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Ucraina tra Sparta e Atene

Tutti mi chiedono che faranno ora i Russi, che nel frattempo hanno ampliato la loro offensiva militare in Ucraina e puntano alle grandi città. Se lo sapessi non starei qui ma al NATO College o consulente ben pagato di qualche istituto di ricerca, anche se va detto che proprio molti analisti di professione hanno sottovalutato la situazione e non certo da ora. Per il resto ho le stesse informazioni che hanno gli altri: frammentarie, parziali e partigiane, mentre i giorni precedenti all’attacco sapevamo tutto sullo schieramento di terra e di mare, ripreso dai satelliti e divulgato in rete. Davamo per scontato che i Russi avrebbero occupato e annesso il Donbass e forse qualcos’altro in Crimea, ma lasciando l’armata ai confini come deterrente e strumento di pressione politica, con reali risultati sul medio e lungo periodo. Ha sconcertato tutti dunque la decisione di scatenare un’invasione su larga scala di un paese che gravita da sempre fra due culture diverse ma che è fondamentalmente europeo. Il problema è culturale: nella nostra mentalità non ritenevamo più praticabile una guerra su larga scala; al massimo era prevedibile l’annessione delle due zone dove la minoranza russa aveva proclamato l’indipendenza dall’Ucraina, superando gli Accordi di Minsk in realtà mai applicati per la resistenza anche proprio del governo ucraino, restio a concedere un’autonomia alle zone del Donbass. Governo che si direbbe difficile da inquadrare in uno schema preciso: per Putin l’Ucraina non esiste, va liberata e denazificata, mentre per noi è un paese sovrano libero di scegliere da che parte stare, anche se non è chiaro quanto abbiano pesato nel 2014 le offerte e le pressioni statunitensi ed europee per quello che ancora oggi viene descritto più come un colpo di stato che un vero processo democratico. Tutto infatti parte da qui: dal momento in cui l’Ucraina non ha firmato l’accordo doganale con la Russia e si è invece orientata verso l’Unione Europea, sganciandosi dunque dalla tradizionale area di influenza russa, ma senza immaginare che gli statunitensi non erano disposti a impegnarsi in profondità. Biden poi come presidente si è visto di che pasta è fatto: Afghanistan docet.

E parliamo della NATO. Una volta caduto il Muro di Berlino (novembre 1989) i paesi prima aderenti al Patto di Varsavia si sono man mano smarcati con la fine dell’Unione Sovietica (1991) e all’inizio del nuovo secolo sono entrati nella NATO. C’era un accordo non scritto per evitare l’espansione a Est di un’alleanza nata proprio per contenere l’URSS, ma questo non è stato rispettato, col risultato di frustrare i Russi e proiettarli nella classica sindrome di accerchiamento. Fino all’ascesa di Putin la Russia e il suo esercito stavano comunque a pezzi e il presidente Eltsin era debole. Da parte statunitense si è quindi fatto l’errore di confondere l’Unione Sovietica con la Russia e non prevedere la futura rinascita di una nazione fortemente coesa, Ora, si dirà: ma un paese che occupa undici meridiani può sentirsi accerchiato solo perché la terra è tonda?  Ebbene, chi ritiene Putin un uomo misterioso e la politica estera russa ambigua, bene farebbe a studiare storia moderna. Dai tempi di Pietro il Grande (regnò dal 1682 al 1725) la strategia russa è sempre la stessa: sbocco al mare (Baltico e Mar Nero), colonizzazione e sfruttamento della Siberia, contenimento dell’Islam (all’epoca incarnato dall’Impero Ottomano) e creazione in Europa di una fascia di sicurezza a spese degli altri (baltici, polacchi, ucraini, tedeschi, etc.). La popolazione russa è concentrata verso l’Europa e la Russia è un paese europeo, invaso ora dagli Svedesi, ora da Napoleone, ora da Hitler. Niente di strano che da sempre venga tenuta frapposta una zona di stati cuscinetto neutrali o vassalli. Esattamente quello che l’espansione della NATO ha Est ha distrutto, creando solo frustrazione. Resta casomai da capire perché una faccenda così importante non sia stata mai messa per iscritto e affidata solo a promesse verbali o a note di ambasciata. Lo stesso Putin, se voleva negoziare o rinegoziare con la NATO, ha avuto vent’anni di tempo, né gli mancavano certo gli strumenti di pressione diplomatica per frenare l’aggressività statunitense da Bush in poi. In fondo, l’autodeterminazione dei popoli non vale solo per il Kosovo e la NATO aveva mantenuto il carattere di un’alleanza esclusiva, concettualmente ferma alla divisione tra Est e Ovest. Integrare la Russia nel sistema economico e politico europeo si è visto che non è facile, vista la sua struttura di potere, ma c’è stato comunque un periodo in cui si poteva fare certamente di più.

Torniamo dunque un passo indietro. Dopo la Caduta del Muro (1989) l’Unione Sovietica si dissolve e al suo posto rinasce la Russia, mentre i paesi legati al Patto di Varsavia si rendono indipendenti dall’alleanza nata nel dopoguerra per contrastare la NATO. Tutto questo avviene negli anni ’90 del secolo scorso, in un momento di particolare debolezza per la Russia e la CSI (Confederazione di Stati Indipendenti) intorno al nucleo centrale. In questo contesto molti paesi dell’Europa Orientale chiedono di aderire sia all’Unione Europea (che a tutt’oggi conta 27 membri) che alla NATO (attualmente 30 membri, di cui 22 nella UE). Ma se la UE è un’unione politica ed economica, la NATO ha funzioni essenzialmente militari e l’articolo 5 prevede l’aiuto reciproco fra paesi membri in caso di attacco anche a uno solo di essi. E’ chiaro a questo punto perché le tre Repubbliche Baltiche o la Polonia hanno aderito alla NATO: non per invadere la Russia, ma per difendersi dai Russi. Neanche strano che Putin non voglia l’ingresso dell’Ucraina nella NATO: finché ne resta fuori essa deve difendersi da sola, né c’è proporzione tra i due eserciti, come si è visto in queste ultime settimane. La Russia negli ultimi quindici anni ha investito molto sul rinnovamento e lo sviluppo delle sue forze armate, e soprattutto ha reagito nei tempi lunghi alla situazione di inferiorità in cui gli statunitensi l’avevano costretta. Non si può dunque comprendere la situazione attuale senza capire che la graduale estensione della NATO è stata sentita dalla Russia come una minaccia alle proprie frontiere, non più separate dall’Europa occidentale da una zona di stati-cuscinetto, di fatto vassalli. Ma se l’Unione Sovietica era finita, la Russia aveva invece le forze per rinascere, era solo questione di tempo. Sicuramente meglio sarebbe stato garantire una fascia neutrale, inserita nell’UE ma non nella NATO, oppure trasformare la NATO in un’Alleanza per la Sicurezza, inclusiva invece che esclusiva. Questo avrebbe meglio indirizzato gli sforzi, p.es., contro il pericolo islamista, con il quale i Russi devono confrontarsi sul terreno delle repubbliche asiatiche ex-sovietiche.

E passiamo ora all’Ucraina. Negoziati o meno, i Russi stanno distruggendo un paese con cui dovranno comunque convivere, non fosse altro perché metà delle famiglie ucraine ha parenti russi. Sicuramente pensavano di fare una guerra lampo, ma – come scrive Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale (1928) “Non si aspettavano di trovare tanta resistenza”. Sempre la stessa storia: a Budapest (1956) o a Praga (1968) i carri armati russi entrarono da liberatori, salvo accorgersi che buona parte della gente la pensava diversamente. E se vogliono entrare in Kharkiv (già Kharkov: nella seconda GM ci hanno combattuto quattro battaglie!) o in Kiev (o Kjiv?) i soldati sanno che combattere strada per strada in città con uno o due milioni di abitanti è una rogna che può durare mesi e si traduce in una snervante guerriglia urbana. L’esercito ucraino è molto inferiore per qualità e quantità a quello russo, ma l’Ucraina è enorme e capace di resistenza diffusa. Si è anche parlato molto di guerra partigiana, ma su quello esprimo qualche dubbio: organizzarla richiede capacità superiori a quelle di un esercito regolare e infatti ha funzionato dove un forte partito nazionalista o comunista stava già sul terreno, o dove – penso alla Jugoslavia di Tito – una parte della difesa territoriale era stata organizzata per tempo decentrando i depositi di armi e carburante in luoghi meno accessibili e addestrando sistematicamente i riservisti su base locale. Distribuire armi o tenerle nei depositi di caserma da sola non basta se la gente non sa usarle o se i Russi sanno già dove cercarle. E sicuramente agiscono da mesi agenti infiltrati o collaboratori fidati.

Detto questo, un’ultima considerazione. Si può vincere sul piano militare, ma perdere sul piano strategico. Putin non può permettersi una guerra prolungata: la Russia ha un PIL inferiore a quello dell’Italia e la colonna di mezzi corazzati e logistici lunga 60-65 km che sta puntando su Kiev in tre giorni di autonomia consuma da sola qualcosa come 2 milioni di litri di carburante, più olii lubrificanti, viveri e munizioni. I russi che manifestano per la pace in quaranta città sanno bene che presto dovranno rifare le file per il pane come ai tempi sovietici e anche per questo stanno in piazza. Dico “anche” perché nessun russo percepisce gli ucraini come stranieri, mica sono ceceni o abkhazi. Quindi tutti hanno interesse al negoziato, anche se ci si poteva arrivare con meno spesa, lacrime e sangue. Tutti hanno bisogno di una soluzione onorevole. E se Putin cadrà (magari per la rivolta degli oligarchi), è perché l’Unione Europea ha dimostrato maggiore compattezza e sa diversificare le armi e gli strumenti di pressione. Nessuno se lo aspettava, ma sottovalutare le democrazie è un classico dei regimi monocratici.

Infine, una parola sui profughi. L’Italia è il paese europeo dove vive la più estesa comunità ucraina, in maggioranza lavoratori e lavoratrici di basso rango (le donne sono l’80%). Si spera che saremo capaci di accogliere degnamente le migliaia di profughi che fuggono realmente da una guerra. Finora si è registrata una grande empatia con il popolo ucraino, ora è il momento di passare ai fatti.

Migrazione: I profughi non sono pinguini

da una illustrazione di Sergio Capparucci

Agli inizi di quest’anno Liliana Segre veniva applaudita, con il suo discorso sulla solidarietà e la convivenza, al parlamento Europeo. Un discorso della senatrice novantenne, che ha vissuto tanti tragici momenti, proteso alla comprensione e messo in discussione dagli scontri sul confine greco turco e dal respingimento dei profughi.

A Malta, nel 2019, si era aperto uno spiraglio sulla revisione del Regolamento Dublino, coniugando solidarietà con una equa ripartizione della responsabilità tra i membri dell’Unione europea, cercando di superare il concetto dei pesi mediterranei come “campo profughi d’Europa”. Tanti buoni propositi che si sono infranti contro il muro innalzato dai problemi pandemici del Covid-19 e la riluttanza dei paesi del nord-est a partecipare alla redistribuzione dell’umanità in fuga ed offrire un luogo per vivere.

L’Europa si è nuovamente eclissata, mentre la pandemia non ha frenato i flussi migratori, dimenticando la disperazione sui volti di un’infanzia che ha solo conosciuto la fuga e la reclusione in campi stipati e con una carenza di servizi, sperando di non avere degli aguzzini come tenutari.

Migrazioni che non si sono interrotte e alle quali una destra continua a gridare di chiudere i porti, di non far attraccare  navi che hanno raccolto in mare degli sventurati o addirittura di organizzare dei blocchi navali costosi e inefficaci per fermare dei gommoni o barchette ed anche se venissero intercettate le “minacciose” imbarcazioni quali azioni dissuasive potrebbero intraprendere verso delle carette che a malapena rimangono a galla?

Minacce incomprensibili se non si ha una soluzione, perché fare muro non serve a niente se non si indica quale comportamento avere. Forse si circonda il natante e si aspetta che le persone muoiano di fame o si possono spingere le barchette verso le coste di provenienza, senza entrare con i mezzi militari nelle acque territoriali, chiedendo magari l’intervento dei libici in divisa.

Non è necessario essere una persona religiosa per aiutare il prossimo, ma sicuramente è bizzarra la propaganda xenofoba di chi si dichiara un credente.

La sinistra, mentre cerca di accogliere i fuggiaschi, confida nella condivisione europea, sperando in una dura presa di posizione dell’Unione europea verso quei paesi che si rifiutano all’accoglienza, approvando sanzioni e tagli ai contributi.

In questo marasma di grida, le cui vittime continuano ad essere donne, bambini e uomini che fuggono dai soprusi e dalle stragi, viene varata una iniziativa a garantire la presenza nel Mediterraneo centrale di una nuova nave, tutta italiana, per soccorrere i naufraghi e testimoniare quanto accade a poche miglia dalle nostre coste.

Un’imbarcazione voluta da ResQ – People Saving People https://www.resq.it/, per essere attiva nel giro di pochi mesi, con un equipaggio di circa 10 persone per il funzionamento e 9 tra medici e infermieri, soccorritori, mediatori giornalisti e fotografi. Due gommoni veloci che  assicureranno gli avvicinamenti alle imbarcazioni in difficoltà e il salvataggio dei passeggeri.

Attendendo la nave di ResQ – People Saving People è Banksy che vara la Louise Michel, una nave per il salvataggio dei migranti in difficoltà, finanziata con il ricavato delle opere che lo street artist ha dedicato al dramma della migrazione.

La Louise Michel battente bandiera tedesca ed è un atto d’accusa all’immobilismo dell’Unione europea che Banksy spiega su Instagram https://www.instagram.com/p/CEehZUzJVds/

I migranti commuovono meno dei pinguini relegati in spazzi ghiacciati sempre più ridotti, sono entrambi il termometro del cambiamento non solo climatico, ma anche sociale che spesso trovano nel mare la loro ultima dimora.

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Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Verità e Giustizia per Giulio Regeni, una battaglia europea!

  • di EuropaNow!

Sono passati quattro anni da quando il giovane ricercatore Giulio Regeni è stato rapito al Cairo, atrocemente torturato e ammazzato, il corpo lasciato in un fossato lungo un’autostrada. Da allora, malgrado il loro impegno costante, i magistrati italiani che indagano sull’accaduto si sono scontrati con un muro di gomma politico, eretto dal regime egiziano di al-Sissi, che ha cercato in mille modi di depistare le inchieste (compresa l’uccisione di cinque innocenti, falsamente accusati di essere gli autori dell’omicidio) per impedire l’accertamento della verità e l’affermarsi della giustizia.

Con intensità alterna, le autorità italiane hanno chiesto conto al Cairo della vicenda, ma fino a oggi senza esito. Ogni mese che passa allontana la speranza di identificare e condannare i responsabili. La magistratura italiana alla fine dello scorso anno ha presentato al parlamento le conclusioni dell’inchiesta, in cui afferma in sostanza che quello di Regeni fu un omicidio di Stato. In questa vicenda, l’Italia è stata gravemente e ciecamente lasciata sola. Nel maggio 2016, Il governo britannico aveva chiesto “un’inchiesta trasparente per rispondere alle preoccupazioni della comunità internazionale sulla sicurezza degli stranieri in Egitto”. Ma niente di più. Poche settimane prima il presidente francese François Hollande, durante un viaggio ufficiale al Cairo, aveva evocato la questione dei diritti umani in Egitto, il caso Regeni e quello di Eric Lang, un insegnante francese picchiato a morte in un commissariato di polizia. Ma il numero uno francese dell’epoca aveva anche subito rassicurato che la “relazione speciale”, economica e militare, con il presidente Abdel Fattah al-Sisi non era in discussione. Da allora, la questione è scomparsa delle agende politiche e diplomatiche dei dirigenti europei, sacrificata sull’altare dei rapporti commerciali e della “stabilità” dell’Egitto, proclamata dal regime.

In realtà è dal 2016 che i Partners europei avrebbero dovuto accompagnare gli sforzi italiani, come anche i genitori di Giulio Regeni avevano chiesto davanti al parlamento europeo. Avrebbero dovuto richiamare anche loro gli ambasciatori in Egitto, per lanciare il messaggio che il caso Regeni riguarda tutta l’Unione europea, e non solo l’Italia, perché Giulio Regeni era prima di tutto un cittadino europeo. Non è difficile immaginare che in un simile scenario le autorità egiziane avrebbero avuto un atteggiamento diverso e, incalzate dalla richiesta di verità congiunta e determinata dei 28 paesi europei, senz’altro più collaborativo. Invece sappiamo che è andata diversamente. Non avendo ricevuto il sostegno delle altre capitali dell’Unione, il governo Gentiloni nell’agosto 2017 ha rimandato il proprio ambasciatore, insieme all’implicito e inevitabile messaggio al Cairo che il rapporto bilaterale non poteva più essere condizionato dal caso Regeni.

L’Europa ha cosi perso un’occasione di mostrare solidarietà verso l’Italia, ma ha anche intaccato la sua stessa ragione d’essere. Perché chiedere giustizia per il giovane ricercatore friulano avrebbe significato affermare che l’Unione europea non si fonda solo sulla convenienza di stare insieme per affrontare le sfide del XXIesimo secolo e le nuove grandi potenze mondiali, ma che si basa prima di tutto su principi comuni di libertà e di rispetto dei diritti umani. L’Ue non è un patto di azionisti. È un unione politica che fonda le sue radici nel ricordo delle tragedie del Novecento (le due guerre mondiali e la lotta contro tutti i totalitarismi) e la volontà di superarle. Per questo, oggi, tocca a tutti i cittadini e tutte le cittadine europei mobilitarsi per esigere che i loro rappresentanti nazionali e europei facciano sentire un voce coesa, costante e determinata in direzione dal Cairo. Ogni capo di Stato o di governo, ministro o delegato dell’Ue, andando in Egitto o ricevendo un esponente egiziano, dovrebbe essere spronato dall’opinione pubblica e dai media europei a chiedere instancabilmente e con fermezza, verità per Giulio Regeni. La mobilitazione sarà lunga e difficile ma è l’impegno che i cittadini europei sono chiamati a prendersi per Giulio Regeni e per loro stessi.

Accanto a Amnesty, è un compito che anche l’associazione EuropaNow! cerca di assumersi. Nella consapevolezza che voler fare luce sulla scomparsa di Giulio Regeni significa anche riaffermare il nostro sostegno di cittadini europei a tutti cittadini egiziani che lavorano con coraggio per la verità e che sono regolarmente minacciati dalle autorità. E più in generale, lanciare un messaggio di attenzione, solidarietà e fratellanza con i democratici egiziani che credono fermamente che il rispetto dei diritti umani sia un diritto universale, che non ci sono regioni del mondo dove le libertà fondamentali possano essere messe in secondo piano e dove il rapimento, la tortura e l’uccisione di un ricercatore, perché avvenuti in Egitto, possano rimanere impuniti.

Il 25 gennaio, giorno del rapimento di Giulio Regeni, invitiamo quindi le cittadine e i cittadini europei ad appendere alla finestra striscioni, cartelli, qualsiasi supporto in qualsiasi lingua per chiedere “Verità e Giustizia per Giulio Regeni”.

Pubblicato 2020
Articolo originale
dal blog EuropaNow!

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Trump attacca la Cina ma colpisce la UE

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

L’ha detto recentemente anche Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea:“Nel protezionismo i mercati sembrano vedere molto di più che un danno all’economia. Potrebbero vederci un fenomeno molto più ampio che mette in dubbio l’intero ordine multilaterale raggiunto dopo la seconda guerra mondiale. Le incertezze sui dazi sono aumentate“. Il rischio, poi, è che la guerra dei dazi possa degenerare in guerra delle valute.

Le altalenanti minacce americane “dazi si-dazi no”, le ritorsioni, le sospensioni condizionate hanno creato l’instabilità che l’intero sistema economico mondiale sta pagando. Finora non ci ha guadagnato nessuno, non gli Usa, non la Cina e tanto meno l’Europa.

L’Europa e, di conseguenza, anche l’Italia ci rimettono più di tutti.

Direttamente, quando i dazi sono imposti sui settori agroalimentari e dell’auto. Giustamente la Coldiretti teme che la “black list” americana colpisca pesantemente i prodotti agroalimentari del made in Italy che sono esportati fuori dai confini comunitari per ben 4,2 miliardi di euro.

Dopo i settori dell’acciaio e dell’alluminio, il bersaglio numero uno dei dazi americani è quello dell’auto, in particolare le imprese automobilistiche tedesche. La Germania, com’è noto, esporta negli Usa auto per 42 miliardi di dollari. Il che significa un duro colpo anche per le imprese italiane della componentistica i cui prodotti sono esportati in Germania. La Germania, si ricordi, è il primo partner commerciale mondiale dell’Italia.

Poi indirettamente, poiché i dazi imposti alla Cina o al Messico colpiscono soprattutto prodotti altamente tecnologici, di cui molte parti provengono dall’Europa.

Inoltre, un’importante area di scontro è quella dell’aviazione civile, tra la Boeing americana e l’Airbus europea. Washington si lamenta dei sussidi erogati dall’Unione europea, dimenticandosi che tutti i suoi settori tecnologicamente importanti, militari e civili, godono da sempre di sostanziosi sostegni statali. Trump ha avuto l’ardire di portare la controversia persino davanti all’Organizzazione del Commercio Mondiale, la stessa istituzione che quotidianamente boicotta.

I dazi nei confronti della Cina, inizialmente del 10%, poi aumentati al 20%, su 200 miliardi di dollari di prodotti cinesi, potrebbero vedere una pericolosa escalation, e arrivare al 25% su altri 325 miliardi. Pechino ha annunciato ritorsioni su 60 miliardi di dollari di prodotti americani. Per esempio, sulle importazioni di soia, che finora coprivano il 60% della produzione americana.

Una delle aree di scontro più pericoloso verte intorno alle tecnologie informatiche, considerate di rischio per la sicurezza nazionale americana. Di conseguenza Trump si è mosso per il blocco verso l’azienda cinese Huawei e altre imprese simili. Come risposta, Pechino ha fatto subito sapere di voler sfruttare la sua posizione di principale esportatore mondiale di materiali delle cosiddette “terre rare” utilizzati per le tecnologie avanzate.

Si tenga inoltre presente che la Cina possiede obbligazioni del Tesoro americano per più di mille miliardi di dollari.

Anche la minaccia di Trump di applicare il 5% di dazi su tutti i beni importati dal Messico, per poi alzarli fino al 25%, andrebbe a colpire, tra l’altro, i settori delle automobili, dei mezzi di locomozione e dei televisori, dove la componentistica europea è molto rilevante.

Il Messico è il terzo partner commerciale degli Usa con circa 265 miliardi di dollari di esportazioni di merci. Negli anni passati molti produttori americani vi hanno trasferito le loro fabbriche per sfruttare il basso costo della mano d’opera. Gli effetti dei dazi non penalizzeranno solo gli esportatori messicani ma anche gli importatori americani, che, poi, aumenteranno ovviamente i prezzi per i consumatori finali.

Poiché la questione è il blocco dei flussi immigratori, la guerra dei dazi diventa immediatamente una guerra sociale con conseguente destabilizzazione politica. Trump, però, non può ignorare che la questione immigrazione ha ragioni economiche e sociali profonde e dimensioni epocali.

Recentemente gli Usa hanno tolto anche l’India e la Turchia dalla lista dei partner commerciali privilegiati, costringendo persino Nuova Delhi, da sempre amica di Washington, a reagire con delle contromisure commerciali.

In America, comunque, cresce l’opposizione contro la politica dei dazi e c’è la campagna “Tariffs hurt the heartland”, sostenuta da 150 organizzazioni di vari settori produttivi, che lamenta come i dazi colpiscano il cuore del paese e rischino di generare la perdita di 2 milioni di posti di lavoro.

Non sfugge che l’intento di Trump sia di colpire l’Unione europea. A Londra ha esplicitamente invitato la Gran Bretagna a uscire dall’Ue e le ha offerto accordi commerciali superprivilegiati. È un atteggiamento che va ben oltre l’attitudine di Trump!

È chiaro, tuttavia, che sono in gioco le strategie della grande finanza e i corposi interessi geopolitici di quel sistema che si chiama, fin dai tempi del presidente Eisenhower, “il complesso militare industriale americano”.

Pur mantenendo strette relazioni con gli Usa, il nostro alleato storico, l’Ue dovrebbe sfidare certi disegni dell’unilateralismo di oltre Atlantico. Potrebbe, invece, diventare il perno principale per la creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere delle monete più importanti e non soltanto sul dollaro. Così potrebbe svolgere un’importante funzione di equilibrio geoeconomico e geopolitico tra gli attuali grandi attori internazionali.

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi
Pubblicato il 27 Giugno 2019
Articolo originale
da Frontiere


Europa: Una speranza di Unione

Sono un monito per tutta Europa le traversie che sta affrontando il governo britannico per esaudire il risultato del referendum consultivo indetto da Cameron nel 2016,  del quale non si è mai pentito, per allontanarsi dall’Unione europea. I britannici stanno scoprendo di avere una economia debole, con dei politici incerti che rendono l’uscita dalla Ue un percorso ad ostacoli, tra hard e soft, che li sta portando ad eleggere, tra il 23 a il 26 maggio  insieme ad altri 27 paesi, i suoi parlamentari a Strasburgo.

Quello che la premier britannica si è trovata ad affrontare è un percorso accidentato, dove nessuno voleva arrivare ad un compromesso, con il risultato di una polarizzazione degli schieramenti che ha fatto crescere, nelle elezioni locali e parziali del 2 maggio, i partiti europeisti “minori” ed il rinato euroscetticismo di Nigel Farage con il suo Brexit Party, ex Ukip, punendo i Conservatori della May e i Laburisti di Corbyn, con un complessivo 30%, per i loro tentennamenti.

I risultati delle elezioni amministrative britanniche, quelle politiche spagnole, quelle presidenziali in Slovacchia con l’elezione di Zuzana Čaputová ed anche il vigore dell’opposizione in Polonia, fanno ben sperare in un nuovo spirito europeista.

Un europeismo da riscoprire anche grazie alla campagna antiastensionista Stavolta voto https://www.stavoltavoto.eu/, varata dal Parlamento europeo, per riflettere sul futuro dell’UE e su quale Europa volere, come suggeriva Vaclav Havel “Se non saremo capaci di sognare una Europa migliore, non costruiremo mai una Europa migliore”.

Un voto che potrà evitare il futuro apocalittico disegnato nel videogame sulla post Brexit Not Tonight http://nottonightgame.com/, Regno Unito autoritario che costringe ai lavori forzati i cittadini europei e l’economia britannica a rischio game over.

Anche l’iniziativa Bandiere al Balcone #unabandieraueinognibalcone, promossa da EuropaNow! http://www.europanow.eu/, vuol far uscire dall’anonimato i cittadini che credono che l’Unione permetterà di confrontarsi alla pari con la Russia, la Cina e gli Stati uniti, evitando di essere a rimorchio dei capricci di Trump o di Putin e non trovarsi manipolati dal premier cinese Xi Jinping con la sua via della seta.

Scegliere un futuro ripiegato su se stessi o aperto, sovranista e individualista, perché i cultori del proprio giardino non possono fare l’interesse di una comunità o di quello europeista per non essere obbligati a scegliere partner scomodi e trovare delle politiche comuni per un benessere condiviso.

Gli europeisti potranno fare, se uniti, gli interesse degli europei, salvaguardare i diritti e i doveri di tutti, mentre i sovranisti-nazionalisti hanno solo un comune obbiettivo: depotenziare l’Unione europea per disgregarla e dissolverla negli egoismi.

Sovranisti in ordine sparso, senza avere altro interesse che instillare paura nei singoli elettori e non lavorare insieme, come ha dimostrato il disinteressamento di Viktor Orban e Marine Le Pen nell’incontro milanese promosso da Salvini, ma un coro di applausi e lodi quando si tratta di chiudere porti, innalzare muri e inneggiare a blocchi navali per rendere l’Europa una fortezza inaccessibile alle persone in fuga da conflitti e carestie.

Una fortezza, quella europea, che sarà espugnata se non aiuterà le persone che cercano un luogo dove vivere senza paura e dal 23 al 26 maggio i 400 milioni di cittadini europei voteranno per eleggere non solo il nuovo Parlamento europeo, ma anche quale futuro vorranno dare alle prossime generazioni, magari riflettendo ai moniti dei giovani sui cambiamenti climatici e su una Europa del libero scambio di idee e di merci.

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Qualcosa di più:

Europa: Il clima delle nuove generazioni
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Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa, fortezza d’argilla senza diplomazia
Erdogan, il pascià autocrate
Tutti gli errori dell’Unione Europea
Un’altra primavera in Europa

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