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Egitto, Sisi continua a fare il boia

Mentre la corda si stringeva definitivamente attorno al collo degli Ahmed e Abdel, questi figli d’Egitto avranno maledetto, prima del generale loro boia, il Paese che sta permettendo la mattanza. Li hanno impiccati in nove, con l’accusa d’essere terroristi bombaroli, di aver assassinato il procuratore Hisham Barakat, fatto saltare in aria con un’auto imbottita d’esplosivo il 29 giugno 2015. All’inizio di questo mese c’erano state altre esecuzioni capitali, un crescendo che rende il regime di Sisi molto più dispensatore di morte diretta, indiretta e legalizzata d’ogni altro raìs che abbia governato la grande nazione araba dall’epoca della sua decolonizzazione. La pratica del terrore mascherato da giustizia non è nuova nel meccanismo repressivo adottato dal generale-golpista. Il regime la profonde a piene mani nelle situazioni più varie. Si ricorderà la fine fatta fare a un manipolo di ladruncoli accusati d’essere i “sequestratori” di Giulio Regeni. Un inseguimento in auto finito a raffiche di mitra che hanno silenziato per sempre quegli sbandati fatti passare per rapitori. Fu uno dei depistaggi attuati dal ministro dell’Interno Ghaffar, fedele collaboratore di Sisi nelle trame nere che offuscano la vita di milioni di cittadini. Cui viene richiesta la collaborazione decretata per paura, disinteresse, omertà, sottomissione alla legge del più forte, disperazione, mancanza di alternative. E’ la regola non scritta delle dittature populiste che parlano e seviziano il popolo in nome del popolo mentre quest’ultimo plaude al proprio carnefice o guarda altrove perché si sente impotente.

I nove giovani impiccati erano considerati da fonti poliziesche vicini alla Fratellanza Musulmana, e questo diventava già motivo di detenzione e condanna carceraria, attribuirgli l’attentato al magistrato ne ha preparato la strada al patibolo. Certo, i vertici della Confraternita non amavano Barakat. Fu lui, diventato dai primi giorni del golpe bianco rigido repressore legale della Fratellanza, a ordinare il congelamento dei beni del Gotha politico islamista, colpendo Badie, al Shater, Ezzat, al Katatny, e ministri del deposto presidente Morsi. Quest’ultimo venne accusato di spionaggio, alto tradimento e condannato a morte, sebbene nei suoi confronti l’esecuzione è stata più volte rinviata. Non così per i molti attivisti e quadri intermedi della Brotherhood. A fronte di oltre 1.400 sentenze capitali ne sono state eseguite un’ottantina. Per i nove impiccati di ieri sono rimasti ancora una volta inascoltati gli appelli di Amnesty International e di altre Ong dei diritti, anche perché la linea ferrea dovrebbe incutere quella paura diffusa con cui i militari hanno deciso di paralizzare l’opposizione e bloccare iniziative politiche d’ogni genere. Le uniche neppure sfiorate da timori e tentennamenti sono le reali azioni jihadiste che continuano ad avere nel Sinai gruppi attivi e pure iniziative simulate dall’Intelligence interna che, grazie a esse, può incrementare l’escalation repressiva.

Pubblicato giovedì 21 febbraio 2019
Articolo originale
dal blog di Enrico Campofreda

Lo stallo Regeni e i balletti di Stato

  • Ha parlato direttamente col presidente Al Sisi, Roberto Fico, presidente a sua volta, del Parlamento italiano, dopo aver incontrato in precedenza l’omologo egiziano. Differentemente dal collega Di Maio, ha parlato esclusivamente del caso Regeni affermando che “le indagini sono a un punto di stallo”, cosa che Sisi sa benissimo semplicemente perché è il regista della palude in cui si dibatte l’Egitto dal 2013. Data della sua presa del potere, operata con un golpe, prima bianco e dopo quarantacinque giorni rosso sangue, colato dai corpi di centinaia di concittadini che il presidente dal sorriso gentile faceva massacrare dai suoi militari e poliziotti. L’Italia con gli esecutivi Renzi e Gentiloni ha fatto inizialmente la voce grossa, ha ritirato l’ambasciatore dal Cairo per poi rintrodurlo con l’alibi che avrebbe controllato da vicino (sic) i passi istituzionali della nazione sull’omicidio del ricercatore. Tutto questo dopo che gli stretti collaboratori di Sisi, finanche il ministro dell’Interno Ghaffar e quello degli Esteri Shoukry, coprivano i sottoposti esecutori di sequestro, torture e omicidio di Regeni. Sicuri dell’impunità che il nuovo raìs garantisce loro, visto che di arresti, sequestri, torture, galera, assassini e sparizioni l’Egitto dei militari di Sisi fa un uso sistematico. Come le peggiori dittature mondiali.

    Con questi sanguinari, pur dal rassicurante aspetto, i politici italiani pensano di dialogare. Se non sono proprio fuori di senno, possiamo pensare che inscenino anch’essi una sceneggiata. Fanno quel che i vertici d’una nazione devono fare, ma senza prendere contromisure nei confronti della chiarissima tattica della Sfinge in divisa che promette, ma tergiversa e soprattutto ostacola indagini e processo. Come abbiamo visto, in Egitto a processo vanno gli scampati dal massacro della moschea di Rabaa, l’Epifania di quel che Al Sisi avrebbe riservato al suo popolo, iniziando dagli odiati Fratelli musulmani, per passare a oppositori della sinistra giovanile, e socialisti, e giornalisti, e blogger e attivisti dei diritti. Tutti costoro hanno riempito le galere egiziane, mentre gli attuali presidenti e vicepresidenti cinquestelle e leghisti guardavano probabilmente ad altro, intenti a quell’avanzata elettorale volta a gabbare i claudicanti governi del Pd. Nel febbraio 2016 apparve in tutta la sua drammaticità la vicenda Regeni, uno scempio che confermava ciò che da anni era messo in cantiere dalla macelleria egiziana. La cui dirigenza, non a caso militare, rievocava i ‘garage Olimpo’ dell’Argentina di Videla. Come allora, la comunità internazionale ha taciuto e continua a farlo.

    L’Italia, parte offesa, si barcamena in goffe iniziative con l’Egitto, i cui vertici si beffano delle inchieste della procura di Roma, che ha esplicitamente denunciato le falsità e l’omertà del governo cairota. Altro che collaborazione! Altro che promesse di far luce! Sisi governa su una popolazione soggiogata o adescata col terrore, governa nel buio pesto delle prigioni dove in questi anni sono sparite attorno alle cinquemila anime. Questo denunciano talune Ong umanitarie che hanno dovuto abbandonare quel Paese per non finire esse stesse risucchiate nel gorgo della repressione. Si può dialogare con dei criminali travestiti da statisti? E’ la domanda che gli attuali esponenti delle Istituzioni italiane, dai Di Maio ai Fico, viaggiatori e interlocutori di Al Sisi, si sarebbero dovuti porre. Se sì, al di là di diplomatici balletti, che differenti misure prende il governo ‘gialloverde’ rispetto a quelli rosapallido del Pd? All’orizzonte non si vede nulla, se non moti autoreferenziali, attenti a non disturbare rapporti commerciali col partner egiziano, per gli affari dell’Eni che sono solo in parte affari nazionali. Essi potrebbero cedere il passo a una sana morale di quello stato di diritto che sosteniamo di difendere e che ‘l’amico Sisi’ ha  calpestato, facendo trucidare un nostro cittadino. Diventato uno di loro, una vittima di quel regime cui non dovremmo riservare colloqui e strette di mano, ma esplicite accuse.

    Pubblicato 17 settembre 2018
    Articolo originale
    dal blog di Enrico Campofreda

Migrazione: L’Europa e i suoi flussi condivisi

La cancelliera tedesca Angela Merkel, anche in occasione del mini vertice parigino sui flussi migratori condivisi, si pone come nume tutelare e apri pista a nuovi equilibri per una regolamentazione dell’accoglienza, come il “momentaneo” blocco dei ricongiungimenti in Germania, ed ecco che oltre a lodare l’operato italiano in Libia e per il codice di comportamento dedicato alle Ong, toglie ogni veto al superamento del trattato di Dublino, per non vincolare il profugo alla spiaggia d’arrivo e rendere partecipi tutti i paesi dell’Unione.

Nell’incontro di Parigi, oltre alla Francia e alla Germania, hanno partecipato i rappresenti di Italia e Spagna, oltre a quelli del Ciad, Niger e il premier libico al Serraji, ma non l’uomo forte dell’atra Libia generale Khalifa Haftar, per rafforzare i confini, e per dare un senso di ufficialità anche  all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini.

Un vertice per venire incontro non solo allo sforzo sostenuto dall’Italia, ma anche a quello sopportato dalla Grecia, stato che nessuno però ha ritenuto d’invitare, con la differenza che l’impegno italiano si addentra nelle zone grigie, intrattenendo rapporti con le varie milizie presenti in Libia.

Una situazione complessa quella nella quale l’Italia si è calata, superando ogni amletico dubbio, come viene posto all’odierna Mostra del Cinema di Venezia 2017 nel film L’ordine delle cose di Andrea Segre, tra etica e ragion di stato. Funzionari dello Stato italiano vigilano da tempo sulle interazioni tribali di una Libia post Gheddafi e ora osserva da vicino una Ue che nega se stessa e ogni diritto a quell’umanità “ospitata” nei discussi centri di raccolta.

L’Italia va oltre ai problemi esistenziali di un funzionario di polizia catapultato in Libia, toccando con mano la disperazione di un’umanità che non è formata, come sostengono in molti, da delinquenti. Donne e bambini non possono essere dei farabutti e molti uomini fuggono non solo dalla carestia, ma anche dalle persecuzioni religiose o tribali.

Venezia è anche dove l’artista cinese Ai Weiwei ha presentato il documentario Human flow, dedicato alla migrazione come un epico inarrestabile flusso umano. Un biblico mosaico di vite impegnate, visto il contesto nel quale si muovono, in una transumanza.

Nel film di Segre è espresso un travaglio esistenziale, con Ai Weiwei si ha un documentario stile National Geographic, dove tutta la tragicità della vita e i momenti gioiosi vengono proposti con gusto estetico.

Sulla migrazione vengono proposte visioni di spostamenti collettivi, ma esiste un esodo “privilegiato”, senza dover intraprendere perigliosi viaggi, fatto di un biglietto aereo o navale per chi è in possesso di documenti

Quello che potrebbe essere imbarazzante per la Ue che ha istituito il Premio Sacharov, ed è tacitamente permesso ai singoli stati dell’Unione, è come aprire agli accordi con il turco Erdogan o ipotizzarne altri con l’egiziano al-Sisi, ed ora ci si appresta a trattare con i governanti del Ciad e del Niger, dove la democrazia non è un consuetudine, e dove la Francia pensa di rafforzare la presenza militare con la scusante degli hotspot.

L’Unione europea si dimostra sempre più composta da singoli Stati più che da un corpo unico necessario per concertare un’unica posizione verso una Turchia che periodicamente è tentata a rendere permeabile, come fece Gheddafi, il suo confine verso l’Europa, per alzare la posta sugli aiuti.

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Qualcosa di più:

Migrazione: Un monopolio libico
Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Egitto: Una Primavera che non è fiorita

GL Egitto Una Primavera non finita BallerinaIn Egitto Mubarak viene assolto per il massacro di piazza Tahrir, ma anche i suoi figli e tutto il suo entourage non soggiorneranno nelle prigioni egiziane, mentre per quella generazione che ha creduto di poter confidare nella Democrazia c’è un futuro in carcere, come sottolinea il New York Times nell’articolo How Egypt’s Activists Became ‘Generation Jail’ .

In sei anni si sono succeduti eventi che facevano sperare nel cambiamento, ma ora ci troviamo punto e a capo: una restaurazione in salsa egiziana.

Secondo il Politico, nell’articolo di gennaio The Arab Spring is far from over la cosiddetta “Primavera araba” non è finita e dal canto suo The New Yorker, in un lunghissimo resoconto di una conferenza stampa di Al Sisi, Egypt’s Failed Revolution, si dice che quella “rivoluzione” sia fallita.

Mentre Shukri al-Mabkhout, con il romanzo L’Italiano, offre una equilibristica lettura degli eventi tunisini, attraverso la storia d’amore tra Abdel Nasser e Zeina.

Una storia tormentata come metafora per le speranze che si dissolvono come i sogni di carriera in ambito accademico di Zeina, la brillante e bellissima studentessa di filosofia, e di Abdel Nasser che si trasforma da giovane idealista di belle speranze a giornalista di successo ma disilluso e stanco.

Tanti sacrifici per assaporare una diversa visione della società e poi trovarsi al punto di partenza, una specie di crudele gioco dell’oca miscelato al celebre Congresso di Vienna per una sorta di restaurazione con personaggi che hanno cambiato volto ma non le pratiche, ma con la differenza che per trovare il velo così presente nelle vita delle donne bisogna risalire a prima degli anni ‘60.

L’ex autocrate egiziano Hosni Mubarak, rovesciato nel 2011 dalle manifestazioni di piazza per poi essere messo sotto processo, è stato liberato e ha lasciato l’ospedale militare dove ha trascorso gran parte degli ultimi sei anni in detenzione.

Era impensabile, sino a qualche anno fa, dopo che il volto di Mubarak era stato rimosso da ogni edificio pubblico, vedere l’uomo che ha governato l’Egitto con fermezza dal 1981 fino al febbraio del 2011, superare le accuse di corruzione e di crimini verso il popolo, per essere addirittura rimpianto.

Non sono state sufficienti le 850 persone uccise dalle varie polizie, nei 18 giorni di rivolta, per rendere meno influenti le Forze armate nel contesto sociale egiziano. Il periodo successivo alla rivolta è stato caotico e quello siglato da Morsi non è stato meno confuso, inaugurando un periodo di instabilità che allontanò turisti e investitori dall’Egitto. La nostalgia per un governo forte ha facilitato Al Sisi nel farsi presidente.

Ora Mubarak, stando al suo avvocato Farid al-Deeb è andato nella GL Egitto Una Primavera non forita Al Sisivilla di Heliopolis, proprio nel quartiere cairota dove recentemente è stata rinvenuta la statua gigant di Ramses II, spezzata in più blocchi, misura 8 metri, insieme ad un’altra, di circa un metro, raffigurante Seti II e così non ci sono due faraoni senza il terzo!

Mentre Mohammed Morsi, il successore di Mubarak in carica da meno di un anno prima di essere defenestrato dall’esercito nell’estate del 2013, rimane per ora in carcere con l’accusa di terrorismo.

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Qualcosa di più:

Egitto, ingabbia i Diritti
Egitto e caso Regeni: la polveriera egiziana
Omicidio Regeni. Diritti civili intesi dagli alleati ingombranti
Una pericolosa eredità in Egitto. Polvere di diamante di Ahmed Mourad
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