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Trump attacca la Cina ma colpisce la UE

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

L’ha detto recentemente anche Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea:“Nel protezionismo i mercati sembrano vedere molto di più che un danno all’economia. Potrebbero vederci un fenomeno molto più ampio che mette in dubbio l’intero ordine multilaterale raggiunto dopo la seconda guerra mondiale. Le incertezze sui dazi sono aumentate“. Il rischio, poi, è che la guerra dei dazi possa degenerare in guerra delle valute.

Le altalenanti minacce americane “dazi si-dazi no”, le ritorsioni, le sospensioni condizionate hanno creato l’instabilità che l’intero sistema economico mondiale sta pagando. Finora non ci ha guadagnato nessuno, non gli Usa, non la Cina e tanto meno l’Europa.

L’Europa e, di conseguenza, anche l’Italia ci rimettono più di tutti.

Direttamente, quando i dazi sono imposti sui settori agroalimentari e dell’auto. Giustamente la Coldiretti teme che la “black list” americana colpisca pesantemente i prodotti agroalimentari del made in Italy che sono esportati fuori dai confini comunitari per ben 4,2 miliardi di euro.

Dopo i settori dell’acciaio e dell’alluminio, il bersaglio numero uno dei dazi americani è quello dell’auto, in particolare le imprese automobilistiche tedesche. La Germania, com’è noto, esporta negli Usa auto per 42 miliardi di dollari. Il che significa un duro colpo anche per le imprese italiane della componentistica i cui prodotti sono esportati in Germania. La Germania, si ricordi, è il primo partner commerciale mondiale dell’Italia.

Poi indirettamente, poiché i dazi imposti alla Cina o al Messico colpiscono soprattutto prodotti altamente tecnologici, di cui molte parti provengono dall’Europa.

Inoltre, un’importante area di scontro è quella dell’aviazione civile, tra la Boeing americana e l’Airbus europea. Washington si lamenta dei sussidi erogati dall’Unione europea, dimenticandosi che tutti i suoi settori tecnologicamente importanti, militari e civili, godono da sempre di sostanziosi sostegni statali. Trump ha avuto l’ardire di portare la controversia persino davanti all’Organizzazione del Commercio Mondiale, la stessa istituzione che quotidianamente boicotta.

I dazi nei confronti della Cina, inizialmente del 10%, poi aumentati al 20%, su 200 miliardi di dollari di prodotti cinesi, potrebbero vedere una pericolosa escalation, e arrivare al 25% su altri 325 miliardi. Pechino ha annunciato ritorsioni su 60 miliardi di dollari di prodotti americani. Per esempio, sulle importazioni di soia, che finora coprivano il 60% della produzione americana.

Una delle aree di scontro più pericoloso verte intorno alle tecnologie informatiche, considerate di rischio per la sicurezza nazionale americana. Di conseguenza Trump si è mosso per il blocco verso l’azienda cinese Huawei e altre imprese simili. Come risposta, Pechino ha fatto subito sapere di voler sfruttare la sua posizione di principale esportatore mondiale di materiali delle cosiddette “terre rare” utilizzati per le tecnologie avanzate.

Si tenga inoltre presente che la Cina possiede obbligazioni del Tesoro americano per più di mille miliardi di dollari.

Anche la minaccia di Trump di applicare il 5% di dazi su tutti i beni importati dal Messico, per poi alzarli fino al 25%, andrebbe a colpire, tra l’altro, i settori delle automobili, dei mezzi di locomozione e dei televisori, dove la componentistica europea è molto rilevante.

Il Messico è il terzo partner commerciale degli Usa con circa 265 miliardi di dollari di esportazioni di merci. Negli anni passati molti produttori americani vi hanno trasferito le loro fabbriche per sfruttare il basso costo della mano d’opera. Gli effetti dei dazi non penalizzeranno solo gli esportatori messicani ma anche gli importatori americani, che, poi, aumenteranno ovviamente i prezzi per i consumatori finali.

Poiché la questione è il blocco dei flussi immigratori, la guerra dei dazi diventa immediatamente una guerra sociale con conseguente destabilizzazione politica. Trump, però, non può ignorare che la questione immigrazione ha ragioni economiche e sociali profonde e dimensioni epocali.

Recentemente gli Usa hanno tolto anche l’India e la Turchia dalla lista dei partner commerciali privilegiati, costringendo persino Nuova Delhi, da sempre amica di Washington, a reagire con delle contromisure commerciali.

In America, comunque, cresce l’opposizione contro la politica dei dazi e c’è la campagna “Tariffs hurt the heartland”, sostenuta da 150 organizzazioni di vari settori produttivi, che lamenta come i dazi colpiscano il cuore del paese e rischino di generare la perdita di 2 milioni di posti di lavoro.

Non sfugge che l’intento di Trump sia di colpire l’Unione europea. A Londra ha esplicitamente invitato la Gran Bretagna a uscire dall’Ue e le ha offerto accordi commerciali superprivilegiati. È un atteggiamento che va ben oltre l’attitudine di Trump!

È chiaro, tuttavia, che sono in gioco le strategie della grande finanza e i corposi interessi geopolitici di quel sistema che si chiama, fin dai tempi del presidente Eisenhower, “il complesso militare industriale americano”.

Pur mantenendo strette relazioni con gli Usa, il nostro alleato storico, l’Ue dovrebbe sfidare certi disegni dell’unilateralismo di oltre Atlantico. Potrebbe, invece, diventare il perno principale per la creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere delle monete più importanti e non soltanto sul dollaro. Così potrebbe svolgere un’importante funzione di equilibrio geoeconomico e geopolitico tra gli attuali grandi attori internazionali.

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi
Pubblicato il 27 Giugno 2019
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da Frontiere


Flat Tax aumenta le disparità: lo dimostra la Russia di Putin

 

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

La flat tax, di cui tanto si parla in questa campagna elettorale, non è la parola magica per la giustizia fiscale del nostro paese. Anche se non è la cattiva parola da demonizzare tout court. I limiti e gli obblighi costituzionali non si possono ignorare. Nel caso, quindi, di una sua eventuale e deprecabile introduzione, sarà necessario individuare meccanismi di deducibilità che rendano effettivo il principio della progressività.

È doveroso prima di ogni decisione valutare quanto è accaduto e accade nei paesi in cui la flat tax è stata introdotta. Il caso emblematico ci sembra quello russo, dove le famiglie povere e quelle indigenti sono fortemente aumentate tanto da spingere le masse delle periferie urbane e i residenti nei territori rurali a chiedere di rivedere il sistema fiscale, introducendo forme di progressività nella tassazione.

In Russia, com’è noto, nel 2001 Putin, al suo primo mandato, introdusse la tassa fissa del 13% per tutti, ricchi e poveri, singoli e imprese, aziende produttive e società dubbie. Egli aveva raccolto un paese in ginocchio, devastato dalla corruzione del periodo di Eltsin, dalla penetrazione della finanza speculativa internazionale, dalla svendita delle ricchezze nazionali alle grandi corporation e dal sostanziale fallimento dello Stato del 1998.

E quel che era più grave, c’era una generale sfiducia. Nessuno aveva fiducia nel rublo, nessuno pagava le tasse, o per corruzione o per indigenza. I cosiddetti oligarchi «spostavano» centinaia di miliardi di dollari a Londra o nei paradisi fiscali. Perciò la tassa del 13% servì anzitutto a riportare un certo ordine e un po’ di razionalità nel sistema economico. Fu il modo per garantire un minimo di stabilità politica e un minimo di entrate fiscali.

Pertanto il vero motore della ripresa russa, più che la flat tax, è stato lo sfruttamento delle risorse energetiche, del petrolio e del gas, le cui riserve, insieme alle altre ricchezze naturali, sono enormi.

Per anni, la Russia ha incassato elevate fatture dalla vendita di crescenti quantità di risorse energetiche. Nel frattempo si è frenata in qualche modo sia la corruzione sia la fuga dei capitali. Si ricordi che in questi anni la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita di petrolio e gas ha garantito entrate davvero eccezionali. Tanto che nel 2008 il classico barile di petrolio ha toccato la vetta di 150 dollari!

L’andamento della diseguaglianza. Il 10 percento della popolazione arriva a detenere il 56 percento degli introiti nazionali per anno in India; in Canada, USA e Russia detiene circa il 45 percento degli introiti annui. Nei Paesi dell’Unione Europea la diseguaglianza è relativamente più contenuta.

Oggi, però, la Russia, come altri paesi, sta vivendo una crescente e pericolosa ineguaglianza economica e sociale. Soprattutto dopo le sanzioni economiche e il crollo del prezzo del petrolio. C’è un recente studio del Credit Suisse in cui si dimostra come la Russia sia uno dei più «disuguali» paesi del mondo: il 10% della popolazione detiene l’87% della ricchezza della nazione. L’1% della popolazione detiene il 46% dei depositi bancari.

Anche la situazione della tanto decantata Ungheria merita un’attenta disamina. Il paese, si ricordi, è entrato nell’Unione europea nel 2004 mantenendo però la sua moneta nazionale, il fiorino.

Con una popolazione di 10 milioni di persone, nel 2008 aveva un pil di 157 miliardi di dollari a prezzi correnti. A seguito della crisi globale, nel 2011 il prodotto interno scese a 140 miliardi e nel 2012 a 125.

Nell’ultimo periodo ci sono stati dei miglioramenti nell’economia magiara, trainata dalla piccola ripresa europea e soprattutto dall’attivismo industriale della vicina Germania.

Non sembra che l’introduzione della flat tax del 16%, avvenuta nell’anno 2001, abbia aiutato la ripresa e le crescita in Ungheria. Ciò che ha invece veramente aiutato Budapest a mantenere una certa stabilità sono stati gli aiuti rilevanti da parte dell’Unione europea e la sua partecipazione al mercato unico europeo.

Gli aiuti sono stati riconfermati anche recentemente: dal 2004 al 2020 l’Ungheria riceverà da Bruxelles sovvenzioni per complessivi 22 miliardi di euro, cioè oltre 3,5 miliardi l’anno. Sono soldi che provengono anche dall’Italia, nonostante la forsennata propaganda magiara anti euro e anti Unione europea.

Si ricordi che l’Italia contribuisce al bilancio dell’Ue con ben 20 miliardi di euro e ne riceve 12. Gli 8 miliardi rappresentano il contributo netto dell’Italia. Se fossimo trattati come l’Ungheria dovremmo ricevere, in proporzione alla popolazione italiana che è 6 volte quella magiara, aiuti da Bruxelles per 22 miliardi di euro ogni anno. Altro che flat tax!

(Questo articolo è pubblicato in Italia Oggi del 16-02-2018)

Pubblicato il 17 febbraio 2018

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Africa: senza infrastrutture crescerà l’emigrazione

4 dicembre 2017

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Cambiamenti climatici, mancanza di acqua, avanzamento dei deserti, impoverimento dell’agricoltura. Non sono soltanto argomenti per dibattiti politici o accademici ma questioni reali che determinano la vita di intere popolazioni. Europa compresa. Per i paesi poveri, soprattutto dell’Africa, sono causa di emigrazione. E in Italia sappiamo bene che c’è un legame stretto tra sottosviluppo ed emigrazione. Oggi lo vivono fortemente i paesi del sud del mondo. Cento anni fa, cinquanta anni fa è stata la piaga che aveva colpito tutte le nostre regioni. E, purtroppo, lo sta diventando anche oggi. Possibile che non abbiamo imparato nulla dalla storia? Eppure alcuni interventi virtuosi potrebbero aiutare ad affrontare alla radice le cause della povertà e delle migrazioni incontrollate. Invece si spende solo per le situazioni di emergenza.

Al riguardo, recentemente si è tenuto a Roma il summit internazionale «Water and Climate: Meeting of the Great Rivers of the World – L’acqua e il clima: incontro sui Grandi Fiumi del Mondo», organizzato dal nostro governo insieme alla Commissione Economica per l’Europa dell’Onu. Con una partecipazione di oltre 100 esperti provenienti da 48 paesi, esso ha offerto una grande opportunità di confronto e di scambio di esperienze. Nel mondo vi è una crescente scarsità d’acqua che sta creando tensioni sulla sua ripartizione e sul suo futuro utilizzo. Ciò accade ancor di più, dove fiumi, laghi e riserve d’acqua interessano dei bacini che coinvolgono vari paesi e differenti confini. Possono diventare anche cause di conflitti e di terrorismo.

A livello internazionale non manca un principio guida, ma un effettivo processo di dialogo. Tali situazioni, invece, potrebbero essere opportunità di nuove e più efficaci politiche di collaborazione. Il summit di Roma è stato un momento importante per confrontare vari progetti tra le organizzazioni che gestiscono i grandi bacini fluviali e lacustri del pianeta. Uno di questi, forse il più importante ed emblematico, è quello della regione del Lago Ciad, in Africa. Sull’argomento è intervenuto il presidente del Consiglio dei ministri, Paolo Gentiloni, che correttamente ha evidenziato «la vicenda del lago Ciad che alimenta un bacino di settanta milioni di persone, in diversi paesi, la cui crisi gravissima negli ultimi decenni ha provocato effetti notevoli. Si calcolano due milioni e mezzo di persone sfollate in quel bacino». Ci sono persino relazioni evidenti tra la crisi idrica del lago Ciad, la destabilizzazione socioeconomica e l’emergere di minacce terroristiche in alcune di quelle regioni.

Abdullahi Sanussi

L’intervento è stato apprezzato da Sanussi Abdullahi, segretario esecutivo della Commissione per il Bacino del Lago Ciad (Lcbc), che, parlando di progetti di trasferimento idrico, ha ricordato che fu l’impresa italiana Bonifica del Gruppo Iri a sviluppare più di quarant’anni fa il progetto «Transaqua – Un’idea per il Sahel» per evitare il prosciugamento del lago e la sua progressiva trasformazione in deserto. Esso prevedeva la costruzione di un canale navigabile di 2.400 km che dal fiume Congo portasse acqua dolce fino al Lago Ciad. Lungo il suo percorso beneficerebbero molti paesi e popolazioni con effetti positivi sullo sviluppo agricolo, sulla produzione di energia pulita ed anche per nuovi insediamenti urbani sostenibili.

Riteniamo interessante il fatto che la succitata Commissione abbia già concluso un accordo con il colosso cinese delle progettazioni e costruzioni infrastrutturali «PowerChina» per un’ulteriore verifica della fattibilità del progetto, a cui partecipa anche la nuova impresa Bonifica che è subentrata alla vecchia società del soppresso Iri. La Commissione sta cercando altri sostegni e partecipazioni per assicurare che il programma sia economicamente fattibile e sostenibile anche a livello finanziario e politico. Il progetto potrebbe fungere da catalizzatore per altri programmi pan-africani, che colleghino l’Africa centrale all’Africa occidentale, e al Sahel, generando occasioni di sviluppo agroindustriale.

Un secondo progetto di rilevanza strategica è quello riguardante il lago salato Chott el Jerid, interno alla Tunisia. È in una zona minacciata dall’avanzamento del deserto. L’idea, vecchia di quasi 150 anni, sarebbe di costruire un canale navigabile che lo colleghi al Mediterraneo, distante circa 25 km. Così le acque, fluendo lungo il canale, andrebbero a riempire il bacino lacustre, realizzando il sogno di un mare nel deserto. Si calcola che il conseguente sviluppo agro-industriale, turistico e abitativo potrebbe creare fino a 50 mila nuovi posti di lavoro.

Finanziare questi due grandi progetti sarebbe il modo più serio, più utile ed efficace di “aiutarli a casa loro”. Altrimenti la crisi migratoria continuerà a mietere vittime innocenti con la gravissima perdita di energie umane e produttive per i paesi di loro provenienza. Sarebbe bello se l’Italia riuscisse a diventare la guida per l’Europa di tali concrete politiche di sviluppo.

In testata: Il lago Ciad oggi. L’acqua si sta ritirando e la forte salinità del suolo rende difficile la vita sulle aree che restano allo scoperto. Foto OUALID KHELIFI/UNHCR

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