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Il pianista di Yarmouk in un libro

di Enrico Campofreda –

Il pianista di Yarmouk in un libro

Cosa serve Mozart a noi palestinesi?” chiedeva Aeham al padre mentre questi lo spronava a ripetere qualche cavatina. Erano i primi passi da pianista, il bambino era curioso, il padre un violinista appassionato, il luogo dove si svolgevano le lezioni aveva acquisito solide pareti in muratura. Quando il padre era anche lui un bambino le pareti erano fragili o di lamiera. Ai tempi del nonno non esistevano, si dormiva sotto le tende. Yarmouk è l’immenso campo palestinese a otto chilometri dalla periferia meridionale di Damasco. Lì il padre del padre di Aeham ebbe l’autorizzazione di piantare la tenda nel 1957, assieme a migliaia di palestinesi diventati profughi nove anni prima, a seguito della Nakba. Le autorità siriane acconsentirono alla creazione d’un accampamento non ufficiale che nel tempo è stato gestito dalle Nazioni Unite. In quel posto sono nate almeno due generazioni, palestinesi di Siria che non hanno mai visto la Palestina. Dopo le rivolte della primavera 2011 Aeham ha visto scenari che mai avrebbe voluto conoscere: la scomparsa di amici e familiari, la guerra civile, quella per procura, il fanatismo dei jihadisti, il cinismo dei lealisti di Asad. Un’altra catastrofe. E loro profughi, in mezzo, come tanti altri civili. Non solo Yarmouk è stata sbriciolata dai missili, assediata dalla fame, ma quel che Aeham Ahmad, diventato il celebre “Pianista di Yarmouk”, narra nell’omonimo libro pubblicato in Italia da “La nave di Teseo” è la storia dei mesi d’assedio e della sua visionaria follìa di suonare fra bombe e macerie.

Il rischio di morte si ripeteva in ogni ora di giornate rese drammaticamente uguali dal fanatismo di chi combatteva per la propria supremazia: i fondamentalisti islamici che avevano occupato il campo e le truppe governative che cannoneggiavano per farli sgomberare. Fra i due fuochi una popolazione prigioniera, disperatamente aggrappata alla speranza che l’incubo terminasse. Ai più piccini ossessionati dalle bombe, una mattina in cui il cielo era intensamente azzurro e lindo dal pulviscolo della calce frantumata dalle esplosioni, Aeham regalò la soavità di note classiche. Eseguì brani di Beethoven, e ripensava a quanto utile ai profughi palestinesi potesse diventare Mozart. Dopo la domanda rivolta al papà, il bambino aveva compreso l’importanza di musica e cultura per chi è privato di tutto, e negli attimi in cui la morte s’aggirava per i vicoli di Yarmouk le melodie dolci o frenetiche avrebbero aiutato quella sfortunata grande famiglia di assediati. Quando un amico muscoloso trascinò per via il pianoforte che Aeham aveva in casa, potendo ancora conservare l’uno e l’altra, la gente rimase ipnotizzata dalle note. Dopo vari “concerti” i jihadisti vollero punire il gesto e bruciarono lo strumento. Ma indomiti ragazzi avevano immortalato le esibizioni di Aeham con un video finito sul web, così il mondo conobbe il ragazzo che sfidava bombe con le melodie. Poi, con l’esodo di massa dal campo, anch’egli scappò. Dal 2015 è rifugiato in Germania, vive a Wiesbaden, suona in diversi Paesi sebbene non possegga un passaporto. Glielo consentono la notorietà e l’arte che lo aiuta a vivere. Altri profughi, anche fra i familiari, non hanno questo privilegio e devono sperare che la politica di accoglienza del mondo fortunato non chiuda i battenti.

Pubblicato 11 maggio 2018
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Il pianista di Yarmouk
di Ahmad Aeham
Traduttori:Lucia Ferrantini
Editore: La nave di Teseo, 2018, pp. 348

Prezzo: € 20,00

EAN:9788893444903

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Giro d’Italia, il buco nero dell’informazione

di Enrico Campofreda –

Tutti a parlar di buche, che in una Roma addomesticata dai peggiori politicanti millantatori di cambiamento e propositori di affarismo, ha visto il chiacchierato Froome primeggiare; i corridori frenare e trasformarsi in cicloturisti per non rischiare, uno squarcio via l’altro, l’osso del collo; il pubblico far finta di godersi uno spettacolo che non è stato tale perché una tappa ciclistica non è la scampagnata che ha in mente l’attuale sindaco dell’ignavia seduto in Campidoglio. Dicono, a ragione, gli organizzatori che il fondo degli 11 spettacolari chilometri, su cui la carovana a due ruota avrebbe dovuto girare dieci volte, doveva essere asfaltato da mesi. Virginia Raggi e il suo personalissimo staff hanno applicato il programma che i romani conoscono ormai da un biennio: il nulla condito, nel caso delle strade, da qualche sputo di cemento e pezzatura di catrame seminati qua e là. Oggi i lettori trovano tanti noti colleghi di testate mainstream, sportive e non, a parlar giustamente delle buche delle vie romane che hanno rallentato i pedalatori professionisti e dei buchi nei piani di politici inadeguati non solo per una buona amministrazione, ma semplicemente per un’ordinaria lista delle urgenze che sui sette colli sono diventate alture insormontabili. Però i media e i loro operatori in questo Giro che doppia il centenario, ed è stato portato nelle prime battute a Gerusalemme, hanno evidenziato il proprio stratosferico buco al compito che gli compete. Un buco nero nel quale s’è persa o viene omessa la finalità primaria del ruolo: informare raccontando quel che accade.

Così nel rievocare le gloriose storie delle due ruote in rosa, visto che si partiva dalla Città Santa non c’è stata alcuna contestualizzazione su chi (Israele) con l’occupazione militare nel 1967 ha violato tale santità, anche della propria religione. Qualcuno obietterà che non c’entra nulla, invece c’entra eccome. Dipende dal senso che si vuol dare alla cronaca. Nell’inquadrare soldati coi mitra spianati s’è detto delle ragioni di sicurezza, tralasciando l’insicurezza e la morte che negli stessi giorni i commilitoni di quei militari spargevano in un altro angolo della Palestina lacerata e umiliata con la creazione dello Stato di Israele. A Gaza morivano più di cento cittadini che manifestavano ricordando il diritto al ritorno sulle proprie terre, mentre i finanziatori del Giro sbarcato nella Palestina storica più i suiveurs che lo stavano narrando, ricordavano il giusto Bartali, salvatore di ebrei perseguitati, ma non spendevano una parola per rammentare ciò che accadeva attorno alle strade riempite dal ticchettìo armonico di cambi e catene. Nel mondo disarmonico di un’informazione non dedita ai fatti, ma schiacciata sugli interessi di editori più politici che imprenditori e di direttori e cronisti asserviti alle due tipologie citate, non c’è spazio neppure per brandelli di racconto per offrire un servizio al lettore, figurarsi per un percorso di verità. Il settorialismo sotterra la cronaca, così chi doveva descrivere le tappe nei Territori occupati parlava esclusivamente di scatti e tempi, senza soffermarsi neppure un attimo sui luoghi e il contorno.

Del resto se già in partenza mancava, e non pensiamo involontariamente, la riflessione del motivo per cui il Giro dovesse sostenere il piano d’Israele di condire con un simile evento internazionale  la celebrazione del 70° anniversario della sua nascita come entità statale, non ci meravigliamo, ma lo denunciamo, che tanti colleghi abbiano taciuto la presenza lungo il percorso della Corsa Rosa rientrata nella penisola, di dimostranti pro palestinesi. Rumorosi con slogan, visibili con bandiere coloratissime, seppure compressi da manipoli di poliziotti in borghese e tenuti lontani dai traguardi dove si concentrano telecamere e obiettivi. Spiace che troppe camere e flash e taccuini si siano disinteressati d’una presenza, ovviamente politica, che parlava di Palestina e dei diritti calpestati di questo popolo. La contestazione della linea criminale spacciata da Israele come autodifesa diventa una conseguenza dei discorsi di tali attivisti. E costoro, possono piacere o no, erano presenti a bordo strada. In gruppi talvolta sparuti, tal altra più numerosi, dicevano la loro, ma sono stati ignorati da un’informazione che non vuole informare e punta a presentare una realtà di comodo, secondo princìpi ben lontani dalla deontologia. Nel termine, rivendicato da chi svolge questo mestiere, il discorso è unito al dovere cui si è tenuti a rispondere. Per coscienza, per morale o semplicemente per coerenza col ruolo prescelto. Un ruolo principalmente di servizio, ancor più se pubblico. Poi, nella neutralità assoluta che non esiste, ogni operatore dell’informazione ha opinioni proprie e magari può esprimerle a commento. Quel che diventa insostenibile è celare la realtà. Tutto ciò nel giornalismo diventato propaganda è un comportamento purtroppo diffuso. E’ quel cancro che trascina in un abissale buco nero non solo l’informazione, ma la stessa esistenza professionale.

Pubblicato lunedì 28 maggio 2018
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Kabul, l’esasperazione della morte

Trappola mortale stamane nella Kabul diventata obiettivo dell’Isis afghano. Un kamikaze s’è fatto esplodere presso l’edificio che ospita la locale Intelligence (Nds) posto nell’area attigua a Shah Rarak Road, una via parallela dell’enorme stradone che conduce all’aeroporto cittadino, peraltro controllatissimi. Si trattava di un’esca. Sul luogo dell’attentato accorrevano, come di consueto, autombulanze e personale sanitario più un manipolo di giornalisti. E naturalmente le forze dell’ordine. Dopo una ventina di minuti nello stesso luogo un secondo kamikaze, mescolato fra le presenze che s’aggiravano fra i rottami, azionava il detonatore della cintura esplosiva nascosta sotto gli abiti provocando una strage peggiore. Fra le vittime, assieme ai passanti colpiti nella prima deflagrazione, si contano soccorritori e nove giornalisti. Un comunicato del ministero della Salute parla di venticinque cadaveri e una cinquantina di feriti, alcuni dei quali in condizioni disperate. I nostri contatti in città riferiscono una situazione scioccante, perché oltre a seminare sangue e lutti, infonde un livello d’insicurezza assoluto, che indurrebbe a restare rinchiusi in casa in una situazione in cui muoversi è indispensabile per la stessa sopravvivenza ordinaria.

L’esasperazione della morte, indirizzata solo parzialmente alla cieca, quando colpisce gli sciagurati che si trovano a transitare nel luogo e nel momento dell’attentato, segue invece un piano che ha una strategia ben congegnata. Seppure le regìe possono essere varie. La prima è attribuibile ai gruppi talebani dissidenti che usano il marchio dello Stato Islamico del Khorasan, che hanno rivendicato la strage. Costoro si rivolgono principalmente contro il governo Ghani e i suoi apparati della sicurezza, e indirettamente contro i talib della Shura di Quetta, e i suoi momentanei alleati del network di Haqqani, sempre passibili quest’ultimi di trasformismi itineranti. I motivi sono: la supremazia sul territorio, con tutti gli interessi economici di contorno, e la palma della resistenza antioccidentale. Nella strategia stragista incidono pure le aperture fra governo afghano, Cia e i talebani disponibili a trattative per entrare nel governo. Un quadro, in ogni caso, instabile e cangiante da mese a mese. Sempre attiva l’altra regìa, attuata da Servizi pakistani, che usano la destabilizzazione afghana, sotto ogni forma, provocata oggi dalla corsa agli attentati, in altre fasi dalla guerra civile, per ottenere una frammentazione del territorio in zone controllate da soggetti diversi (come di fatto sta accadendo negli ultimi anni) per poterne trarre vantaggi geopolitici nel confronto-scontro su quel tratto di Medioriente con Iran e Arabia Saudita.

Non potendo essere costantemente in quei luoghi, come altri colleghi ci serviamo del lavoro coraggiosissimo di corrispondenti locali, raccolti in una rete di collaborazione con testate internazionali come Reuters e Afp. Oggi piangiamo questi cronisti dal fronte, si chiamavano Ghazi Rasooli, Ali Rajabi oppure Shah Marai. Come dicevamo accorsi sul luogo dell’attentato ed esplosi con la seconda bomba. A differenza di sfortunati passanti, loro non erano lì per caso, si trovavano nel luogo dove il reporter va per raccontare eventi spesso tragici dalle logiche perverse. Come perversa sa essere tanta geopolitica. Questi giornalisti non erano propagandisti, raccontavano ciò che vedevano, in molti casi lo facevano da free lance, perché anche grandi agenzie d’informazione come quelle citate, non danno garanzie (non tanto d’una sicurezza fisica che in quelle situazioni non può esistere) ma sulla stessa retribuzione del prodotto di tanto lavoro e rischio, in un mestiere che più gli editori che la tecnologia hanno deregolarizzato. Grazie al certosino impegno di questi reporter il mondo che impazza attorno a progetti di morte viene narrato, filmato, fissato in istantanee. A rischio della vita. A questi comunicatori la terra è lieve già quando ne divulgano i fatti, poiché se le parole e le immagini possono essere pietre, quelle dell’informazione libera da imposizioni editoriali e di regime hanno la speciale virtù dell’impegno finalizzato a una causa.

Pubblicato 30 aprile 2018
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dal blog di Enrico Campofreda

Syria Crisis- Giochi pericolosi

Talune forze, negli Stati Uniti, proprio non accettano le sconfitte e come dei bambini, in preda al peggiore dei capricci, iniziano a scalciare per ripicca ora a destra ora a sinistra. Se non fosse un film già visto ci si dovrebbe veramente preoccupare e vivere queste ultime ore che mancano all’ecatombe planetaria come se fossero gli ultimi istanti della nostra esistenza e quindi facendo tutto ciò che non ci è stato possibile fare fin’ora, ma fortunatamente non siamo ancora all’Armageddon.

Infatti, esattamente un anno fa, Trump, come oggi, era fortemente assediato per il cosiddetto Russiagate e per smorzare i toni in madre patria, verso la sua presunta russofilia, non trovò niente di meglio da fare che attaccare, nella provincia di Homs, alle 03:45 (ora di Damasco) del 07 aprile 2017, con 59 missili “Tomahawks”, la base aerea di Shayrat da cui sarebbe partito, il 04 aprile dello stesso anno, il presunto raid chimico del regime di Assad verso gli inermi civili di Khan Shaykhun. Raid che, è bene ricordarlo, allora come oggi, sarebbe avvenuto in una fase in cui l’Esercito Arabo Siriano era nettamente in vantaggio, perciò, cui prodest? Ai siriani lealisti di sicuro no!

Comunque sia, a fine operazione, gli americani avevano distrutto solo 6 vecchi Mig-23 e causato poco più di dieci vittime. Un attacco, insomma, a bassissima intensità, infatti solo 23 missili, dei 59 “Tomahawks” lanciati, raggiunsero il bersaglio, ma ciò fu sufficiente al Tycoon per avere un po’ d’ossigeno.

Nell’immediato i rapporti tra le due superpotenze sembrarono essere peggiorati di molto tuttavia – dopo che in un sol colpo il Presidente Putin è riuscito a costruire un asse tra la Turchia di Erdogan e l’Iran, chiudendo così positivamente anche la partita in Siria – gli Stati Uniti avevano annunciato, in data 07 aprile 2018, che si sarebbero ritirati dalla Siria a meno che l’Arabia Saudita  (Paese che mal vede più di chiunque altro il proseguo del regime di Assad in quell’area) non si fosse sobbarcata totalmente il costo del mantenimento delle truppe americane in Medio Oriente. In altri termini Washington sembrava aver riconosciuto ed accettato, la vittoria di Mosca e dei suoi alleati, in quella porzione di mondo, ma mentre accadeva ciò altre tegole stavano per cadere sulla testa di Trump:

  • In primis con il cosiddetto “datagate” che vede coinvolti: Steve Bannon, ex Capo stratega della Casa Bianca nonché ex VicePresidente della società Cambridge Analytica; la Cambridge Analytica, società che combina il data mining, l’intermediazione dei dati e l’analisi dei dati con la comunicazione strategica per la campagna elettorale; e Facebook, uno dei maggiori social network mondiali, in quanto responsabili dell’aver influenzato e falsato il risultato delle ultime elezioni presidenziali americane;
  • Secondariamente con il “Sexgate” che vede coinvolti, in un giro di relazioni di fuoco: la pornostar Stormy Daniels; l’ex modella di Playboy Karen McDougal; e l’avvocato Michael Cohen. Quest’ultimo avrebbe provveduto a comprare il silenzio delle due signore pocanzi nominate per conto di Donald Trump.

Ora, questi due eventi, in un America così puritana e russofobica, alle soglie delle elezioni di medio termine, potrebbero seriamente mettere nei guai il Presidente Trump ed allora cosa mai potrebbe fare il Tycoon per distrarre l’opinione pubblica, assecondare le lobby militari ed i nemici interni al Partito Repubblicano, se non organizzare un attacco in grande stile verso i “cattivoni” siriani rei nuovamente di aver usato delle armi di distruzione di massa contro la popolazione inerme?

Detta così potrebbe sembrare anche un’idea geniale, degna di Niccolò Machiavelli, ma, si sa, non è cosa saggia giocare con il fuoco perché, pur non volendo, l’incendio potrebbe pur sempre divampare e, in quel caso, chi potrà mai fermarlo?In fondo, Putin, per quanto sia un uomo dai nervi d’acciaio, è pur sempre un essere umano e, in quanto tale, anche la sua pazienza ha un limite. Pazienza che è già stata fortemente messa alla prova a seguito delle false accuse mosse dal Governo britannico, nei confronti del Cremlino, riguardo l’avvelenamento di Serghej Skripall e di sua figlia Yulia, a Londra, per mano di alcuni agenti russi. 

In questo frangente la risposta di Putin a tanta infamia ed alle espulsioni dei propri diplomatici, fu perfettamente simmetrica e 150 diplomatici occidentali furono costretti ad abbandonare il territorio della Federazione Russa. Se in tal modo a volare furono solo le “Feluche” ora rischiamo concretamente che a librarsi nell’aria siano oggetti ben più pericolosi. E tutto questo potrebbe avvenire solo ed esclusivamente perché il Presidente degli Stati Uniti, chiunque esso sia, è prigioniero:

  • del proprio ruolo;
  • di fortissimi gruppi d’interesse;
  • delle lobby degli armamenti. 

Tutte questioni che, a noi italiani poco interessano o meglio, dalle quali, per la nostra posizione geografica e per la nostra storia, non possiamo che avere solo influssi negativi. Di conseguenza ci conviene continuare ad essere alleati degli Stati Uniti? La risposta, a questo punto, è chiaramente no! E, a tal riguardo, venuto a sapere della domanda del reggente del PD, Maurizio Martina, rivolta al leader del Carroccio in merito al fatto se: << Salvini vuole cambiare le alleanze internazionali del nostro Paese? Se è così, lo dica chiaramente >> mi sento in dovere – pur non essendo il leader della Lega, ne legato a quest’ultimo in nessun modo e ne conoscendo il suo pensiero più recondito – di rispondergli in qualità di puro sovranista con un’altra semplice domanda: << Caro Martina, ma se non ora, quando? … Cosa e quanto, dovremo ancora aspettare per comprendere che continuando a seguire l’Europa, l’Euro e la Nato ben presto ci ritroveremo nel baratro più profondo? >> 

Persino un euro/atlantista convinto come il Senatore forzista Paolo Romani si è reso conto dell’inconsistenza delle accuse americane tanto da dichiarare che: “nel momento in cui i ribelli jihadisti di Duma si stanno per arrendere, immaginare che Assad abbia utilizzato armi chimiche, che avrebbero scatenato di sicuro la reazione internazionale, oltre a essere inutile sarebbe un’idea stupida >> e c’è chi, come Lei, crede ancora a queste fandonie? In tal caso le questioni sono due: o chi sostiene posizioni filoatlantiste è in mala fede o non è in grado di leggere la realtà che lo circonda, e, in entrambi i casi, ciò può denotare solo una cosa: una grave incompatibilità con il ruolo che riveste, ergo non è degno di sedere in Parlamento. 

Pertanto il mio appello – come semplice cittadino, rivolto a tutto l’arco costituzionale – è quello che si uniscano tutte le forze di buona volontà affinché, nell’immediatezza della crisi, l’Italia non partecipi in alcun modo a nessuna azione militare in Siria, ne inviando truppe o mezzi, ne mettendo a disposizione le proprie basi. 

Anzi il nostro Paese, anche attraverso l’ausilio della diplomazia vaticana, dovrebbe farsi carico di una Conferenza di Pace per tentare di risolvere la Guerra Civile Siriana.

12 aprile 2018
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su Frontiere

 

Elezioni turche, la corsa contro il tempo di Erdoğan

di Enrico Campofreda

Per capitalizzare gli effetti delle ultime mosse sul terreno siriano e la conquista di Afrin Erdoğan in patria gioca d’anticipo sulle elezioni politiche, unendole alle presidenziali previste fra oltre un anno. Forza la mano sull’alleato di comodo Bahçeli che suggeriva il 26 agosto e lancia un’election day per il 24 giugno. Ovviamente si prende la scena commentando che il passo diventa necessario perché la Turchia riesca a superare le incertezze che si stagliano per le situazioni di Siria e Iraq. Ma lascia annunciare il tutto alla figura che, secondo il progetto di Repubblica  presidenziale approvato col referendum un anno fa, verrà soppressa quella del premier. E’ stato, dunque, il primo ministro Yıldırım, ridotto a gran visir di second’ordine, a ufficializzare che il processo elettorale prenderà il via immediatamente. Una commissione sta già lavorando per avviare il dibattito in Parlamento. L’azione presidenziale tende a incamerare elettoralmente quanto più è possibile dai passi compiuti in politica estera, dove l’azzardo che lui ha trasformato in regola ha tempi dettati dall’andamento di vicende che, come dimostra il sipario siriano, sono comunque cangianti e non definite.

In più c’è la non favorevole contingenza di sondaggi che mostrano consensi in calo per l’alleanza fra Akp e Mhp, dati che parlano di diversi punti sotto il 50%. L’accoppiata islamo-nazionalista spera che anticipo elettorale possa sottrarre voti all’opposizione del partito repubblicano, rimasto bloccato dal superattivismo in politica estera del presidente che ha molto puntato sulla carta dell’orgoglio nazionale contro cui il Chp non s’è sentito di muovere foglia, specie dopo il repulisti seguito al tentato golpe gülenista. Mentre il Partito democratico dei popoli vive l’oggettiva difficoltà di riorganizzarsi a seguito delle ripetute azioni repressive avviate contro l’etnìa kurda dall’estate del 2015. Comunque i sondaggi considerano le due formazioni in grado di ribadire le percentuali degli ultimi tempi: 25% i repubblicani e il conseguimento della soglia del 10% per entrare in parlamento da parte del gruppo di Demirtaş. Il problema sarebbe conservare i deputati nel Meclis, visto che più della metà degli  onorevoli Hdp eletti nel novembre 2015 sono stati incriminati per “terrorismo”. Se non un terrore, certamente un brivido d’incertezza all’alleanza Akp-Mhp lo induce l’Iyi Party, fondato nell’autunno 2016 dalla frondista Meral Akşener, lanciata a testa bassa contro la dirigenza di Bahçeli che s’asserviva a Erdoğan.

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Akşener è a suo modo una “lupa grigia” ben addentro ai gangli del sistema, perlomeno quello kemalista, in cui ha ricoperto incarichi nel dicastero più amato dalla destra eversiva turca: quello degli Interni. La lupa ha poi tre assi nella manica che intende giocarsi per incrinare il consenso elettorale del sultano. E’ una fedele musulmana e fa leva sulle donne islamiche, gran bacino elettorale erdoğaniano, sostenendo ciò che l’ex premier e ora presidente ha poco concesso: spazio politico di genere. Poi vuol erodere la prerogativa presidenziale della lotta al terrorismo identificato con l’etnìa kurda. Lei sostiene che i diritti delle minoranze semplicemente non hanno diritto di concessioni. Eppure è capace di giri di walzer degni del presidente, perché sul fronte dell’informazione (forse perché massicciamente controllata dal gruppo di potere dell’Akp) Akşener parla a favore della libertà dei media che “non devono essere sotto pressione”. Insomma appare sulla scena l’incognita d’una politica a tutto tondo e senza scrupoli. Per questo l’anticipo delle elezioni potrebbe diventare un sotterfugio per provare a escludere dalla corsa con cavilli burocratici il neo partito, pericoloso perché capace di rubar voti alla coalizione che guida la Turchia. Ma i commentatori economici sostengono che il pericolo maggiore per Erdoğan è un’economia interna in cui l’inflazione sale, la disoccupazione pure mentre la lira turca precipita.

Pubblicato
giovedì 19 aprile 2018

 Articolo originale
dal blog di Enrico Campofreda

 

Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti