Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Elettroni contro Materia

Quando vedo mia nipote che sente la musica in cuffia dopo aver immagazzinato in una scatoletta migliaia di brani in MP3, penso alla discoteca di mio padre, intatta a dieci anni dalla sua scomparsa. E quando vedo l’altro nipote che invece di leggere libri cerca tutto e subito in rete col suo IPhone, dimentico per un attimo il mio incubo quotidiano di bibliotecario e bibliofilo, ossessionato come sono dal problema dello spazio saturo. Purtroppo sono nato nel Novecento e non riesco ancora a fare a meno della carta, del vinile e di altri supporti materiali, anche se nel lavoro e nella vita privata uso normalmente le tecnologie attuali. Ai nostalgici che continuano polemicamente ad elogiare il piacere che prova il polpastrello a scorrere la pagina stampata rispondo ironicamente che il feticismo è una perversione. Nella realtà una cosa è la consultazione, altro la lettura personale. In quest’ultimo caso preferisco anch’io il libro all’e-book, i cui dispositivi di lettura sembrano finora progettati da tecnici che di libri ne leggono proprio pochi. Ma al momento di accendere il giradischi e abbassare la puntina nel solco del disco mi sento tagliato fuori, come se usare una tecnologia superata mi provocasse un’irrefrenabile melanconia. Non è il disagio che proverei davanti ai nipoti – anzi, sono curiosi di vedere come si viveva una volta, ma quel senso storico di fronte ai ricordi. I dischi in vinile fermano il loro repertorio ai tempi in cui tu eri studente e i VHS che ho registrato per anni si dimostrano per quello che sono: film che non ho più il tempo né la voglia di rivedere, bombardato come sono da immagini e audiovisivi di ogni genere. E non riesco più a rivedere una commedia dove il protagonista cerca disperatamente una cabina telefonica: è assurdo.

Ma a parte questi dettagli, qual è il vero problema? In fondo queste nuove tecnologie fanno guadagnare spazio ed efficienza e fanno anche risparmiare materiali, energia e altro. Oltretutto le case sono piccole e gli uffici pure. Ebbene, il vero problema lo pongono gli oggetti non ancora comprimibili: ma di cui abbiamo piene le case e gli uffici. Nelle case degli italiani ci sono milioni di macchine fotografiche, cineprese superotto, registratori a nastro, proiettori e lettori perfettamente funzionanti ma ormai inutilizzati e privi dei pezzi di ricambio. In ufficio impiegheremo ancora qualche anno per mandare al macero tonnellate di carta scritta e archiviata. Possiamo anche buttare le radio a valvole, i libri vecchi, i dischi in vinile, l’enorme impianto stereo anni ‘80, e chi più ne ha più ne metta. Ma resteranno sempre tanti beni materiali insostituibili o comunque da conservare: mobili, quadri, ricordi personali, servizi da tavola, indumenti. In più il calo demografico ha fatto convergere verso singole famiglie l’eredità delle zie, con il bel risultato di moltiplicare i servizi di porcellana, le argenterie, i cristalli, le poltrone, i quadri di genere, i mobili. Per qualche anno ce li siamo rivenduti nei mercatini di quartiere borghese, ora con l’aria che tira li accettano solo in conto vendita. Argento e oro si vendono, il resto te lo tieni o lo butti. E qui c’è da divertirsi: a girare per cassonetti c’è di tutto: lampadari, spartiti musicali, pellicole cinematografiche, interi archivi di uffici commerciali (pieni di dati sensibili, n.b.), televisori e videoregistratori, computer completi di stampante. Per saperlo non c’è bisogno di infilare il naso dentro il cassonetto: basta osservare rom e romeni che con i loro carrettini pescano con l’uncino e svuotano tutto per terra per la quotidiana puntata di Uomini e topi. Prima qualcosa recuperavo anch’io – vecchie radio, spartiti musicali – ma ora dovrei essere un loro concorrente e non ne ho il coraggio: si direbbe che la vera differenziata la fanno loro. Alcuni di loro poi sembrano veramente fuoriusciti da Auschwitz.

A questo punto mi chiedo come ho fatto a vivere un anno e più di servizio militare dovendo far entrare tutto dentro un armadietto di metallo. Quando dico tutto intendo esattamente: divise, equipaggiamento, anfibi, abiti civili e quel poco che potevo tenere di mio: una radiolina, qualche libro, una macchina fotografica, una scatola di ricordi e di piccoli attrezzi, carta e penna, un diario, qualche fotografia, qualche alimento extra mensa e infine l’occorrente per la cura del corpo: rasoio, sapone, spazzolino e dentifricio. Eppure ero felice e non sentivo il bisogno di altro.

In difesa della geografia

La geografia abolita dai programmi scolastici, persino da quelli dell’Istituto nautico ( !? ) e forse mantenuta (quella economica) in quelli dell’Istituto tecnico per il commercio? Quand’era ministro della P.I. l’on. Berlinguer le cambiò il nome in Scienze della Terra, ma per fortuna non andò oltre. L’ultima assurdità è invece in linea con l’americanizzazione della scuola italiana: se i padroni del mondo sono infatti così notoriamente ignoranti in materia è perché essa viene insegnata solo per due anni alle medie. Si parla ora di introdurre nuove scienze: la geostoria, la geopolitica, la geosocietà, la scienza dei luoghi e delle comunicazioni integrata nell’ora di storia, senza chiarirne il senso e la strutturazione. Sia chiaro: la distinzione dello spazio e del tempo e la loro organizzazione concettuale in geografia e storia, come materie o come discipline diverse (se non addirittura separate) non ha senso, perché chi cresce e apprende le percorre e le costruisce contestualmente. Ma la giustificazione didattica consisterebbe nel fatto che oggi, in un mondo globalizzato, con le comunicazioni fisiche e simboliche sempre più intensificate (i trasporti, i media, il web) lo spazio non è più quello di vent’anni fa…

Il problema in realtà è mal posto: la materia non essendo costituita dallo spazio in sé ma, dalla sua percezione e dalla sua strutturazione simbolica. Prima della motorizzazione di massa gli orizzonti spaziali e temporali della gente erano limitati; nel medioevo lo erano ancora di più, mentre l’uomo del Rinascimento vive in una dimensione nuova. Ricordo uno stupendo film del regista portoghese Manuel de Oliveira, dove due gentiluomini discutevano del Mondo Nuovo. Dietro di loro, a parete, c’era una grande carta geografica, aggiornata con le nuove esplorazioni. E chi è stato a Lisbona, sa che oltre la torre del Belèm c’è solo l’Oceano. Questo per dire che lo spazio geografico o nautico esistono solo se riusciamo a organizzarlo mentalmente, a comprendere qual è il nostro posto e il nostro rapporto al suo interno e verso di esso. Questo spazio possiamo,anzi dobbiamo percorrerlo, ma possiamo anche solo immaginarlo: la geografia medioevale si rifaceva a Tolomeo, ma era ormai congetturale, priva di verifica: gli antichi descrivevano spazi ormai interdetti al viaggiatore, come oggi  per noi sono la Siria o la Somalia. E se il deserto per noi è l’ignoto, per un Taureg o un Tebu esso non ha segreti perché il nomade ci vive da sempre e col tempo e l’esperienza ne ha organizzato mentalmente la struttura, allo stesso modo in cui un nocchiero se la cava in mare aperto, di giorno con venti e correnti e la notte con le stelle. Anche l’astronomia è parte della geografia, si tratta solo di alzare gli occhi al cielo invece che guardare verso il basso o in direzione di quattro punti cardinali. E anche l’astronomia ormai ha ampliato i suoi orizzonti, l’Universo è in continua espansione. Ma la sua strutturazione simbolica era stata già intuita da Giordano Bruno quando parlava apertamente di Infiniti Mondi: la strutturazione simbolica dello spazio può precorrere di secoli la sua verifica scientifica.

Oggi invece molti viaggiano sapendo l’ora di partenza e di arrivo dell’aereo e la direzione del viaggio, ma senza idea alcuna del luogo fisico. E’ la c.d. geografia di punto, svincolata dalla sintesi spaziale, come se le coordinate indicate da un GPS non producessero che un punto assoluto in uno spazio indefinito o al massimo un angolo di rotta che unisce un punto noto ad un punto di arrivo che non ci interessa localizzare in un insieme. Si può anche vivere così, facendo a meno di strutturare lo spazio esterno, ma è consigliabile? Mi è capitato di seguire un giorno una tirocinante di Istituto tecnico per il turismo che lavorava in un’agenzia di viaggi. Ebbene, sapeva tutto sulle tariffe e gli orari per andare a Bologna, ma non sapeva dov’era Bologna. Non era tutta colpa sua, visto che sui muri dell’agenzia non c’erano carte geografiche, ma anche la decenza ha un limite. Si dice pure che la geografia si apprenderebbe pressoché spontaneamente nel contesto sociale, ma allora tanto vale non insegnare più l’italiano perché ormai in casa non si parla più in dialetto. Proprio il paragone con la linguistica insegna invece che il parlante ha competenza ma non coscienza linguistica, quindi deve imparare a conoscere leggi e struttura della lingua madre non solo per trasmetterla ad altri, ma per costruirsi un’identità forte verso l’esterno. Come la linguistica, anche la geografia si occupa infatti di un problema delicato: stabilire i rapporti spaziali e temporali con la realtà esterna, rapporti che necessariamente sono simbolici e devono essere strutturati in modo coerente e razionale. La visione del mondo può cambiare da cultura a cultura, ma ogni civiltà sente il bisogno di organizzarne una, e lo fa scientificamente. Non per niente lo studio della geografia è anche studio della matematica. Il problema quindi non è quello della disponibilità oggettiva di quanto una volta era uno spazio remoto, ma dell’incapacità soggettiva nel saper costruire da soli le coordinate spaziali e la strutturazione dello spazio intorno a noi. L’orientamento forse lo risolvono bussola e GPS, ma lo spazio non è solo un insieme discreto di punti: è Natura, Cultura, paesaggio, insediamento umano, mare, montagna, ecologia, viaggio, campo di battaglia, luogo di commercio…

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Dismissioni: Edifici a nuova vita

Un’operazione che alcune società moderne sembrano incapaci di fare è la ristrutturazione e il riutilizzo delle aree e degli edifici dismessi. Non è un fenomeno solo italiano: ho visto a Pola (attualmente in Croazia) le enormi istallazioni del porto militare oggi totalmente abbandonate e pericolanti . Ma in Italia penso che deteniamo il record: decine di colonie estive in rovina lungo l’Adriatico, decine di caserme chiuse da anni, fabbriche dismesse, enti assistenziali pericolanti, enormi, vecchi magazzini portuali o ferroviari vuoti. È il risultato delle successive ristrutturazioni degli ultimi trent’anni, si dirà: dell’esercito, dell’industria, dell’assistenza sociale, del trasporto merci. Mentre però all’estero (penso ad Austria e Germania) le caserme dismesse, tanto per fare un esempio, sono state subito vendute e riadattate ad alberghi o alloggi demaniali, in Italia stanno sempre lì, quasi un insulto ai soldati di leva che le hanno mantenute a specchio per mezzo secolo, nonostante alcune siano situate in luoghi ormai centrali e urbanisticamente preziosi. Le procedure di alienazione e di ristrutturazione sono così complicate e arcaiche da ritardare o scoraggiare persino l’italica borghesia compradora, sempre che lo Stato decida davvero di disfarsene. È impressionante vedere in che stato sono ridotte le colonie estive, decadute dagli anni ’80 in poi, quando l’individualismo esasperato e il nuovo benessere non prevedeva che i bambini fossero più affidati per l’estate a strutture pubbliche. Quello che è peggio, molti archivi di colonie, ospedali ed enti, pieni di dati sensibili e schede personali, sono ormai allo sbando. E se nelle città a bassa pressione demografica (come Trieste) caserme e magazzini portuali restano spettralmente abbandonati, a Milano, Roma o Torino questi spazi vuoti vengono quasi subito occupati da diseredati, immigrati, centri sociali, senzacasa e altri emarginati. Nel migliore dei casi, quando c’è un minimo di controllo pubblico, lo spazio viene assegnato per quote, contro ogni progetto unitario. A Roma di situazioni simili ve n’è a decine, dall’ex-ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà all’ex-GIL, dalle fabbriche chiuse sulla Tiburtina o sulla Prenestina ai casali della campagna romana.

Una terza via la suggerisce qualche volta la gente stessa, proponendo attività ludiche e artistiche o legate al tempo libero e utilizzando temporaneamente questi vuoti. Penso ai concerti a Forte Prenestino o Ardeatino, alle varie performance di artisti negli spazi ex-industriali, che ben si adattano al gigantismo delle opere di arte contemporanea o alla valorizzazione e riappropriazione del non-luogo. E’ un fenomeno diffuso, che parte dal basso e mantiene un uso comunque pubblico dello spazio demaniale, laddove la svendita ai privati favorisce esclusivamente attività commerciali o legate al turismo e in più creano una serie di barriere interne che frantumano lo spazio e fanno rimpiangere il latifondo.

La vera soluzione? L’urbanistica e la capacità di pensare sui tempi lunghi. Lo dimostra l’esempio dell’Arsenale di Venezia, tuttora di proprietà pubblica ma aperto all’arte. Potrebbero dimostrarlo una serie di spazi dismessi se solo potessero diventare università e luoghi di ricerca. Inizialmente le spese di investimento saranno alte, ma tali strutture possono attirare una serie di forze giovani e di ricercatori internazionali che possono creare nel tempo il valore aggiunto. Mi rendo conto di essere forse un sognatore, ma per ora in mancanza di un’iniziativa pubblica e di un concorso di idee, si rischia solo l’implosione.

e, si rischia solo l’implosione.

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I soldatini di piombo

Letteralmente, Romani di zinco. In Germania. Zinnfiguren sono quei soldatini piatti alti poco più di 3 cm, da noi meglio noti come Norimberga,dal nome della città dove storicamente erano fusi in lega di piombo, zinco e antimonio e poi con pazienza dipinti a mano da artisti locali o dai collezionisti stessi. Ormai in disuso come giocattoli, questi soldatini sono spesso utilizzati dai collezionisti per comporre scene storiche in miniatura, i c.d. diorami. Ebbene, questo libro non solo dimostra l’amore per la Roma antica tanto diffuso nei tedeschi di buona cultura, ma ci guida alla composizione delle scene. I figurini di piombo – legionari, civili, suppellettili, alberi – infatti hanno ognuno un codice e si possono comprare su catalogo presso una antica fabbrica di soldatini tuttora esistente a Berlino, che ho visitato personalmente. Possiamo ricostruire tutto quello che vogliamo: l’assassinio di Cesare, l’assedio di Alesia, la disfatta di Varo da parte di Arminio, un accampamento di legionari, ma anche l’operosa vita di una villa rustica, l’animato mercato di una piazza romana, la costruzione del Limes. L’iconografia d’insieme risente un po’ delle ricostruzioni di maniera, ma noi possiamo sempre metterci la nostra creatività. Che dire? E’ un libro realmente originale. In più, un dettaglio interessante: per essere più facilmente riprodotte, le tavole sono stampate a fogli mobili, accorgimento molto pratico ma raramente seguito da altri editori.

 

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Autore: Friedrich Giesler

Titolo: Römer in Zinn. Römische Geschichte in Zinnfiguren

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Editore: Rheinland- Verlag, Köln, 1992

Dati: Pappband 59

Prezzo: EUR 17,40

ISBN 3792712091

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Nanni Moretti: I primi sessantanni

Rivedere dopo tanti anni Io sono un autarchico (1976) mi ha fatto impressione, era come rivedere una Roma ormai lontana e storicizzata. Eppure Alberto Moravia notò che al Filmstudio, dove il film veniva proiettato, non c’era differenza tra il pubblico e quanto si vedeva nella pellicola. L’identificazione era dunque immediata e questa fu la fortuna del film e del suo giovane regista, che dal superotto sarebbe passato al 35 mm (in realtà un 16 mm gonfiato) con Ecce Bombo (1978), il film con cui ha consolidato la sua carriera. Pochi ricordano Sogni d’oro (1981) ma sicuramente hanno visto Bianca (1984) e i film successivi, cinematograficamente più maturi, che non analizzo in questa sede, ma in cui è facile notare una progressiva estensione a tutta la società italiana dell’analisi partita dal privato, sulla base di un pensiero etico che pochi registi italiani hanno sviluppato in modo così rigoroso. Faccio piuttosto notare che la critica cinematografica, e non solo quella ideologicamente schierata, fu con lui fin dall’inizio molto clemente, mostrando un entusiasmo unico nel suo genere e sorvolando sulle inevitabili smagliature di un’opera prima. Meno fortuna e clemenza ebbero infatti negli anni ’80 le opere dei suoi seguaci, all’epoca indicati collettivamente come morettismo, sorta di commedia all’italiana a passo ridotto sulle inconcludenti giornate e i tic nervosi dei giovani della sinistra studentesca.(1). A far carriera sono stati pochi, e qui mi piace ricordare Daniele Luchetti, Roberto Di Vito e Claudio Fragasso. I primi due sono stati anche aiuto registi, di Moretti, mentre Fragasso , dopo un fortunato inizio realistico (Passaggi, 1979) seguirà strade diverse (Difendimi dalla notte, 1981), sviluppando un reale talento per l’horror (2). Ma anche Luchetti e Di Vito si sono affermati in quanto autonomi e diversi dal maestro; il primo con Domani accadrà (1988) (3), l’altro con creazioni sospese tra realismo e immagine onirica (4). In realtà Roma non era solo la capitale del cinema industriale, ma anche di quello amatoriale, svincolato ormai dalla FEDIC (la gloriosa Federazione dei cineclub) e dal Festival di Montecatini che li valorizzava. I cineclub romani sono tutti figli del ’68 (Filmstudio, Politecnico, Occhio Orecchio Bocca, Cineclub Tevere poi Labirinto) i quali, oltre a proporre il cinema che non si vedeva in sala, incoraggiavano tutti noi a prendere in mano una cinepresa e a mettersi in gioco. Ricordo benissimo, p.es., la stagione dell’Underground,  che, pur entro i limiti di una cultura di importazione, resta un episodio degno di essere ricordato. Era l’epoca d’oro del cortometraggio e ne avrò visti centinaia, italiani e stranieri. Negli anni ’80 assistiamo invece a un fenomeno strano: il cinema italiano ha proposto in sala almeno 450 esordienti in dieci anni. Tenendo conto che nello stesso periodo la televisione privata stava divorando il cinema italiano per poi digerirlo, tuttora è poco chiaro come facessero tanti autori finanche privi di scuola di cinema a sfornare opere prime, totalmente scollate dalle strutture produttive e distributive, festival esclusi. C’era ancora l’articolo 28 (una legge del Ministero dello Spettacolo che finanziava il cinema d’autore), ma la distribuzione era già al collasso e di troppi autori non si è saputo più nulla. Di quel periodo ricordo bene solo un film: I ragazzi di Torino sognano Tokyo ma vanno a Berlino (1985), per la regia di Vincenzo Badolisani, che oggi lavora in tv senza troppa gloria. Di tanti altri non riesco a ricordarmi che poche scene o alcune frasi di dialogo, mai incisive e caratterizzate come quelle di Nanni Moretti, ormai divenute proverbiali. Solo lui infatti è riuscito a diventare paradigma, cioè modello di riferimento, magari odiato dalla cultura di destra, che non vedeva i suoi film ma si gratificava nel contemplare dall’esterno il declino dell’intellighencija. Altri lo ignoravano come lo ignorano tuttora: semplicemente non lo capiscono. E a rivedere Io sono un autarchico, si notano gli stessi pregi e limiti dei film successivi: idee originali sviluppate con ritmo ponderato, la tendenza dell’autore a rubare la scena, il minimalismo e soprattutto il primato della parola sull’immagine. Nel complesso, nessuno ricorda i film di Nanni per i movimenti di macchina o per la fotografia: il suo è un cinema fortemente concettuale, incapace forse di partire da un’immagine, ma capace però di anticipare i tempi invece di registrare quanto esiste. Habemus Papam (2011) è un film emblematico: la sua tesi era considerata con scetticismo dall’Osservatore romano, fino a quando due anni dopo la realtà ha superato la fantasia. Nanni Moretti è lentamente cresciuto come regista quando è passato dalla descrizione del quotidiano all’analisi profonda della società italiana. E non sono molti tutto sommato i registi che hanno l’Etica come fondamento della loro cinematografia.

  Nanni Moretti index

 

 

 

 

 

 

 

 

Note.

 

 

 

 

 

 

 

  • (4) Roberto Di Vito è il vero cineasta indipendente, impossibile collegarlo a scuole o maestri o capire a cosa sta pensando. Quando girava in superotto, non di rado gli prestavo io le attrezzature necessarie e sono contento che abbia fatto carriera. Tra me e lui è rimasto un grande rapporto di amicizia. Assistente alle riprese per due film di Nanni Moretti (Bianca e La messa è finita). Segretario di edizione del film La setta di Michele Soavi. Regista, operatore e montatore video di backstage di importanti spot pubblicitari, tra i quali tre per la Banca di Roma diretti da Federico Fellini. Lavora sui set di Phenomena, Opera e Due occhi diabolici di Dario Argento. Esordisce ufficialmente alla fine degli anni Ottanta con un cortometraggio thriller La notte del giudizio, anche se in realtà ha cominciato a quindici anni girando una quarantina di cortometraggi in super8, alcuni dei quali devono molto all’estetica autarchica del primo Nanni Moretti. Ma è con Sole (1994), vincitore del premio del pubblico al Festival di Capalbio 1995, che si delinea una cifra autoriale più precisa: «Questa volta si tratta di un thriller esistenziale, psicologico, in cui la paura si alimenta di se stessa» spiega Di Vito. «La protagonista si lascia prendere dall’angoscia in una situazione di assoluta normalità. La casa, da rifugio ovattato, da “casa dolce casa”, si trasforma a poco a poco in un luogo ostile, pieno di rumori e presenze inquietanti. Sono stati d’animo che riguardano ognuno di noi, anche in età adulta. Quante volte, di notte, ci svegliamo improvvisamente con la sensazione che qualcuno sia entrato nella nostra camera da letto?». Ma se qualcuno ha voluto etichettare l’allora trentatreenne come uno dei nuovi cineasti horror, si è sbagliato di grosso. A Di Vito interessano gli spazi, i luoghi, gli stessi corpi attoriali che tendono all’astrazione. «Astrazione non vuol dire però sperimentazione estraniante, concettuale e noiosa. Io punto all’opposto, vorrei commuovere, emozionare e far sognare non partendo solo dalla storia o da quello che si dice ma anche da quello che non si dice. Da questo punto di vista, l’ambizione espressiva è alta: arrivare al cinema “commerciabile” ma puro, senza un grande intreccio narrativo». Il cortometraggio successivo, forse il capolavoro del regista, Ai confini della città, è un amaro apologo di una civiltà e di più generazioni allo sbando, all’interno di una Roma inedita, completamente svuotata, pronta alla desertificazione, molto vicina ai paesaggi apocalittici di Ciprì e Maresco.Vincitore di svariati premi, tra i quali il Globo d’Oro nel 1998, segna anche il passaggio verso un approfondimento di tematiche sempre più personali: l’attenzione verso gli ultimi, condito da un realismo magico ambientato in luoghi mai banali, dal corto comico, interpretato da Stefano Masciarelli, Il parco (2000), all’astratto Righe (2001) e all’intenso L’angelo (2004). Per arrivare poi all’agognato esordio al lungometraggio Bianco, rielaborazione dell’omonimo cortometraggio del 2001, summa del cinema corto del regista con echi tra Polanski e Antonioni. Dopo aver partecipato al Fantafestival e Bari International Film Festival 2011, arriva finalmente in dvd, distribuito da CG Home Video. «Non è facile imbattersi nel panorama asfittico delle opere prime, molte delle quali terribilmente omologate, in un film come quello di Roberto Di Vito, così attento ai valori plastici e figurativi della composizione, della messa in quadro geometrica e rigorosa di ossessioni visive ed esistenziali, tali da renderlo, al di là del pretesto narrativo, particolarmente adatto ad esplorare i territori del fantastico, da decenni assai poco proficuamente praticati nel cinema italiano». 

(Anton Giulio Mancino).