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Europa: Il futuro delle diseguaglianze

L’insulto e la mancanza di empatia da parte di certi politici diventa sempre più evidente con le continue “lezioncine” di Macron, come nel caso dell’arrogante risposta con la quale stigmatizzava l’affermazione del giovane disoccupato che non riusciva ad ottenere alcuna risposta al suo continuo inviare curricula, con un «Je traverse la rue, je vous trouve un emploi».

Al presidente francese gli basta attraversare la strada per trovare lavoro ed accusare i francesi di essere refrattari ai cambiamenti, al non voler trasferirsi, ma due articoli sui giornali statunitensi mostrano come il problema non è il trovare un posto di lavoro dopo il crollo della Lehman Brothers, ma avere un giusto compenso per poter vivere.

Nell’articolo “Americans Want to Believe Jobs Are the Solution to Poverty. They’re Not.” del NYT, la soluzione alla povertà non è avere un lavoro, come viene ribadito dal Time con I Work 3 Jobs And Donate Blood Plasma to Pay the Bills.’ This Is What It’s Like to Be a Teacher in America.

C’è chi insegna e poi si barcamena tra metal detector e visite guidate per poter non solo pagare le bollette, ma avere una vita dignitosa. Certe volte non basta e si sceglie di “donare” il sangue o magari vendere i propri vestiti. Questa è la “middle class” della provincia statunitense “fortunata” e poi ci sono gli indigenti, quelli che vivono, secondo l’Istituto nazionale di statistica e studi economici (Insee) francese, 13 anni meno dei ricchi, al maschile, i quali potendo vantare un tenore di vita medio di 5.800 euro al mese, possono ambire a restare in vita quasi 84 anni, mentre è probabile che chi ha 470 euro al mese non riesca ad arrivare al 72esimo compleanno.

In Russia le aspettative di vita scendono a 64 anni per gli uomini, mentre in Italia e in Spagna è intorno agli 80/84 anni senza essere benestanti, ma la qualità della vita non è comunque delle migliori.

Gli anni ‘70 con i suoi conflitti hanno portato una rinascita culturale ed economica che negli anni ‘80 è ‘90 si è consolidata tanto da far pensare che nel futuro poteva solo andar meglio, ma l’incapacità del centro destra nel gestire l’euro ha portato all’impoverimento di gran parte degli italiani, che solo ora sembravano di intravedere un lumicino, ma è stata presentata la “manovra popolo” che alcuni hanno voluto ribattezzare “manovra contro il popolo”, perché è manovra in deficit che può spaventare i mercati. Una manovra ispirata dalla Francia, senza voler contare che la situazione francese è ben diversa da quella italiana.

La Francia conta un Pil in rapporto con il debito pubblico pari al 96,4 , mentre l’Italia ha il 130%, poi ci sono altri fattori sommati di esposizione, ma in definitiva la Francia offre maggiori garanzie dell’Italia per gli investimenti/prestiti finanziari, pertanto è un rischio per gli italiani affidarsi ad una manovra in deficit per puntare alla crescita: immettere maggiore denaro non è una garanzia che poi circoli, perché si tagliano le tasse avvantaggiando però la fascia alta della società che è minoritaria nella popolazione.

Macron, nel tentativo di confutare l’appellativo di “presidente dei ricchi”, vuol varare un investimento di 8 miliardi in quattro anni, mentre il connubio pentastellato leghista vuol farsi amici tutti con il “reddito di cittadinanza” che dovrà essere modulato con dei controlli per renderlo inaccessibile agli “indigenti” dell’economia sommersa, del lavoro in nero, da una parte e dall’ altra con la Flat tax per rendere i facoltosi più ricchi, mentre chi non dovrebbe avere dei vantaggi è la fascia sociale media, quella più numerosa e che si troverà nel bel mezzo di una crescente disuguaglianza, fomentata dall’indebitamento.

Una disuguaglianza, quella italiana, che non si limita nel evidenziare la disparità tra gruppi sociali, ma anche tra le diverse aree geografiche. Una povertà che il Rapporto Caritas 2018 sentenzia in crescita, nel meridione tra gli italiani nel nord tra gli stranieri.

La mancanza di empatia, mascherata da un menzognero interesse per alcuni a discapito di altri, sembra la sigla distintiva della politica interessata a raccogliere consensi da un elettorato che ha dimenticato o non ha ancora scoperto che può avere una sua opinione e non è necessario accodarsi a chi grida e spaccia le sue decisioni per scelte popolari.

Si agita lo spauracchio di complotti “demo-pluto-giudaico-massonici” di tragica memoria, prendendosela con i tecnocrati di Bruxelles, con l’Unione europea incompiuta e con Soros, quando un governo pentastellato leghista si prepara a condonare, sotto mentite spoglie, i miliardi dovuti allo Stato.

Poi ci sono le scelte temerarie che hanno portato lo Stato a scommettere sui derivati per ridurre il deficit, creando una lacuna, tra il 2006 e il 2016, nei conti pubblici per quasi 24 miliardi di euro, ponendo la manovra all’attenzione della Corte dei Conti.

Il pentaleghismo parla di un complotto dilagante che coinvolge anche la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale e le agenzie di rating: l’Italia contro tutti questi miscredenti.

Orban ha usato Soros come “nemico”, ora anche i leghisti ne vorrebbero trarre vantaggio nell’additarlo come un capitalista impegnato nella solidarietà e di origine ebrea, d’altronde anche Trump ha imputato a Soros l’organizzazione delle manifestazioni contro la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema.

Anche il NYT potrebbe, se riescono a leggere almeno solo il titolo dell’articolo, rientrare tra chi complotta contro l’Italia “Why Italy Could Be the Epicenter of the Next Financial Crisis” (Perché l’Italia potrebbe essere l’epicentro della prossima crisi finanziaria), mentre The Economist amplia il panorama della prossima recessione con “The next recession”, coinvolgendo Trump e la sua guerra commerciale.

Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, oltre a rinnovare l’ammonimento sul prepararsi ad una nuova crisi ed a ricordare all’Italia che come membro della Ue è tenuta a rispettare le regole, pone l’accento sulla necessità di affrontare le crescenti diseguaglianze dei redditi e delle ricchezze non con delle politiche nazionali, come dimostrano i condoni italiani mescolati a redditi di cittadinanza, ma con uno sforzo comune a livello internazionale.

I vari governanti annuiscono alle affermazioni di Christine Lagarde, per molti una moderna Cassandra, ma continuano nello sport nazionale di ottenere un prestito senza rendersi conto che si perde un po’ della propria sovranità e chi ha elargito vuol proteggere comunque i suoi investimenti.

Il ministro francese degli affari europei Nathalie Loiseau, in un’intervista al quotidiano francese Le Monde (Budget italien: la ministre des affaires européennes française conteste l’argument démocratique invoqué par Rom), ammette le « trasgressioni” della Francia, ma ritiene anche difficile per l’Italia riuscire a coniugare le richieste degli elettori della Lega Nord e del Movimento a 5 stelle, tra la flat tax e l’amnistia fiscale con il reddito di cittadinanza e la riforma delle pensioni.

Al coro dei preoccupati per lo spread si aggiunge anche Draghi, governatore della Banca centrale europea, aggiungendo che non ha la “Cristal bowl” la sfera di cristallo per predire il futuro, ma la Bce non è stata istituita per finanziare i deficit nazionali. Uno spread sui 300 punti solo perché i governanti italiani non riescono a convincere l’Europa nella volontà dell’Italia di rimanere nella Ue e nell’eurozona

È difficile prendere sul serio chi proclama di voler rimanere nell’Unione quando dichiara di non rispettare le sue regole e c’è anche chi prospetta, visto il consolidato risparmio italiano, un “autofinanziamento”.

L’Italia gioca sulla scadenza dei vari commissari europei, con le elezioni, e la Ue cerca di procrastinare ogni decisione punitiva per non fomentare umori antieuropeistici.

I due si studiano, aspettando le elezioni europee di primavera, a spese di quegli italiani che hanno qualcosa da perdere senza saperlo.

L’Italia è lasciata sola, in questa battaglia, anche dagli altri paesi che proclamano l’euroscetticismo, ma che gridano il rispetto delle regole.

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Catalogna, appunti per un nuovo (dis)ordine mondiale

Fatidico Ottobre 2017: cent’anni dopo la Rivoluzione Russa, a Barcellona si profila la Rivoluzione Catalana. Un nuovo modello rivoluzionario, non fondato sulle ideologie politiche conosciute nel XX secolo, ma su un nuovo nazionalismo che si potrebbe chiamare anti-sistema: avverso al sistema degli Stati nazionali che, definiti nella loro forma attuale generalmente nell’800, dopo le due grandi guerre mondiali hanno dato luogo agli organismi internazionali incentrati nell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Col voto del 27 ottobre 2017 il Parlamento catalano, una volta usciti per protesta tutti i partiti di opposizione (Ciudadanos, Partito Socialista di Catalogna e Partito Popolare) tranne Podemos, ha stabilito: “Oggi la Catalogna restaura la sua piena sovranità”. L’affermazione è priva di senso: la Catalogna non ha mai avuto sovranità — infatti prima della costituzione dello stato unitario spagnolo faceva parte della contea, poi regno di Aragona — quindi semmai il proclama avrebbe dovuto dire non “restaurare”, ma “conquistare” la sovranità. Comunque, sono stati settanta coloro che hanno detto “Sì” a tale risoluzione, tramite voto segreto: i membri del gruppo parlamentare Junta pel Sí e di Candidatura de Unidad Popular (CUP)-Llamada Costituyente. Il primo è erede del partito principe del movimento indipendentista catalano, Convergencia i Unió (CiU) del famigerato Jordi Pujol (che primeggia tra i grandi esportatori illegali di capitale dal territorio ispanico nonché tra i bustarellari taglieggiatori delle attività pubbliche) e di Esquerra Republicana de Catalunya (partito che ebbe tra i suoi leader storici Josep Tarradellas, fautore della rinascita della Generalitat catalana dopo la guerra civile spagnola, e Luis Companys, leader di Esquerra all’epoca della guerra civile, vittima del franchismo). Esquerra Republicana per tradizione era catalanista ma non necessariamente indipendentista: lo è divenuta in questi ultimi anni, in particolare sotto l’impulso del suo dirigente attuale, Oriol Junqueras, anche per via degli accordi da questi stabiliti col successore di Pujol al fronte di CiU, Artur Mas.

Dunque settanta parlamentari su un totale di 135 rappresentati nel Parlamento catalano, dei quali solo 92 hanno partecipato al voto. Una maggioranza non certo schiacciante, che tuttavia s’è arrogata il diritto di prendere una decisione di rilevanza tale da scuotere tutto il sistema politico istituzionale spagnolo.

Parlamento catalano, 27 ottobre 2017, i banchi dell’opposizione sono vuoti, dopo l’uscita dei parlamentari contrari alla dichiarazione di indipendenza.

Il voto è stato segreto come misura cautelativa, volta a cercare di evitare che i singoli parlamentari possano esser assoggettati ai rigori della legge: trattandosi di voto anticostituzionale possono essere accusati dalla magistratura di sedizione e ribellione. La segretezza è stata complementata da due voti in bianco e da dieci degli undici deputati di Catalunya Sí Que Es Pot (la sezione locale di Podemos) che hanno scelto di partecipare al voto, ma mostrando che votavano “No” alla risoluzione.

Subito dopo la votazione, il Presidente del governo spagnolo, Mariano Rajoy, sulla base dell’articolo 155 della Costituzione spagnola ha dichiarato decaduto il governo catalano avocandone le funzioni e ha contestualmente indetto nuove elezioni per il 21 dicembre 2017.

Intanto nelle strade antistanti alla Generalitat si son viste persone abbracciarsi in lacrime, felici che finalmente si fosse raggiunta l’agognata libertà. Anna Gabriel, portavoce del partito CUP (ritenuto l’erede del movimento anarchico catalano) ha annunciato che nel giorno stabilito da Rajoy per le elezioni, promuoveranno una grande “paellata” nelle città catalane, in ciò evidenziando la vocazione al paradosso della situazione generatasi. La Gabriel nei suoi discorsi pubblici usa solo il femminile: non vi sono deputati, ma solo deputate. A manifestare la sua rivolta contro quanto è stata usanza dominante sinora, generalizza il genere femminile di contro alla sinora dominante generalizzazione del genere grammaticale maschile: fa parte anche questo (lei direbbe questa) della marcia per la rivolta contro l’esistente.

Va evidenziato che quella del 27 ottobre non è stata una vera a propria dichiarazione di indipendenza, ma una dichiarazione di intendere dichiarare l’indipendenza, secondo la strategia seguita da Carles Puigdemont, il presidente della Generalitat (destituito da Rajoy): dire e non dire, fare e non fare, affermare e assieme negare.

Tali eventi potrebbero portare un osservatore esterno a perdersi nei meandri di questo neo bizantinismo catalano, e a ritenere i fatti che hanno commosso la Spagna nell’ottobre 2017 una specie di evento folklorico.

La questione è complicata in realtà, e ha dimensioni e potenzialità maggiori, nell’ambito dell’attuale mondo in subbuglio.

Si consideri ad esempio l’intervento svolto da Marta Rovira, segretaria generale di Esquerra Republicana, durante il dibattito al Parlament previo alla votazione della risoluzione indipendentista: tra l’altro la Rovira ha accusato la leader del principale partito di opposizione, Ines Arrimada (Ciudadanos), di mandare la polizia a minacciare mamme con bambini che si recavano a votare il 1 ottobre nel referendum anticostituzionale per l’indipendenza catalana: affermazione singolare che rivela la condizione psicologica entro la quale si muovono gli indipendentisti. Si sentono oppressi da una Spagna nella quale ravvisano la continuazione del franchismo, come se non vi fosse in realtà una democrazia parlamentare: loro ci credono davvero.

Tale atteggiamento paranoide alimenta e giustifica la pretesa di indipendenza come ideale ambizione a un nuovo Eden. Il circuito di televisioni, radio, organi di stampa, ambiti di discussione, siti Internet entro il quale il verbo indipendentista si è andato rafforzando negli anni mentre il resto della Spagna, a partire dal governo nazionale, sembrava non veder nulla, ha generato una vera e propria cultura che si è radicata nelle coscienze.

Per questo si son viste persone piangere di gioia per le strade di Barcellona dopo la dichiarazione di indipendenza; per questo i deputati indipendentisti dopo aver votato il 27 ottobre 2017 si son messi a cantare assieme con commossa devozione, a voce spiegata, l’inno catalano, Els Segadors, col sicuro fanatismo della massa che domina l’individuo. Sono sinceramente convinti di aver compiuto un gesto storico, e si preparano a portare avanti la loro battaglia.

La cosa non finirà nell’evento folklorico. Volontà dichiarata di tutte le parti in causa è di muoversi secondo i principi democratici, ma il fatto di sentirsi oppressi da potenze ostili – la condizione di paranoia autoindotta – rende gli indipendentisti disposti al sacrificio.

Per parte loro gli indipendentisti sono spaventati dall’invadenza dello stato spagnolo che sulla base della Costituzione del 1978 si muove per far rispettare la legge. Mentre invece gli spagnoli si sentono minacciati dall’indipendentismo e dal modo in cui questo si è mosso, imponendo il volere di una minoranza, per quanto cospicua, sulla maggioranza dei cittadini catalani (in virtù del sistema elettorale i partiti che formano la coalizione che ha governato la Generalitat sino alla sua destituzione hanno bensì vinto le elezioni, ma senza rappresentare la maggioranza). Anche a causa di questo, in molti in Spagna ritengono che la dichiarazione di indipendenza catalana sia assimilabile al tentativo di colpo di stato portato avanti nel 1981 dal generale Armada con il colonnello Tejero e il generale Milans del Bosch contro la democrazia parlamentare ancora giovane dopo la morte di Franco.

Vi sono altri fatti da considerare. Se il tentativo di colpo di stato del 1981, esauritosi nel giro di una giornata, fu un fatto eminentemente interno spagnolo, malgrado la Comunità Europea e una pluralità di Stati nel mondo abbiano reagito agli eventi dell’ottobre 2017 ritenendo anche questi un fatto interno spagnolo, in realtà si tratta di un fenomeno inquadrabile entro il più vasto contesto di imbarbarimento diffusosi in tutto il mondo occidentale e può avere conseguenze più ampie.

Innanzi tutto i secessionisti dispongono di un programma di lungo termine e da tempo hanno preso in considerazione che sarebbe potuto accadere quanto accaduto (che lo Stato spagnolo attivasse le misure volte a ristabilire la legalità costituzionale in Catalogna) e hanno preparato quel che la stampa spagnola ha presentato come una “hoja de ruta”, una tabella di marcia che prevede organismi in grado di funzionare in condizioni di illegalità e di segretezza cospirativa.

Da tempo esiste una rete internazionale non solo istituzionalizzata ma rappresentata nel Parlamento europeo, di partiti localisti, la Alianza Libre Euopea, o European Free Alliance, o
Alliance libre européenne o Partido Democrático de los Pueblos de Europa (PDPE) che, costituitasi nel 1981, raccoglie partiti da diversi paesi europei (Germania, Belgio, Bulgaria, Austria, Danimarca, Repubblica Ceca, Francia, Croazia, Finlandia, Grecia, Spagna, Italia, Estonia, Regno Unito, Slovacchia, Polonia, Paesi Bassi), in cui particolarmente forte è l’Alleanza Neo-flamenca che ambisce separare le Fiandre dal Belgio, e in Spagna conta su indipendentisti anche nei Paesi Baschi, in Aragona, nella Comunità Valenziana, nelle isole Baleari, nelle Canarie, in Navarra, in Galizia. Sono movimenti che spesso si rifanno a momenti storici di effettiva oppressione subita da minoranze a opera di Stati invadenti. Un movimento occitano ha offerto di ospitare in Francia, in rifugi protetti, i membri dell’ipotetico nuovo governo indipendentista catalano qualora questi dovessero andare in clandestinità.

Nel suo impegno a ricostruire l’impero russo ex sovietico, Vladimir Putin sostiene questi movimenti, soprattutto in funzione anti Unione Europea: si tratta di un supporto il cui valore in ambiente Internet è stato messo in rilievo da quanto accaduto con l’elezione di Trump negli USA.

L’ondata di rivolta anti globalizzazione, ben giustificata dal fatto che questa abbia assunto in gran parte il volto dei grandi potentati finanziari (i pochi ricchi contro i tanti, se non poveri, almeno impoveriti, ovvero le classi medie che più hanno subito le conseguenze della crisi del 2008) ovviamente gioca a favore di tali movimenti.

Ecco che la rivoluzione catalana del 2017 potrebbe benissimo finire come tutti gli altri momenti di fermento indipendentista catalano del passato, ma potrebbe, proprio grazie alla globalizzazione, divenire il germe di un nuovo fenomeno politico.

Un fenomeno “glocale”, in cui il rischio maggiore è dato dall’incontro tra la finanziarizzazione ingiusta da un lato e le condizioni paranoidi che, dall’altro, spingono gli indipendentisti verso la chiusura entro ristetti limiti locali, rifiutando il sistema di legalità internazionale che ha preso piede col movimento storico che portò alla costituzione delle Nazioni Unite.

Pubblicato il 28 ottobre 2017
su Frontiere
Articolo originale

 

Migrazione: Il balzello pagato dall’Occidente

L’Europa continua a distribuire soldi per bloccare la migrazione, rincorrendo i cambiamenti dei flussi, affidandosi a stati o a gruppi che non hanno mai dato dimostrazione di operare nell’ambito dei Diritti umani.

Si è trattato per arginare gli spostamenti dai paesi dell’est, dal Medioriente e dal nord Africa, lasciando il lavoro sporco agli altri, limitandosi ad elargire contributi, mostrandosi sempre con le mani pulite, ma non è così. L’Europa cerca di creare una rete di sentinelle esterne e interne ai confini europei.

Una Unione europea che foraggia alcuni stati perché “ospitino” migliaia di persone, fa finta di ignorare l’edificazione di muri e il Parlamento europeo si lava la coscienza promovendo il Premio Sacharov  per la libertà di pensiero, affermando di sostenere i diritti umani.

Delega ad altri drammi e scontri sociali per non sapere come si tiene lontani dall’Europa i popoli che fuggono da conflitti e carestie, ma poi accade che uno dei tanti Adan muore a 13 anni nelle civilissime contrade europee per il rispetto delle burocrazie e qualcuno si indegna perché è venuto a conoscenza che è accaduto davanti alla propria porta e non gli avevano nascosto il fattaccio.

La Ue ha una fievole voce nell’ambito dei Diritti umani, fa delle dichiarazioni di rito, magari minaccia, ma non riesce ad andare ai fatti. L’Unione che esiste quando fa i richiami e le reprimende, apre procedure d’inflazione ai singoli stati o infligge multe sui rifiuti o sull’anti-trust delle grandi compagnie, non riesce poi ad aggregare l’attenzione per partecipare agli oneri di una politica migratoria condivisa e non lasciata come zavorra ad alcuni paesi, salvo quando è il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks che invia una missiva direttamente al ministro degli interni Minniti per avere dei chiarimenti sull’accordo con Libia, sul tipo di sostegno operativo e se i diritti degli migranti sono rispettati.

La questione dei migranti economici è un ispido punto che ha trovato l’ostilità di Macron non più lontano di un paio di mesi fà, ma Junker conosce i numeri e prevede che l’Europa avrà bisogno anche di nuovi lavoratori, una necessità per un continente europeo che sta invecchiando, prospettando l’apertura di canali legali, ma perché proporre dei «progetti pilota, quando i corridoi umanitari sono ben collaudati dal dicembre del 2015, dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Tavola Valdese che hanno sottoscritto un protocollo con Viminale e Farnesina, corridoi attivati in Libano, Marocco e Etiopia, a spese delle stesse associazioni, grazie alle risorse provenienti dall’8 per mille, con controlli scrupolosi e la rilevazione delle impronte digitali?

I corridoi umanitari pensati per la Ue sono differenti, non sono a fine umanitario, prevedono di agevolare l’ingresso in Europa dei migranti qualificati e il rilascio della Carta blu, contrastando il pensiero di Macron del luglio passato, basato sulla diversificazione dei diritti, ostacolando la migrazione di chi è in cerca di lavoro, ribadendo la necessità di istituire “una polizia europea delle frontiere”.

Più che una polizia europea abbiamo, con le ultime elezioni politiche in Austria e nella Repubblica Ceca, un cordone xenofobo che dalla Polonia scende giù nei Balcani per bloccare la nuova via di migrazione che dalla Turchia porta alla Romania, più che alla Bulgaria presidiata da milizie anti profughi, dove la migrazione è attiva con battelli per attraversare il Mar Nero.

È un’illusione pensare di bloccare le migrazioni, tuttalpiù si possono momentaneamente arginare, ma poi trovano altre vie ed ecco timidamente si riapre il flusso dal Marocco alla Spagna, ma anche dalla Tunisia e molti sono i migranti salvati dai pescatori tunisini e altri, molti altri, come purtroppo la sessantina di corpi, tra giugno e agosto 2017, sono arrivati senza vita sulle coste tunisine di Zarzis.

L’Occidente paga per spostare sempre più lontano dai sui confini i centri per “ospitare” i tanti profughi, invece di creare e gestire in prima persona la migrazione, le strutture di accoglienza e di assimilazione.

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Migrazione: Un monopolio libico
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Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
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Migrazione: La sentinella turca
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Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
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Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Migrazione: L’Europa e i suoi flussi condivisi

La cancelliera tedesca Angela Merkel, anche in occasione del mini vertice parigino sui flussi migratori condivisi, si pone come nume tutelare e apri pista a nuovi equilibri per una regolamentazione dell’accoglienza, come il “momentaneo” blocco dei ricongiungimenti in Germania, ed ecco che oltre a lodare l’operato italiano in Libia e per il codice di comportamento dedicato alle Ong, toglie ogni veto al superamento del trattato di Dublino, per non vincolare il profugo alla spiaggia d’arrivo e rendere partecipi tutti i paesi dell’Unione.

Nell’incontro di Parigi, oltre alla Francia e alla Germania, hanno partecipato i rappresenti di Italia e Spagna, oltre a quelli del Ciad, Niger e il premier libico al Serraji, ma non l’uomo forte dell’atra Libia generale Khalifa Haftar, per rafforzare i confini, e per dare un senso di ufficialità anche  all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini.

Un vertice per venire incontro non solo allo sforzo sostenuto dall’Italia, ma anche a quello sopportato dalla Grecia, stato che nessuno però ha ritenuto d’invitare, con la differenza che l’impegno italiano si addentra nelle zone grigie, intrattenendo rapporti con le varie milizie presenti in Libia.

Una situazione complessa quella nella quale l’Italia si è calata, superando ogni amletico dubbio, come viene posto all’odierna Mostra del Cinema di Venezia 2017 nel film L’ordine delle cose di Andrea Segre, tra etica e ragion di stato. Funzionari dello Stato italiano vigilano da tempo sulle interazioni tribali di una Libia post Gheddafi e ora osserva da vicino una Ue che nega se stessa e ogni diritto a quell’umanità “ospitata” nei discussi centri di raccolta.

L’Italia va oltre ai problemi esistenziali di un funzionario di polizia catapultato in Libia, toccando con mano la disperazione di un’umanità che non è formata, come sostengono in molti, da delinquenti. Donne e bambini non possono essere dei farabutti e molti uomini fuggono non solo dalla carestia, ma anche dalle persecuzioni religiose o tribali.

Venezia è anche dove l’artista cinese Ai Weiwei ha presentato il documentario Human flow, dedicato alla migrazione come un epico inarrestabile flusso umano. Un biblico mosaico di vite impegnate, visto il contesto nel quale si muovono, in una transumanza.

Nel film di Segre è espresso un travaglio esistenziale, con Ai Weiwei si ha un documentario stile National Geographic, dove tutta la tragicità della vita e i momenti gioiosi vengono proposti con gusto estetico.

Sulla migrazione vengono proposte visioni di spostamenti collettivi, ma esiste un esodo “privilegiato”, senza dover intraprendere perigliosi viaggi, fatto di un biglietto aereo o navale per chi è in possesso di documenti

Quello che potrebbe essere imbarazzante per la Ue che ha istituito il Premio Sacharov, ed è tacitamente permesso ai singoli stati dell’Unione, è come aprire agli accordi con il turco Erdogan o ipotizzarne altri con l’egiziano al-Sisi, ed ora ci si appresta a trattare con i governanti del Ciad e del Niger, dove la democrazia non è un consuetudine, e dove la Francia pensa di rafforzare la presenza militare con la scusante degli hotspot.

L’Unione europea si dimostra sempre più composta da singoli Stati più che da un corpo unico necessario per concertare un’unica posizione verso una Turchia che periodicamente è tentata a rendere permeabile, come fece Gheddafi, il suo confine verso l’Europa, per alzare la posta sugli aiuti.

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Migrazione: Non bastano le pacche sulle spalle

Per anni l’Europa non ha mostrato interesse alla questione migratoria che coinvolgeva le “frontiere” del Mediterraneo, poi sono cominciati i rimproveri per il poco impegno italiano nello schedare e nel non riuscire a tenere quei fuggitivi in Italia, nel rispetto della convenzione di Dublino, ma solo da poco si è inaugurata l’era delle pacche sulle spalle, dei ringraziamenti per il lavoro svolto.

Ora però sarebbe opportuno andare oltre la semplice rassicurazione del presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker nell’affermare che l’Italia può “continuare a contare sulla solidarietà europea” sul fronte della crisi dei migranti.

Un piccolo passo è stato compiuto da Macron, europeista e sovranista, con la sua critica ai paesi dell’est che hanno confuso l’Unione europea come un emporio dove fare la spesa senza pagare la merce acquistata, mostrando cinismo nel trattare la questione dei rifugiati.

Il presidente francese pone comunque dei distinguo tra i profughi dalle violenze e quelli della carestie, come se morire di fame e sete non fosse una violenza pari a quella di trovarsi vittime di conflitti, solo per ribadire, come aveva fatto Hollande, che la Francia si attiene al nuovo trigono del motto della Rivoluzione francese in “Liberté, Égalité, Telibecchitè”, trovando la Fraternité obsoleta, chiudendo da tempo le frontiere.

Con il vertice di Parigi tra Italia, Francia e Germania, il ministro degli interni italiano ha posto la questione di un codice per le Ong impegnate nel Mediterraneo, oltre ad indirizzare le navi su altri porti per lo sbarco dei migranti ed a maggiori pressioni sui paesi europei non impegnati nella ricollocazione.

Un vertice quello parigino che si è posto come preparatorio a quello del G20 a Amburgo, ma soprattutto all’incontro informale dei ministri dell’Interno dell’Unione a Tallinn per superare le minacce italiane di chiudere i porti italiani alle navi straniere, con una revisione del Trattato di Dublino.

Mentre l’Italia minaccia la chiusura dei porti, Francia e Spagna, insieme ad altri paesi che non si affacciano sul Mediterraneo, sprangano i loro approdi e l’Austria mette in scena un spot elettorale, poi rientrato, con il voler schierare i blindati sulla frontiera del Brennero, come dimostrazione di tanta ammirazione e empatia per lo sforzo italiano.

Anche l’avvertimento del commissario alla Migrazione Dimitris Avramopoulos sul “Ricollocarli o ci saranno sanzioni” gridata contro l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca, pronto a proporre l’apertura di procedure d’infrazione, rimane solo una vaga minaccia.

A Berlino, al vertice preparatorio del G20, il primo ministro italiano Paolo Gentiloni ringrazia “i leader per la solidarietà e la comprensione per le difficoltà che dobbiamo affrontare in comune”, ma aggiunge anche che dopo tante espressioni di solidarietà è ora di passare ad un aiuto più concreto.

Il concreto aiuto che l’Italia si aspetta, viene specificato dal ministro degli interni Marco Minniti, in un maggiore coinvolgimento europeo nell’ospitalità dei profughi e nell’impegno di guardare all’Africa come soluzione e non come fonte del problema. Minniti all’incontro di Tallinn non ha commosso nessuno e vedere l’Africa come una risorsa rimane difficile con una Libia ufficialmente divisa in due governi e centinaia di tribù e milizie, oltre al fatto che la Cina si è radicata proprio negli stati africani da dove proviene gran parte della migrazione.

La Cina ha fatto dell’Africa, in questi ultimi decenni, un suo territorio d’oltre oceano, con gli enormi scambi di dare avere che difficilmente portano del benessere alle popolazioni native che continuano a migrare, anche per la cessione dei terreni più fertili alle compagnie cinesi, oltre ai conflitti per territori e ricchezze.

Tra pacche sulle spalle, tante parole d’incoraggiamento, ma soprattutto risatine di arroccamenti europei e porte chiuse, interviene Emma Bonino affermando che siamo stati noi a offrire i nostri porti, nell’ambito dell’operazione europea Triton, per gli sbarchi, ed ora è complicato disfare quell’accordo.

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Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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