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PASSAPORTO VACCINALE

Art. 32 della Costituzione: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Già, ma quale legge? Bella domanda. Ma in Europa non va poi tanto meglio: in sostanza, se la pandemia ha giustificato ovunque interventi di emergenza e limitazioni della libertà individuale, resta il baluardo della vaccinazione obbligatoria.

In una lettera alla Commissione europea, il premier ellenico Kyriakos Mitsotakis chiede di creare un documento per identificare le persone immunizzate: in questo modo sarebbero libere di viaggiare, a beneficio dell’industria del turismo (1). Ungheria, Belgio, Danimarca, Spagna e Polonia sono a favore, mentre Francia, Belgio  e Germania si oppongono. Nel mondo la situazione non è omogenea (2). Spostandoci sul privato, sono invece favorevoli le compagnie aeree internazionali, né c’è bisogno di spiegarne il motivo. In effetti, un documento sanitario unificato sarebbe pratico: garantisce uno standard di sicurezza certificato e abbrevia le operazioni di controllo alle frontiere. Si noti: nessun vaccino è obbligatorio; si spera piuttosto che così facendo la popolazione europea sia incentivata a immunizzarsi. Chi si è vaccinato e desidera viaggiare – la tesi di Mitsotakis – non dovrebbe più sottoporsi a quarantene e tamponi, vedendo quindi ripristinata la sua libertà di movimento, peraltro sancita dalla UE. Per la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è necessario trovare un “requisito medico che dimostri che le persone sono state vaccinate”. Ma guai a chiamarla tessera.

I motivi di tanta cautela? Elettorali. In Francia e Germania è diffusa sia la diffidenza e lo scetticismo verso il vaccino (è anche vero che si tratta di prodotti sperimentati da poco) che il fronte no-vax, quest’ultimo anche capace di manifestazioni violente. La questione intanto passa ai giuristi (3) e può essere così esemplificata: si mina il diritto alla privacy (parere del Garante europeo della protezione dei dati, il polacco Wojciech Wiewiórowski) e pone rischi molto alti in termini di coesione, discriminazione, esclusione e vulnerabilità. Ma se tutti avessero accesso al vaccino nello stesso periodo e con le stesse modalità sarebbe forse diverso? Chi non si vuole vaccinare sarebbe identificato per esclusione, e il Vaticano su questo non discute: il dipendente che rifiuta il vaccino rischia il licenziamento o comunque il declassamento di funzione. Il problema investe direttamente le prerogative dello Stato, che deve erogare lo stesso livello di servizi in tutto il territorio e nel contempo tutelare i cittadini senza discriminarli, anche se un medico o un infermiere che rifiutino il vaccino a mio parere sono solo degli asociali. In ogni caso, la mancanza di un passaporto vaccinale non impedisce ai singoli stati di bloccare l’accesso da singoli altri stati, lasciando quindi discrezionalità nella gestione delle frontiere e di fatto discriminando comunque chi non si è vaccinato.

Note:

  1. https://www.linkiesta.it/2021/01/vaccini-covid-europa-passaporto/
  2. https://siviaggia.it/notizie/passaporto-vaccinale-mondo-situazione/322508/
  3. https://www.agendadigitale.eu/sanita/passaporto-vaccinale-non-solo-questione-di-privacy-tutti-i-diritti-individuali-e-collettivi-in-gioco/

COLLIGITE NE PEREANT (raccoglieteli perché non vadano perduti)

«I musei sono spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, custodiscono artefatti ed esemplari nella fiducia della società, salvaguardano memorie diverse per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone. I musei non sono a scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità per raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire e migliorare la comprensione del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario »

Con queste parole ICOM, la principale organizzazione internazionale che rappresenta i musei e i suoi professionisti, annunciava nel 2017 la volontà di ridefinire il suo statuto approvato nel 2007, che definiva il museo nel seguente modo:

    “Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto.”

ICOM Italia aveva partecipato assieme a 115 paesi all’appello del MDPP (Standing Committee on Museum Definition, Prospects and Potentials) proponendo una sua definizione di museo. Ne erano state presentate 269.

    “Il Museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, accessibile, che opera in un sistema di relazioni al servizio della società e del suo sviluppo sostenibile. Effettua ricerche sulle testimonianze dell’umanità e dei suoi paesaggi culturali, le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone per promuovere la conoscenza, il pensiero critico, la partecipazione e il benessere della comunità.”

Il finale? Una bufera. La politicizzazione della funzione del museo “per adeguarla al linguaggio del XXI secolo” (Jette Sandhal, direttrice del Museo di Copenhagen e chair del comitato ICOM) non è piaciuta e fra il 70% dei membri ancora non si è trovato un accordo, mentre le dimissioni di molti membri hanno confermato le spaccature interne. Nell’intento di Sandahl e della “sinistra museale” le istituzioni museali dovrebbero aprirsi alle crescenti “richieste di democrazia culturale”, facendo del patrimonio materiale e immateriale accumulato una occasione di critica – e autocritica – delle politiche culturali dominanti. In tal senso, secondo Sandahl, «la definizione di museo deve essere storicizzata, contestualizzata, denaturalizzata e decolonizzata».

Leggendo il testo con gli occhi disincantati di chi nei musei ci lavora, sorprende questo tono messianico, saturo di onnIcomprensive enunciazioni di principio che comunque nessun paese autoritario sarebbe capace di accettare senza chiuder tutto. E se invece dell’ICOM il documento l’avesse stilato papa Francesco? Provate a sostituire “museo” con “chiesa” e non vi accorgerete della differenza. Ma se una definizione circoscritta a un specifico ambito scientifico diventa un’inclusiva frase alla moda, allora vuol dire che qualcosa non funziona. Forse si è messa troppa carne al fuoco: per estendere il senso e  la funzione del museo se ne ottunde il carattere specifico, esclusivo, né questo aiuta un direttore di museo nella gestione ordinaria: al momento di chiedere i fondi o far approvare un progetto, egli potrebbe chieder tutto e il contrario di tutto, ma anche vedersi bloccare un progetto elitario e poco inclusivo, perché tutti i musei dovrebbero dimostrare di rientrare nei criteri della nuova definizione. Vediamoli.

L’esame linguistico del testo individua una serie di termini pertinenti alla vita politica e sociale: il museo è democratizzante (promuove e ostenta sentimenti democratici), inclusivo (valorizza le differenze e offre a tutti le stesse possibilità di crescita civile) , polifonico (unisce voci diverse per suonare e cantare insieme in modo armonico uno spartito condiviso), dialoga criticamente tra passato e futuro,  riconosce e affronta i conflitti e le sfide del presente (obiezione: il museo per definizione conserva testimonianze del passato, il presente non essendo ancora storicizzato). Custodisce artefatti (oggetti prodotti dall’uomo) ed esemplari (campioni, magari da prendere a modello; non è chiaro l’accostamento dei due termini ) “nella fiducia della società” (virgolette mie: il testo inglese recita in trust for society, il che è più chiaro). Diverse sono le memorie per le generazioni future; son garantiti pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutti, in linea con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. I musei poi sono partecipativi e trasparenti, quindi gestiti mediante la partecipazione e in modo trasparente (magari! ndr.) e infatti lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità (il pensiero per il diverso è ossessivo). Il termine collaborazione attiva traduce l’inglese active partnership, ma nei documenti UE non ha una traduzione univoca: partenariato attivo, collaborazione attiva, partnership attiva, sinergie attive, compartecipazione estesa (fonte: eur-lex.europa.eu). Il capoverso finale è prolisso: raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire e migliorare la comprensione del mondo (e perché non piuttosto la storia di una cultura, di una civiltà, di una nazione?) con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario. Premettendo che molti standard ormai erano già realtà (accessibilità, finalità sociale, abbattimento delle barriere architettoniche, funzione didattica), potremmo dire lo stesso parlando di una scuola, di un centro di ricerca sui cambiamenti climatici, della Casa del Popolo, di GreenPeace o di un orfanatrofio femminile in Somalia.  E’ un  problema di semantica: se i termini usati non sono esclusivi della realtà museale, ma comuni ad altri ambiti o istituzioni, dove risiede dunque lo specifico del museo? Per i Greci, era l’istituzione protetta dalle Muse e per questo esclusiva e sacra, mentre la definizione attuale sembra una fuga in avanti verso funzioni alle quali il museo può concorrere, ma snaturando la sua funzione originaria: conservare per valorizzare e trasmettere. Non a caso, a opporsi a questa nuova definizione sono stati soprattutto i musei europei ritenendola troppo ideologica, mentre quelli africani e sudamericani- chehanno poco da conservare ma molto da dimostrarel’hanno promossa, in modo analogo alla Teologia della Liberazione.Purtroppo la definizione proposta non risponde nella forma ai criteri minimi di una definizione circoscritta chiara, breve e applicabile in tutti i contesti culturali e normativi interessati. Una nuova definizione deve ribadire la necessità della conservazione della molteplicità delle esperienze dell’umanità ma al contempo indicare una direzione di sviluppo non tanto “sostenibile”, quanto praticabile.

Per concludere, si pongono almeno due ordini di problemi: l’applicabilità della definizione di museo quale ora definita e la sua stessa base ideologica. Un museo non solo va caratterizzato rispetto ad altri istituti culturali, ma va anche gestito, per cui si deve anche valutare il ruolo che la definizione assume nel momento in cui entra nelle legislazioni nazionali e conduce a conseguenze non sottovalutabili anche dal punto di vista operativo. Il museo è già di suo una macchina di produzione ideologica, e politicizzarlo ulteriormente ne complica solo la gestione. E qui entriamo nel secondo problema: davvero un museo è quell’istituzione inclusiva che contribuisce alla dignità umana, alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario? Un museo intanto è selettivo per sua natura e deve aver sottesa un’ideologia capace di dare un valore agli oggetti conservati. Questo valore non è univoco: l’ISIS ha distrutto tante opere d’arte in quanto esse per loro erano idoli pagani. Dietro ogni museo c’è uno stato o una nazione, i cui confini sono spesso arbitrari o frutto di guerre. Il destino storico di un popolo è solo un mito politico del nazionalismo di turno: ogni stato nazionale crea artificialmente una propria mitologia delle origini (per noi italiani la Romanità esaltata dal Duce, Alessandro Magno per l’attuale Macedonia del Nord ) valorizzando alcuni episodi, scartandone o rimuovendone altri e negando l’identità delle minoranze. Lo stesso avvenimento storico ha valenze diverse secondo la comunità di riferimento (andate a Vienna al Museo di storia militare: Custoza e Caporetto sono vittorie austriache), niente è scelto a caso: i musei aiutano a costruire l’identità collettiva e quindi non possono essere neutrali. Specialmente i musei di storia moderna sono condizionati dalla politica e quelli di arte antica – spesso frutto di spoliazioni coloniali – danno per scontata la superiorità di un modello culturale sugli altri e il relativismo culturale sposta solo i confini del problema e moltiplica i centri di potere. C’è sempre un conflitto nel modo di interpretare la medesima realtà, e alla fine c’è sempre chi decide per gli altri, quindi nessuno si illuda che il Museo possa essere un’inclusiva macchina per contribuire al benessere planetario. E’ semplicemente uno strumento a cui non deve essere chiesto di cambiare il mondo, ma di trasmetterne la cultura accettandone i compromessi.


Beni culturali: UN FARO CON TANTI FILTRI
http://www.motodellamente.eu/arte/beni-culturali-un-faro-con-tanti-filtri/

Ue: La Brexit come occasione europea

La Brexit chiude le porte alla manodopera non qualificata degli europei per aprire alla migrazione all’interno del Commonwealth, magari per rifondare l’impero e vivere sulla finanza del riciclaggio dei patrimoni arabi, russi e cinesi.

La Gran Bretagna si sta avviando a scoprire se il suo malessere è dovuto all’Europa o alla tristezza di voler dare la colpa agli altri.

C’è da domandarsi se con la fuga britannica è opportuno lasciare l’inglese una delle lingue ufficiali della UE. Ma soprattutto quale sarà lo status dei funzionari britannici che lavorano a Bruxelles e a Strasburgo su progetti europei?

L’anacronismo dell’isolazionismo, diminuirà le visite degli europei in Gran Bretagna, ma i britannici stanno imboccando la strada dell’invisibilità nel contesto culturale, per godersi in solitudine i fish and chips.

Con la Brexit è stato aperto il vaso di Pandora degli attriti e delle rivendicazioni: dalla restituzione dei marmi del Partenone ai greci alla sovranità di Gibilterra, dalle controversie anglofrancesi sulla pesca alla volontà di quel 53% di britannici che hanno sperperato il loro sentimento europeista su vari partiti.

Per la Gran Bretagna, i prossimi anni, sarà l’occasione per scoprire se il malessere britannico sia dovuto ad una contiguità all’Europa o alla tristezza di voler dare la colpa agli altri. Per l’Unione europea sarà un’opportunità, come lucidamente spiega Enrico Letta in una lettera a Repubblica (4 febbraio), di superare i veti britannici e trasformarli in opportunità di crescita, fissando tre punti e una modifica lessicale.

Sicuramente è l’armonizzazione fiscale, il primo punto elencato da Letta, al superamento del sistema ibrido partorito dal veto britannico, offrendo l’occasione di scardinare alcuni paradisi fiscali all’interno della Ue, che ha creato una disparità di trattamento tra cittadini europei con la medesima moneta.

Alcuni paesi praticano facilitazioni fiscali a società che intendono investire, rendendo floride alcune economie a discapito di altre, mentre altri praticano la “vendita” di passaporti europei, previo esborso dalle 250mila ai 2milioni di euro. Una pratica mascherata da investimenti, che apre le porte della Ue non solo a facoltosi russi, cinesi, arabi etc., ma anche a infiltrazioni criminali ed a terroristi.

Scompaiono muri e confini, filo spinato e polizia armata per chi ha a disposizione portafogli colmi di euro per entrare, anche con cattive intenzioni, in Europa.

Non esiste una migrazione uguale all’altra, come il sistema tributario o il sistema sociale o come anche l’istruzione, un altro veto britannico, che la Ue è riuscita ad aggirare con il progetto Erasmus e che Enrico Letta propone di aprirlo ai sedicenni, per essere integrato nel corso di studi obbligatori a tutte le scuole europee. Un Erasmus ampliato per facilitare non solo l’applicazione del principio comunitario della “mobilità dei cittadini”, stimolando non solo la conoscenza delle lingue, ma anche delle culture e dei differenti modelli di vita a carico del bilancio europeo.

Il terzo ed ultimo veto preso in considerazione è quello sullo stato sociale che rende l’Europa difforme nel trattamento salariale, non solo una concorrenza sleale tra paese e paese nel produrre a basso costo, ma anche uno sfruttamento della manodopera senza le garanzie sindacali e con un welfare minimo unificato.

Il tema del salario minimo e del welfare dovrebbe comprendere anche l’unificazione del trattamento pensionistico e quello dei parlamentari.

Enrico Letta, con la sua lettera, prende anche in considerazione una modifica lessicale, ponendo il problema di percezione del cittadino rispetto al termine “Commissario” a quello di “Ministro”, identificando il primo come prepotente, mentre il secondo scelto come amministratore, scardinando la retorica sovranista e anti-europea “di una Ue che, dall’alto, è prevaricatrice dei diritti e dei comportamenti dei cittadini che stanno in basso”. Una scelta linguistica non di poco conto.

La riflessione di Enrico Letta va ad arricchire il piano di Ursula von der Leyen su una Green Deal europea per una indipendenza non solo energetica, ma anche sulla produzione di qualsiasi manufatto, per superare la dipendenza della delocalizzazione senza incorrere al rallentamento economico come avviene durante i conflitti o per le epidemie, con il blocco dei trasporti e dell’eterei benefici della globalizzazione.

Un’importante passo verso una coscienza europea condivisa può rappresentare la formazione di una Forza armata europea, per superare i bollori sovranisti.

La Brexit non è solo un’occasione per ripensare all’Europa, è una riflessione sulla fragilità del sistema economico, con l’interdipendenza della globalizzazione, messo in evidenza dal Covid-19 che confini e muri non riescono ad argina questa vigorosa influenza.

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Verità e Giustizia per Giulio Regeni, una battaglia europea!

  • di EuropaNow!

Sono passati quattro anni da quando il giovane ricercatore Giulio Regeni è stato rapito al Cairo, atrocemente torturato e ammazzato, il corpo lasciato in un fossato lungo un’autostrada. Da allora, malgrado il loro impegno costante, i magistrati italiani che indagano sull’accaduto si sono scontrati con un muro di gomma politico, eretto dal regime egiziano di al-Sissi, che ha cercato in mille modi di depistare le inchieste (compresa l’uccisione di cinque innocenti, falsamente accusati di essere gli autori dell’omicidio) per impedire l’accertamento della verità e l’affermarsi della giustizia.

Con intensità alterna, le autorità italiane hanno chiesto conto al Cairo della vicenda, ma fino a oggi senza esito. Ogni mese che passa allontana la speranza di identificare e condannare i responsabili. La magistratura italiana alla fine dello scorso anno ha presentato al parlamento le conclusioni dell’inchiesta, in cui afferma in sostanza che quello di Regeni fu un omicidio di Stato. In questa vicenda, l’Italia è stata gravemente e ciecamente lasciata sola. Nel maggio 2016, Il governo britannico aveva chiesto “un’inchiesta trasparente per rispondere alle preoccupazioni della comunità internazionale sulla sicurezza degli stranieri in Egitto”. Ma niente di più. Poche settimane prima il presidente francese François Hollande, durante un viaggio ufficiale al Cairo, aveva evocato la questione dei diritti umani in Egitto, il caso Regeni e quello di Eric Lang, un insegnante francese picchiato a morte in un commissariato di polizia. Ma il numero uno francese dell’epoca aveva anche subito rassicurato che la “relazione speciale”, economica e militare, con il presidente Abdel Fattah al-Sisi non era in discussione. Da allora, la questione è scomparsa delle agende politiche e diplomatiche dei dirigenti europei, sacrificata sull’altare dei rapporti commerciali e della “stabilità” dell’Egitto, proclamata dal regime.

In realtà è dal 2016 che i Partners europei avrebbero dovuto accompagnare gli sforzi italiani, come anche i genitori di Giulio Regeni avevano chiesto davanti al parlamento europeo. Avrebbero dovuto richiamare anche loro gli ambasciatori in Egitto, per lanciare il messaggio che il caso Regeni riguarda tutta l’Unione europea, e non solo l’Italia, perché Giulio Regeni era prima di tutto un cittadino europeo. Non è difficile immaginare che in un simile scenario le autorità egiziane avrebbero avuto un atteggiamento diverso e, incalzate dalla richiesta di verità congiunta e determinata dei 28 paesi europei, senz’altro più collaborativo. Invece sappiamo che è andata diversamente. Non avendo ricevuto il sostegno delle altre capitali dell’Unione, il governo Gentiloni nell’agosto 2017 ha rimandato il proprio ambasciatore, insieme all’implicito e inevitabile messaggio al Cairo che il rapporto bilaterale non poteva più essere condizionato dal caso Regeni.

L’Europa ha cosi perso un’occasione di mostrare solidarietà verso l’Italia, ma ha anche intaccato la sua stessa ragione d’essere. Perché chiedere giustizia per il giovane ricercatore friulano avrebbe significato affermare che l’Unione europea non si fonda solo sulla convenienza di stare insieme per affrontare le sfide del XXIesimo secolo e le nuove grandi potenze mondiali, ma che si basa prima di tutto su principi comuni di libertà e di rispetto dei diritti umani. L’Ue non è un patto di azionisti. È un unione politica che fonda le sue radici nel ricordo delle tragedie del Novecento (le due guerre mondiali e la lotta contro tutti i totalitarismi) e la volontà di superarle. Per questo, oggi, tocca a tutti i cittadini e tutte le cittadine europei mobilitarsi per esigere che i loro rappresentanti nazionali e europei facciano sentire un voce coesa, costante e determinata in direzione dal Cairo. Ogni capo di Stato o di governo, ministro o delegato dell’Ue, andando in Egitto o ricevendo un esponente egiziano, dovrebbe essere spronato dall’opinione pubblica e dai media europei a chiedere instancabilmente e con fermezza, verità per Giulio Regeni. La mobilitazione sarà lunga e difficile ma è l’impegno che i cittadini europei sono chiamati a prendersi per Giulio Regeni e per loro stessi.

Accanto a Amnesty, è un compito che anche l’associazione EuropaNow! cerca di assumersi. Nella consapevolezza che voler fare luce sulla scomparsa di Giulio Regeni significa anche riaffermare il nostro sostegno di cittadini europei a tutti cittadini egiziani che lavorano con coraggio per la verità e che sono regolarmente minacciati dalle autorità. E più in generale, lanciare un messaggio di attenzione, solidarietà e fratellanza con i democratici egiziani che credono fermamente che il rispetto dei diritti umani sia un diritto universale, che non ci sono regioni del mondo dove le libertà fondamentali possano essere messe in secondo piano e dove il rapimento, la tortura e l’uccisione di un ricercatore, perché avvenuti in Egitto, possano rimanere impuniti.

Il 25 gennaio, giorno del rapimento di Giulio Regeni, invitiamo quindi le cittadine e i cittadini europei ad appendere alla finestra striscioni, cartelli, qualsiasi supporto in qualsiasi lingua per chiedere “Verità e Giustizia per Giulio Regeni”.

Pubblicato 2020
Articolo originale
dal blog EuropaNow!

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Clima: Da una delusione alla Green Deal europea

CO2

La 25ma Conferenza sul Clima (Climate Change Conference) si è conclusa senza alcuna buona intenzione che aveva stigmatizzato le precedenti Cop, ma solo delle parole, come parole sono anche gli ammonimenti degli scienziati e delle persone che scendono per le strade e chiedono ai governanti un cambiamento di politica verso la conservazione dell’Ambiente.

L’incontro madrileno sul clima, se non è stato un fallimento, è stato sicuramente deludente, dopo i grandi propositi della Cop21 di Parigi, fa retrocedere le politiche sul Clima a prima del Protocollo di Kyoto (Cop3 1997). Ora resta il 2020 come l’ultima occasione perché le nazioni industrializzate possano trovare un accordo sul taglio delle emissioni di CO2 che non penalizzi con carestie e alluvioni le piccole comunità, anzi le possa aiutare verso uno sviluppo sostenibile.

Gli appuntamenti di avvicinamento alla Cop26 di Glasgow (9 -19 novembre 2020), prevedono una “pre Cop” milanese di ottobre, per definire tutti i contenuti del negoziato e il coinvolgimento dei giovani provenienti da tutti i 198 paesi, con la “Youth Cop”.

La Youth Cop potrà essere l’occasione per le nuove generazioni di passare dalla protesta alla proposta ed a Glasgow verrà messo in scena un altro gioco delle parti, per difendere la paura di alcuni paesi (Polonia, Australia, Cina, Stati uniti, etc.) a dover rinunciare all’estrazione ed all’utilizzo del carbone.

È difficile mettere d’accordo centinaia di nazioni, come dimostrano 25 anni di incontri, con pratiche coscienziose per la salvaguardia del Pianeta, mentre il massimo che si è riusciti ad ottenere sono i consensi su vaghe parole, consegnando l’attuazione delle buone intenzioni all’individuale impegno.

Non sarà il raggiungimento di un accordo globale tra nazioni a dare il futuro al nostro Pianeta, ma l’impegno delle amministrazioni locali e delle singole comunità.

Il governo statunitense non crede ai cambiamenti climatici, ma la California, New York, Maryland e Connecticut hanno intrapreso delle politiche per rendersi indipendenti dai combustibili fossili, seguendo autonomamente le indicazioni di Parigi, sfidano l’ottusità di Trump.

Singoli stati non sono una nazione, ma possono dare il buon esempio per rendere la vita migliore per tutti, affrontando la desertificazione, evitando l’innalzamento delle acque, scongiurando la scomparsa di isole e spiagge, con l’aria respirabile.

Grazie alla rete internazionale di amministrativi locali che nel 1990 diede vita all’Alleanza per il clima (Climate Alliance) si è potuto superare gli scetticismi e varare delle iniziative per proteggere il clima mondiale.

In Olanda è la Corte suprema dell’Aja a sollecitare il governo di rispettare gli articoli 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani sul diritto alla vita ed al benessere delle persone, riducendo del 25% le emissioni di gas serra entro la fine del 2020, rispetto al 1990.

Quello che non riescono a decidere i politici lo fa  la Magistratura indicando la strada per delle scelte sostenibili, ma non è, per fortuna, sempre così ed ecco degli amministratori locali che sperimentano termovalorizzatori per un teleriscaldamento a freddo e magari vincendo un premio come migliore Architettura Italiana per la committenza privata all’impianto del quartiere di Figino, nella periferia occidentale di Milano, o nel comune bresciano di Ospitaletto.

Non saranno i termovalorizzatori di Copenaghen, Vienna o Parigi, ma è un passo per superare le infondate paure della dispersione di polveri e CO2 da impianti che non solo smaltiscono la nostra incapacità di contenere l’appartenenza ad una società consumistica, ma fornendo  energia senza l’utilizzo di combustibili fossili.

Termovalorizzatori interrati o capaci di esprimere tutta la loro bellezza architettonica alla luce del sole, per smaltire i rifiuti producendo energia, è una soluzione da prendere in considerazione come alternativa alla continua individuazione di discariche a cielo aperto che non sono apprezzate dalle comunità.

Il progetto di una Green Deal europea, annunciata dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, comincerà a dare i primi frutti per un continente climaticamente neutro per il 2050, con una roadmap in 50 azioni, dove saranno i singoli comuni e regioni a doversi muovere, soprattutto nel meridione, per fermare l’offesa all’ambiente, rendendo l’impronta umana meno invasiva.

Il Green Deal della von der Leyen è più mirato dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile promossa dall’ONU https://www.unric.org/it/agenda-2030, oltre ad avere un maggior potere persuasivo di un qualsiasi organismo che in definitiva lascia sempre alla buona volontà dei singoli.

Siamo nell’era geologica dell’Antropocene, dove l’umanità industrializzata dimostra tutta la sua voracità, con un dispendio di energie e di materie, ferendo il Pianeta con il continuo distruggere e costruire, nascondendo i rifiuti delle malefatte in luoghi strappati alla Natura ed agli altri esseri viventi, ma viviamo di paesaggi da cartolina photoshoppata o stiamo in fila per salire su vette innevate o ci immergiamo in acque cristalline tra pesci variopinti, senza rendersi conto di quante microplastiche stiamo disperdendo con abiti e cosmetici.

Greenpeace ritiene che gli sforzi proposti da Ursula von der Leyen siano sufficienti, perché “la natura non negozia”, ma è già molto per decenni d’inerzia e  comunque saranno sempre i singoli a salvaguardare il futuro del Pianeta ed in molti stanno lavorando ad utilizzare l’opera dei batteri per fornire energia.

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Greta Thunberg | Un Clima che cambia le generazioni
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Trump: un confuso retrogrado
Trump: un uomo per un lavoro sporco
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Conferenze su internet e sul clima nei paesi del Golfo: sono il posto giusto?
Il 2012 è l’anno dell’energia sostenibile. Tutte le iniziative a sostegno dell’ambiente
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Immondizia e sud del mondo: un’umanità celata dalle discariche
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Il Verde d’Africa: sul rimboschimento nel continente
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Spreco Alimentare: iniquità tra opulenza e carestia
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