, almeno finché le mail chiedono i codici della mia carta di credito, partono da indirizzi ambigui, sono scritte in un italiano dissonante o promettono improbabili eredità. Dico sempre di essere sposato (vero) per non essere molestato da decine di coetanee in cerca dell’anima gemella. Ripulisco ogni sera il computer con Lavasoft, sorta di candeggina elettronica che anche nel nome evoca la sua funzione detergente. Non so quanti sono a conoscenza che i siti più infetti non sono quelli che pensate voi, ma quelli generalisti della serie tutto gratis e quelli di cultura religiosa in lingua inglese. I primi perché troppo affollati, gli altri perché poco curati nella sicurezza. Chi guadagna da un sito ha infatti interesse a non perdere clienti. Ma ritornando alla frase iniziale letta su Facebook, consiglio la prevenzione. Se non sentite il bisogno di controllare la vostra amata, perché accettare il contrario e vivere in regime di libertà vigilata? L’amore è fiducia.

Nell’oscurità dei Mercati coperti

A Roma un aspetto strano dei mercati rionali coperti è il buio. Contrariamente all’idea di mercato, sono quasi sempre strutture poco luminose e francamente lugubri. A ridare colore ci pensano casomai tutti i banchi abusivi esterni allo spazio assegnato e quasi sempre tollerati. Ne parlavo con un fioraio, senza sapere che era un rappresentante di categoria. Ma lui si lamentava soprattutto dell’ubicazione sbagliata degli stessi mercati coperti romani. Non potevo dargli torto: ogni volta che un mercato all’aperto è stato spostato dentro una struttura chiusa, decisa dal Comune senza ascoltare i mercanti, questa era collocata lontano dal luogo naturale di incontro della gente, col risultato di languire o morire del tutto. Questa è la fine che ha fatto il mercato di Ponte Milvio, ora centro commerciale Euronics. Diverso il caso di spazi programmati coperti fin dall’inizio, come il bel monumentale mercatone all’incrocio tra via Savoia e via Alessandria dietro Porta Pia. Meno riuscita la nuova struttura di via Andrea Doria, forse troppo verticale. Assolutamente tetro il mercato di via Magna Grecia. Ma quella contro i mercati all’aperto è una guerra condotta per anni da quelli di Bruxelles, che nulla sanno del Mediterraneo e del sole. Va detto che da noi si è trovato un compromesso che ricorda la stabilizzazione dei nomadi. Alludo a quegli orrendi e puzzolenti scatoloni di metallo fissati al suolo come se ne vedono a via Orvieto o a via Simeto o dietro la Garbatella o a Trionfale. Sono come quei campeggi dove le tende diventano baracche in muratura e le roulotte perdono la mobilità per radicarsi sul terreno. Anni fa il Comune cercò di far acquistare ai mercanti furgoni attrezzati, ma senza incentivi non se ne fece niente, col risultato che quei cassoni uno attaccato all’altro sono rimasti, sempre più arrugginiti e pieni di cavi elettrici volanti. E la notte non mancano certo i topi.

Ma tornando al pensiero iniziale, vi siete mai chiesti perché i padiglioni della nuova Fiera di Roma non hanno lucernai ma sono illuminati esclusivamente da luce artificiale, nonostante le attività fieristiche si svolgano essenzialmente di giorno? Anche stavolta il progettista si è dimenticato di essere nel Mediterraneo, esattamente come chi ha progettato (o meglio: trasferito acriticamente idee nordiche) i quaranta centri commerciali di Roma e dintorni. Tranne poche eccezioni – come un Outlet sulla Pontina – non prevedono porticati e piazze ispirate all’architettura romana, ma sono enormi bunker ermeticamente chiusi. Se vogliamo, sono esempi di architettura coloniale.

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Viae Publicae Romanae

Al nuovo sindaco vorrei chiedere di ascoltare gli automobilisti, magari istituendo una casella email dedicata. Non parlo di via dei Fori Imperiali, difesa chissà perché proprio dagli archeologi, ma del resto di Roma. Per anni non ho mai guidato la macchina perché non ne avevo bisogno: abitavo infatti al centro; poi mi sono sposato e a mia moglie abitare al centro non interessa: come troppi romani ama le comodità e non si farebbe mai tre piani di scale come ho fatto io per anni, né accetterebbe di vivere in un quartiere ormai troppo rumoroso o dove è impossibile trovare parcheggio. Neanche le interessa avere a portata di mano cinema, teatro, musica dal vivo e locali decenti senza dover riprendere la macchina. Ma non è di questo che voglio parlare, ma piuttosto di cosa significa guidare in una città organizzata da tecnici e politici privi di senso strutturale. Per senso strutturale intendo la capacità di affrontare un problema nel suo complesso invece di risolvere la situazione un pezzo per volta. Che senso ha costruire l’enorme ponte della Musica per farci passare solo pedoni e ciclisti? E perché un’arteria importante come la via Ostiense è servita da poche linee di autobus, a differenza della Nomentana? E se non conoscete bene Roma vi chiederete per quale motivo è vietato percorrere alcune strade dall’inizio alla fine. Parlo di via Venti settembre, del lato sinistro del Lungotevere, di tante altre strade a cui è inibita la propria funzione primaria. E spesso vi perderete o almeno finirete da un’altra parte perché le indicazioni sono insufficienti, i cartelli e i semafori sono troppi o messi male. Alla fine di via di Porta Maggiore come interpretare p.es. un semaforo che mostra il rosso e il verde insieme? Poco male: procedete lo stesso, visto che dovete girare attorno a Porta Maggiore invece di passarci dentro, ma evitate di montare sul marciapiede che protegge i binari del tram e soprattutto cercate di infilare l’accesso alla Tangenziale est, mai così cervellotico come su una piazza dove passano due tipi di tram e tutto il traffico per la Casilina. Ma cambiamo quartiere: ormai sono pratico, ma chi potrebbe pensare che dopo Cinecittà è impossibile voltare a sinistra per andare all’ambulatorio dell’IPA, per cui bisogna girare al semaforo prima della Lamaro, cioè un chilometro prima? E provate ad andare alla stazione Tiburtina in Tangenziale est provenendo da San Giovanni: semplicemente l’accesso ancora non esiste. Se poi venite invece dalla direzione opposta, vi ritrovate a girare a destra salendo la rampa, poi riscendete ancora ma solo se riuscite a leggere un cartello piccolo all’inizio della Tiburtina. Ma non era la stazione più importante di Roma, anche se chi l’ha progettata era forse più pratico di aeroporti? E a proposito di cartelli, ma chi aveva l’appalto della segnaletica per l’Auditorium? Quel cartello l’ho trovato anche a Spinaceto. Provate invece a leggere in galleria Giovanni XXII le indicazioni per uscire sulla Trionfale o sulla Pineta Sacchetti: ma fatelo subito senza andare a sbattere sullo spartitraffico di cemento, visto che i cartelli sono piccoli, non sono illuminati e sono messi troppo in alto e troppo vicino agli svincoli. Oggi ho calcolato che, in circostanze normali, quei cartelli sono leggibili solo da sei metri di distanza, una frazione di secondo per decidere. Perché non unificarli con lo standard di quelli della Tangenziale in galleria? Se invece percorrete il Ponte delle Valli provenendo da Conca d’Oro e intendete immettervi nell’Olimpica per andare verso lo Stadio, rallentate per due motivi: il cartello è illeggibile e la curva è a 90 gradi. Chiaramente chi guida spesso queste cose le sa, ma c’è sempre una prima volta. Nella vecchia Tangenziale, p.es., provenendo da Salario, all’altezza del Verano, al cimitero rischiavate di finirci davvero, visto che si aveva solo un decimo di secondo per decidere se andare a sinistra per San Giovanni o a destra a Tiburtino o restare in mezzo addosso al paracarro. Per fortuna ora è tutto in galleria. E a proposito di gallerie, direi che a Roma – e non solo a Roma – manca uno standard di illuminazione e cartellonistica. E che dire di quel fastidioso sfarfallamento che disturba chi guida nel tratto aperto dell’Olimpica tra il Tevere e lo Stadio? E’ dovuto a una copertura a cella d’ape per frangere i rumori. Sì, ma gli occhi?

E passiamo alle barriere. Lunghi guardrail si alternano a marciapiedini bassi bassi, ma perché? Perché mai l’inizio del Ponte delle valli è diviso in due corsie da una barriera continua di cemento per cinquanta metri e poi solo con un basso marciapiede che rischia di fare da trampolino per chi lo strusciasse? Lo stesso sull’Olimpica, che alterna barriere decenti a bassi marciapiedi. E nelle confluenze, quante volte il guardrail – spesso smozzicato e deformato da anni di urti – termina con un basso marciapiede di foggia triangolare che non proteggerebbe da errori di manovra, ma anzi li amplificherebbe? E se poi vogliamo parlare di semafori, ma perché sulla Salaria nel tratto dall’incrocio di viale Liegi fino alla fine di villa Ada – un paio di chilometri – ve sono una dozzina, oltretutto nemmeno sincronizzati? Mai comunque come tra Ponte Vittorio e Porta Castello: ce ne sono quattro in poco più di cento metri. Almeno dopo una cert’ora potrebbero essere anche disattivati, no?

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