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Due eserciti son troppi

Lo confesso: questa storia del comandante della Wagner che guida un ammutinamento contro l’esercito regolare russo mi tiene sul  filo, sia perché dicevo da mesi che due eserciti sono troppi anche in tempo di pace, sia perché è come ripercorrere la storia del tardo Impero Romano, quando il potere dell’Imperatore era prima o poi messo in discussione da qualche generale delle legioni stanziate nelle province più remote dell’Impero, le più combattive ma scontente del Potere centrale. Imperium significa comando e come tale il termine indicava la delega riservata al comandante, che almeno fino in età repubblicana non era un militare di carriera come lo intendiamo oggi, ma un funzionario (console, magistrato, tribuno) investito temporaneamente delle funzioni di comando. Le guerre essendo stagionali, non trasformavano la funzione di comando in modo permanente. Solo dopo le prolungate guerre sociali l’esercito romano si è professionalizzato, mentre prima i soldati-contadini potevano tornare al lavoro dei campi dopo l’estate. Caio Mario è sicuramente il primo comandante che poteva contare su truppe a lui devote, mentre Scipione l’Africano resta l’esempio retorico del militare fedele alla Res Publica e pronto a ritirarsi a vita privata. Caio Mario fu anche il primo a riconoscere nell’aquila il simbolo dell’esercito, tradizione che tuttora segue il nostro Stato Maggiore. Nel frattempo Giulio Cesare aveva varcato il Rubicone e Augusto riusciva infine a stabilizzare per secoli l’equilibrio fra potere politico ed esercito, almeno fino alla crisi del III secolo (grosso modo tra il 235 ed il 284), tra il termine della dinastia dei Severi e l’ascesa al potere di Diocleziano. Senza entrare in dettaglio, fu un’epoca dove le legioni più combattive e lontane da Roma erano legate più al proprio comandante che alla Res Publica e spesso lo proclamavano Imperatore. Una dinamica simile si sarebbe poi ripetuta negli ultimi due secoli dell’Impero Romano d’Occidente. Ho tra l’altro riportato alla memoria tutte le mie letture di storia romana, accorgendomi che gli studiosi hanno affrontato la materia da un punto di vista storicistico, ma senza mai approfondire la vera natura del problema; il controllo politico delle proprie forze armate.

Passando ai nostri giorni, mi accorgo che anche l’analisi italiana del problema è partita in ritardo: gli unici studi seri escono tra  il 1982 e il 1984 e sono un articolo di convegno di Falco Accame, ammiraglio e politico italiano, e un saggio scritto dall’analista Sergio Bova per i tipi di Einaudi nel 1982 (1). Sono guarda caso anni difficili per la nostra democrazia. Nel frattempo la bibliografia internazionale – su cui sorvolo – si occupava dell’ingombrante ruolo dei militari in Africa e in America Latina e anche del controllo politico delle forze armate in Russia dopo la fine del Comunismo. Fino a quel momento il PCUS aveva mantenuto su di esse un controllo continuo, capillare e il commissario politico era una figura onnipresente anche se impopolare. Con Putin assistiamo a un fatto nuovo: accanto all’Armata coesiste una sorta di Legione Straniera; difficile parlare di mercenari nel senso stretto, visto che questa formazione militare dipende strettamente da Putin stesso.

Ma chi è realmente Evgenij Prigozhin, indiscusso comandante della compagnia di ventura statale Wagner? Non è un militare di carriera e neanche il reduce di una guerra, ma un avventuriero e un delinquente: nel 1990 a trent’anni ha iniziato come venditore di hot-dog a San Pietroburgo non appena uscito dal carcere dopo aver scontato una pena detentiva per una rapina compiuta a 17 anni. Il lavoro rende bene (1000 dollari al mese, a parte il “pizzo”) e lo estende ai locali con strip-tease e alla ristorazione di lusso. Nel 2014 riesce a ottenere l’appalto per le forniture alimentari alle forze armate. In seguito l’ex detenuto imprenditore del cibo, estende i suoi interessi economici ai mercenari che mette a disposizione del Cremlino e delle sue avventure nel mondo, offrendo alla politica estera della Russia una sorta di legione straniera svincolata dalle leggi di guerra. Poi ha fatto fortuna con una catena di negozi alimentari, il catering per le scuole e l’esercito. I suoi ristoranti a San Pietroburgo hanno più volte ospitato le cene del capo del Cremlino con i leader stranieri, da Jacques Chirac a George W. Bush, al punto da valergli il soprannome di «cuoco di Putin». E quando gli si chiede l’altr’anno di reclutare anche i delinquenti dalle patrie galere, lui che ci è stato è sicuramente molto persuasivo: come si è riabilitato lui lo possono fare anche gli altri. Prigozhin comanda 25.000 mercenari decisi e spietati, ma non viene dalla scuola di guerra e spesso ha forti perdite. Ma accumula anche oro e valuta in Africa in cambio del suo aiuto ai regimi locali. Per noi sarebbe impossibile accettare un simile individuo, ma le modalità del sistema di potere di Putin – e l’abbiamo già analizzato – ricordano quelle di un clan mafioso, o almeno quelle tipiche di una ristretta oligarchia, per cui c’è spazio anche per milizie private ma di fatto armate, organizzate e pagate da Putin, lo dimostrano gli standard di armi ed equipaggiamento. Resta da capire quale sia l’appoggio reale delle forze armate russe verso Putin e i suoi oligarchi, visto che il paese ha sentito l’esigenza di avere due eserciti invece di uno. Ora Prigozhin si è ribellato al suo padrone (a meno che non sia una manovra concordata per favorire il pugno di ferro), ma in un paese europeo chi si sarebbe mai fidato di un delinquente comune uscito di galera? Prigozhin avrà anche i suoi motivi per attaccare i generali russi, ma quelli sono comunque soldati di un esercito regolare fedele allo Stato e sta alla politica o allo stato maggiore decidere quando e perché sostituirli. Se Putin finora non era intervenuto avrà avuto il suo utile e avrà fatto i suoi calcoli, anche se li aveva già fatti male un anno fa. Difficile che 25.000 uomini potessero conquistare Mosca, ma gli applausi della gente a Rostov sul Don ai mercenari della Wagner sono un campanello d’allarme. Saranno gli storici del futuro a capire i motivi e le ricadute di avere due eserciti invece di uno, con buoni rapporti solo finché erano distanti uno dall’altro: procedure e mentalità sono molto diverse e le rivalità reciproche erano facili da intuire, gli attriti prevedibili. E’ ancora presto per capire cosa è realmente successo e soprattutto quello che succederà. Ma è facile immaginare un quadro di instabilità politica.

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Note:

  1. Il controllo politico delle forze armate in Italia / Falco Accame, in: Pace e sicurezza : problemi e alternative / F. Accame … \et al.! , p. 173-190. Milano : Franco Angeli, 1984; Il controllo politico delle forze armate : l’organizzazione della difesa nello Stato repubblicano / Sergio Bova. Torino : Einaudi, 1982

Diga russa

La centrale idroelettrica di Kakhovka sul fiume Dneper (Nipro nei nostri vecchi atlanti) è stata gravemente danneggiata il 6 giugno scorso da un’esplosione, causando l’allagamento di vaste zone vasti allagamenti in vari insediamenti della regione di Cherson occupata dai Russi e mettendo a rischio lo stesso approvvigionamento idrico della Crimea. Gli effetti del disastro ambientale avevano subito portato gli analisti a pensare che l’operazione sia stata organizzata dall’esercito russo  per impedire o rallentare la controffensiva ucraina. D’altro canto, non si segnalavano attacchi notturni di aerei o di droni o di artiglieria in zona. In più, il 9 giugno l’intelligence ucraina ha intercettato una conversazione tra militari russi, in cui si afferma che la centrale idroelettrica è stata fatta saltare in aria da un loro gruppo di sabotaggio «Nella notte del 6 giugno, gli invasori russi hanno fatto saltare in aria la centrale idroelettrica di Kakhovskaya , distruggendo  la sala macchine e la diga, la centrale  non può essere ripristinata”. A darne notizia è il giornale online ucraino “Ucraina Pravda”. L’11 giugno l’esercito russo ha poi fatto saltare in aria una diga sul fiume Mokry Yaly, nella regione di Donetsk, causando inondazioni su entrambe le sponde del fiume. Avendo rivendicato la distruzione della seconda diga, è istintivo pensare che anche la diga Kakhovskaya sia opera loro. Ora un’inchiesta del New York Times, affidata a ingegneri e tecnici, ha stabilito che inequivocabilmente sono stati i Russi a sabotare la propria diga.

Intanto, l’uso strategico dell’acqua ai fini difensivi non è una novità; Ravenna è stata capitale dell’Impero romano d’Occidente (402-476), del Regno ostrogoto (493-540) e dell’Esarcato bizantino (584-751) proprio perché circondata da paludi malariche. In tempi più recenti Cavour allagò nel 1859 le risaie del Vercellese per ritardare l’avanzata degli Austriaci nella seconda Guerra d’Indipendenza. Tutti poi ricorderanno se non il libro di James Holland (1951), almeno il film Dam Busters (I guastatori delle dighe, 1955), dov’è realisticamente ricostruito il raid del 16-17 maggio 1943 noto come Operazione Chastize (Castigo), l’attacco contro le dighe tedesche dei fiumi Eder, Ennepe, Sorpe e Möhne condotto dai bombardieri Avro Lancaster del 617° squadrone del Bomber Command della RAF. Impresa memorabile per vari motivi: l’alto tasso di rischio (8 aerei persi su 19, 53 piloti morti e 3 prigionieri su 133 totali) e l’uso di bombe speciali, che a vederle sembrano grossi bidoni di petrolio. Queste “bouncing bombs”, bombe a rimbalzo, dovevano essere sganciate in velocità dopo che le tre ondate dei Lancaster avrebbero navigato a 450 mt. di quota per evitare i radar tedeschi. Queste bombe, progettate apposta, pesavano 4 tonnellate circa, di cui 3 di esplosivo T4 e dovevano rimbalzare rotolando sull’acqua in modo da evitare le reti antisiluro e arrivare alla parete della diga, per poi esplodere a tempo ad alcuni metri di profondità. L’altezza giusta per lo sgancio – 18 metri – era calcolata collimando due fari puntati sullo specchio d’acqua. Come si vede, era un’impresa temeraria e infatti lo squadrone, assieme al suo comandante Guy Gibson, fu insignito della Victoria Cross. La distruzione delle dighe comportò danni enormi: due dighe distrutte, una terza danneggiata, almeno 1000-2000 annegati e 30 km² di territorio tedesco sommersi dall’acqua con almeno 125 fabbriche, 25 ponti e alcuni nodi ferroviari. Dalla sola diga del Möhne erano fuoriusciti 210 milioni di tonnellate d’acqua.

Questo nel 1943. Due anni prima – il 18 agosto 1941 –  invece Stalin fece sabotare coscientemente la centrale idroelettrica del Dnepr vicino Zaporižžja, denominata ufficialmente Dniprovs’ka HES (DniproHES o Dneproges secondo le fonti) e fatta saltare in aria nel 1941. Restaurata in parte dai Tedeschi con l’aiuto di prigionieri di guerra sovietici, fu distrutta di nuovo nel 1943 durante la ritirata e rimessa in funzione nel 1947. Furono usati dai tedeschi 3 kg di tritolo e 500 bombe da 100 kg. ciascuna, il che è grosso modo un indicatore di quanto esplosivo è necessario per distruggere una diga, in questo coerente con la carica delle “bouncing bombs” inglesi prima descritte,  anche se la centrale idroelettrica Kakhovskaya è molto più piccola del Dneproges e gli esplosivi moderni sono molto più efficaci della dinamite e del TNT usati nella seconda G.M. Riesce però difficile pensare che una squadra di incursori ucraini potesse portarsi dietro a spalla tanto peso e che un impianto del genere non fosse presidiato. E’ vero che nei mesi precedenti la diga era stata oggetto di lancio di missili Himars, ma l’Istituto di sismologia norvegese (Norsar) ha rilevato un’esplosione proveniente dalla regione della diga ucraina di Kakhovka prima del momento del crollo. Questo dato non attribuiva un’origine all’esplosione, ma supportava l’idea che la diga idroelettrica, situata in un’area sotto il controllo russo, non avesse ceduto a causa dei danni subiti durante i bombardamenti dei mesi precedenti. Almeno dalle foto aeree sembra che la sala macchine non è stata danneggiata dall’esplosione, la distruzione è iniziata con le valvole, e poi l’acqua ha spazzato via tutto ciò che incontrava. Si dirà che bastava aprire le valvole invece di metterci la bomba e i Russi ancora insistono con la loro versione. Ma va detto che i Russi sono convinti fin dai tempi di Napoleone se non prima ( Carlo XII di Svezia invase nel 1709 la Russia fino alla Poltava, un fiume dove si combatte anche oggi) che distruggere un paese arretrato – per giunta il proprio paese – sia grande strategia.

Russia 2.0

Stavo consultando una tesi di dottorato: Pluralismo tra democrazia e autoritarismo: il caso russo, di Laura Petrone. Liberamente scaricabile dalla rete (1), risale al 2010 ma resta attuale per capire quello che in questi giorni di guerra ci chiediamo tutti: come mai la Russia dopo la caduta dell’Unione Sovietica non si è evoluta come tutti avremmo sperato, cioè sviluppando istituzioni democratiche che non fossero formali ma garantissero uno sviluppo ideologico ed economico adeguato alla modernità? Lo scrivo in un momento in cui ci chiediamo, esterrefatti e inorriditi, come mai c’è ancora in Europa chi è convinto che obiettivi politici di egemonia non possano essere conquistati con pressioni politiche, diplomatiche e strategie economiche piuttosto che con la guerra, visto che nei conflitti moderni il costo è maggiore dei risultati e che pratiche forse normali nelle guerre antiche sono ormai inaccettabili?
Sicuramente c’è stata da parte del “pensiero occidentale” la convinzione che i regimi totalitari prima o poi crollino per evolversi verso una democrazia, con traiettorie abbastanza ordinate e prevedibili verso regimi democratici nati da elezioni libere e regolari. Determinismo peraltro simmetrico del pensiero totalitario, che ritiene la democrazia un disordinato contrattempo prima dell’affermazione di una struttura di potere non condizionata dall’equilibrio obbligato dalle dinamiche sociali ed elettorali. E qui mi andrei a rileggere Miseria dello storicismo di Karl Popper: l’evoluzione politica non segue mai strade obbligate: “nessuna società può predire scientificamente il proprio futuro livello di conoscenza”.
Ma torniamo alla Russia. In sostanza, ai tempi dell’Unione Sovietica, Stato e Partito (PCUS) facevano tutt’uno e Michail Gorbačëv (amato più da noi che dai Russi) cercò a suo tempo di riformarne le strutture, dando più importanza a quelle economiche che a quelle democratiche, indebolendo di fatto lo Stato. Lo scioglimento del PCUS imposto nel 1991 da Boris Eltsin spezzò questo binomio, col risultato di far indebolire le strutture statali a vantaggio di una classe di capitalisti che nelle privatizzazioni dei grandi enti di Stato trovarono la miniera d’oro, creando in un paese socialista una distopica sperequazione di ricchezza fra oligarchi e gente comune, resa possibile dall’indebolimento delle strutture statali e da connivenze criminali, fino all’ascesa di Vladimir Putin, il quale ha perseguito un fine solo: la restaurazione dello Stato come supremo organizzatore della vita civile, dell’economia e della politica. In sostanza è comunque lo Stato il garante che permette lo sviluppo di un regime democratico, e non per niente le democrazie occidentali si sono sviluppate quando lo Stato moderno ha definito e consolidato le sue funzioni (economiche, fiscali, militari, assistenziali, etc.) e dalla lotta politica si è creato un equilibrio fra i soggetti sociali rappresentati in un Parlamento. Non per niente i paesi ex-socialisti che hanno saputo creare una democrazia parlamentare (Polonia, Ungheria, i Paesi Baltici, Cechia) si basavano su esperienze storiche consolidate, mentre la Russia e le repubbliche sovietiche asiatiche (Kazakistan, Tagikistan) ne mancavano totalmente. Ma in Russia, dopo la debolezza dell’esecutivo a fronte dei poteri costituzionali e l’intreccio tra la sfera pubblica e la sfera privata tipica del tempo di Eltsin, Putin si è posto come priorità la ricostruzione dello Stato, dando più potere al centro attraverso una serie di riforme federali, riallineando con le buone o le cattive maniere gli oligarchi alla politica presidenziale, e di fatto burocratizzando l’élite politica. Il livello di obbedienza all’interno dell’apparato statale è tuttora alto, in più c’è l’ autosufficienza economica e finanziaria, ovvero il controllo statale sui proventi garantiti dalla vendita di risorse naturali come il petrolio e il gas, come ben sappiamo. Burocrazia qui va intesa in senso lato, come logica dell’organizzazione politica su larga scala. Questo recupero della centralità dello Stato non ha però incoraggiato né lo sviluppo di quelli che chiamiamo corpi intermedi (classe media, partiti politici rappresentativi) né il pluralismo. E’ un regime che di fatto unisce caratteristiche sia democratiche che autoritarie e propone un proprio modello di sviluppo politico-istituzionale alternativo a quello delle democrazie liberali. Al suo interno i valori democratici non costituiscono una priorità, in quanto subordinati all’imperativo di uno Stato forte e centralizzato. In questa logica si collocano provvedimenti quali la limitazione dell’autonomia dei poteri regionali, l’eliminazione dei governatori eletti dal Consiglio Federale, l’allontanamento dalla politica dei partiti non legati al Cremlino e alcuni interventi tesi a preordinare e regolamentare i confini della c.d. “società civile” attraverso un controllo delle principali fonti della contestazione politica. Anziché imporre un unico sistema filosofico-spirituale alla società nel suo insieme, lo Stato mette a disposizione un ventaglio di orientamenti accettabili, tra i quali la popolazione è libera di scegliere. Nella prassi si nota però il ricorso a forme di controllo autoritario non coercitivo, che vanno dalla frode elettorale all’intimidazione (o peggio) e cooptazione dei principali avversari politici come base del consenso sociale e del proprio potere. Diversamente dalle forme classiche di autoritarismo, l’apparato ideologico è scarno, lo vediamo in questi giorni, basato su un forte richiamo all’identità nazionale e sulla mancanza di alternative credibili, alle quali però non è stata data ancora occasione di crescere.
In questa prospettiva, il quesito più urgente non è perché la Russia non è democratica e cosa debba fare per esserlo, ma un altro: in quanto autocrazia, può essa affrontare le sfide dello sviluppo economico e della modernizzazione? Può vincere una guerra più lunga del previsto senza sfaldare la base del consenso popolare, per non parlare dell’economia, visto che il PIL russo è inferiore a quello italiano?

Note

  1. file:///C:/Users/Utente/Documents/Documenti%20scaricati/Geopolitica/Petrone_Laura_Tesi_dottorato(1).pdf .
    Bologna, Facoltà di scienze politiche, 2010.

Mali d’Africa

Illustrazione Gianleonardo Latini

I Francesi sono stati estromessi dal Mali; persino l’ambasciatore è stato cacciato e d’ora in poi la lingua ufficiale del Mali sarà soltanto il Bambara, parlata da circa due milioni e mezzo di abitanti ma facilmente compresa da altri tre. Non sappiamo se sarà anche abolita la valuta CFA (Franco centro-africano), diffuso nell’Africa francofona:  vale un decimo del Franco francese ma è ancorato alla Banca di Francia. In ogni caso il posto dei soldati francesi sarà occupato da almeno 500 miliziani del Gruppo Wagner, quella specie di Legione Straniera russa già presente in Libia e forse ora anche in Ucraina. Quale sia il loro reale valore sul campo piuttosto che come pretoriani di regime è tutto da verificare, ma per la Francia di Macron è uno smacco: il Mali, come il Burkina Faso, era parte delle colonie africane e come tale manteneva forti legami politici e commerciali con la sua antica potenza di riferimento. Nel contratto di assistenza al locale governo era prevista la protezione militare contro attacchi esterni, in questo caso i guerriglieri Jahidisti che premono dal nord del paese. Per chi non conoscesse il Mali consiglio di dare un’occhiata alla carta geografica: è il classico stato africano disegnato con squadra e compasso in maniera assolutamente irrazionale: la parte a sud dei fiumi Niger e Senegal gravita sulla savana ed è la più popolata e coltivata, mentre la parte nord è un’enorme parte del Sahara sagomata geometricamente; è abitata da nomadi Tuareg ed è ricca di risorse minerarie. Ma difficile parlare di confini, di frontiere difendibili: il Mali è per molti versi un’astrazione geografica, come anche altri stati africani derivati dalla decolonizzazione. E come tanti stati africani, non riesce ad avere una dirigenza adeguata alla situazione. Quella attuale, capeggiata da Assimi Goïta, non fa eccezione.

Ora, sono stati fatti facili confronti fra  la disfatta statunitense in Afghanistan e quella francese in Mali, ma la realtà è diversa: l’esercito francese, coadiuvato dalla ben nota Legione Straniera, conosceva da oltre un secolo il terreno e nel corso del tempo aveva ottenuto anche reali successi militari, pur penalizzati dalla vastità del territorio e soprattutto da problemi politici nel rapporto con il governo del Mali. In regime coloniale la potenza occupante gestisce direttamente tutto, laddove ora può solo garantire assistenza alle fragili strutture statuali e ai deboli eserciti delle sue ex-colonie. Di fronte a una minaccia strutturale dovuta essenzialmente a una scarsa coesione sociale e statuale, addestrare le truppe locali non basta e in più un’eccessiva ingerenza esterna da parte di una ex-potenza coloniale viene malvista dalla gente. Esattamente quello che è successo in Mali.

Ma andiamo per ordine: dopo il colpo di stato del 2012 di soldati ammutinati guidati dal capitano Amadou Haya Sanogo e la sospensione della Costituzione, dall’aprile 2012 all’agosto 2013 è presidente ad interim Dioncounda Traoré, designato dalla giunta militare, e Cheick Modibo Diarra Primo Ministro ad interim il 17 aprile 2012 per aiutare il processo democratico fino alle elezioni del dicembre 2013. Nel frattempo riprende la guerra civile che ha portato l’etnia Tuareg (laica) del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, ad allearsi con alcune frazioni fondamentaliste, (gli Ansar Dine) che aderiscono al Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, alias al-Qa’ida nel Maghreb islamico, e a prendere il controllo della regione settentrionale del Paese, l’Azawad, regione che comunque nulla ha che spartire con la parte del Mali a sud dei grandi fiumi. Il 10 gennaio 2013 il presidente Dioncounda Traoré‚ in un discorso alla nazione, comunica di aver chiesto e ottenuto un intervento aereo della Francia, in accordo con l’Ecowas, la comunità economica dei paesi dell’Africa occidentale, contro i ribelli dell’Azawad (il nord del Paese). L’intervento francese in effetti libera i centri abitati dell’’Azawad cadute in mano ai fondamentalisti islamici, dove le truppe sono accolte con esultanza dalla popolazione. Nei quasi dieci anni successivi la guerriglia continua e i francesi contano alla fine 53 perdite, quante noi italiani in dieci anni in Afghanistan. Senonché il 18 agosto 2020 il presidente Ibrahim Boubacar Keïta assieme al primo ministro vengono tratti in arresto mediante colpo di Stato di una giunta militare. Prende il potere il Comitato nazionale per la salvezza del popolo che nomina il triumvirato Assimi Goïta, Malick Diaw e Sadio Camara fino a nuove elezioni politiche. Goita ha studiato a Mosca, parla russo e sobilla l’ostilità verso i francesi, i quali comunque da giugno di quest’anno avevano deciso di ridurre il loro impegno militare per il costo rispetto ai benefici, portando il proprio contingente da 5000 a 2000 uomini. A meno di non ricolonizzare l’Africa da capo, questo è un problema che assilla tutti gli eserciti occidentali. Ma soprattutto rimane il problema registrato in Afghanistan: non si può gestire una strategia di lungo termine con le risorse locali e i chiari di luna dei colpi di Stato e dei gruppi dirigenti locali, i quali alla fine sono capaci di venire a patti col nemico pur di salvare almeno parte del potere e del territorio. Solo negli ultimi dieci anni l’Africa ha visto una dozzina di colpi di Stato. In più gli eserciti europei alla fine se ne vanno, mentre il nemico è endemico e abita nel paese tuo, quindi meglio parlarci. Quanto a Russi e Cinesi, chiedono la licenza di estrazione delle risorse minerali, ma sono disposti ad aiutarti senza chiederti quelle noiosissime clausole che comprendono un parlamento eletto, l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa e il rispetto dei diritti umani. Ma alla fine per gli africani significa passare solo da una potenza post-coloniale all’altra.

Ucrainazisti: Perché i russi…

Ucrainazisti: Perché i russi…

Putin giustifica l’intervento militare in Ucraina per “denazificarla”. Ora, in guerra la realtà è sempre filtrata attraverso la propaganda, ma in effetti sul campo è attiva una formazione paramilitare neonazista – il Battaglione Azov – alle strette dipendenze dell’esercito regolare ucraino. Formato da volontari ucraini e stranieri con esperienza militare, ha ormai raggiunto l’organico di 3.000 uomini, al punto da cambiar nome in Reggimento operazioni speciali Azov. Dislocato nell’area del Mar nero, ostenta effettivamente simboli nazisti e finora ha dato filo da torcere agli schematici reggimenti russi. Meno numeroso è (o era) invece il 24° Battaglione d’Assalto Separato “Aidar”, che con 400 uomini operava nel Dombass contro i separatisti russi. Difficile avere su questi reparti informazioni attendibili e aggiornate: anche se posti sotto il comando dell’esercito regolare, tendono naturalmente ad essere autonomi, a seguire i loro capi e non sempre rispettano delle leggi di guerra. In più, tendono ad aumentare la loro fama con atteggiamenti esibizionistici a uso dei mass-media. Questo non significa che non sappiano combattere; il problema è che una gestione meno superficiale di queste compagnie di ventura gioverebbe innanzitutto al governo ucraino, il quale appoggia ed esalta reparti da cui dovrebbe invece prendere le distanze.

Andando però indietro negli anni, scopriamo però che c’è qualcosa di già visto. Parlo della 14° Divisione Waffen SS “Galizien”. Reclutata fra gli Ucraini d Galizia (una regione fra Polonia e Ucraina, da non confondere con l’omonima regione iberica) ma anche fra Slovacchi e altre minoranze ostili ai Sovietici e al Comunismo. Da un bacino di 80.000 volontari fu addestrato nel 1943 un contingente di 14.000 uomini, dove gli ufficiali tedeschi mantenevano i gradi più alti. La divisione fu mandata a combattere nel 1944 sul fronte orientale, dove fu pesantemente impegnata nell’area di Brody, distretto di Leopoli, Ucraina occidentale. Dal 19 luglio, dopo feroci battaglie, la divisione, assieme ad alcune unità tedesche, fu accerchiata e sconfitta dall’Armata Rossa. A dispetto della difficoltà del combattimento, la divisione seppe mantenere la disciplina e molti dei suoi membri furono capaci di infrangere l’accerchiamento. Dei 10.400 impegnati in combattimento se ne salvarono 7.000, che ripiegarono in buon ordine. Poco tempo dopo il reparto fu ricostituito attingendo alle riserve. Il 17 marzo 1945 emigrati ucraini crearono il Comitato Ucraino Nazionale per far valere gli interessi ucraini presso la Germania, ottenendo che la Galizien diventasse la 1° Divisione Ucraina. Nel frattempo l’Armata Rossa avanzava e la disfatta era solo questione di tempo. Fu a questo punto che la Divisione si arrese non ai Sovietici, ma agli Anglo-Americani. Fu la salvezza: gli stessi Inglesi che avevano consegnato ai Sovietici la Divisione del generale Vlasov (fanteria di linea ucraina armata dai tedeschi) e i Cosacchi stanziati in Carnia, stavolta non accolse le richieste sovietiche. 8000 prigionieri furono esfiltrati dall’Austria e internati in un campo di prigionia a Bellaria – Igea Marina, vicino Rimini e poi, su interessamento del Vaticano e dei governi Statunitense e Canadese, si favorì la loro emigrazione in Canada e in altri paesi sicuri. Diciamolo pure: gli andò bene. Anche se non furono mai trovate neanche da parte sovietica prove di crimini di guerra di cui si macchiarono altri reparti SS, non fu mai organizzato nessun processo serio sui membri di una formazione militare comunque armata dai Nazisti. Va detto che la Galizien fu impiegata tardi e come reparto militare sul campo, in difesa del territorio piuttosto che come polizia di occupazione, ma è indubbio che per una volta gli Alleati chiusero un occhio e il Vaticano discretamente fece la sua parte. In fondo, anche se peccatori, erano “buoni cattolici e ferventi anticomunisti”. Così li raccomandò il loro vescovo Ivan Buchko.

Negli ultimi anni le insegne della Galizien si sono viste in alcuni cortei in Ucraina, fin quando un tribunale ha ufficialmente stabilito con una sentenza che quei simboli sono nazisti e pertanto sono vietati.