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Mancuso vs Odifreddi

Ascolto il giovane teologo Vito Mancuso nel dibattito/confronto con il matematico/razionalista Piergiorgio Odifreddi. In conclusione e alla fine del suo dotto intervento (ricchissimo di citazioni che fanno sempre grande impressione sull’incolto spettatore comune!) si giunge inevitabilmente all’eterna ennesima conclusiva frase:” la ragione dell’uomo, pur profonda, geniale ed onesta che sia non giunge né giungerà mai a comprendere Dio”. La ragione dell’uomo, qui, in questo mondo, non può incontrare Dio in una formula adeguata e definitiva. Di questa umana insufficienza lo sapevamo già e l’abbiamo proclamata tutti!

 

 

 

 

Del resto fa buon gioco alla replica dell’ateo scienziato che ha ragione (ragionevolmente!) di ridacchiare: “Troppo comodo! Quello che non riesci a spiegarti è Mistero. Troppo facile! A me interessa il mondo in cui vivo, non le ipotetiche divinità trascendentali di cui favoleggi!”

Troppo giusto; la ragione affascina sempre con la sua risolutiva concretezza; essa dà sempre risposte ragionevoli…anche queste però troppo comode. Già, perché non basta il cordone ombelicale dell’intelligenza umana per arrivare alle stelle, e non è neanche giusto dire: tutto quello che è incomprensibile fuori dalla mia porta non mi interessa, o peggio, è puro irragionevole caos!

Non è caos perché l’Ordine delle cose è sovrano e assoluto. Ogni giorno scienziati sbalorditi scoprono connessioni e concordanze di incredibile perfezione nel Mistero della realtà che ci circonda.

Un Ordine e una conseguenzialità che definire geniale è riduttivo: esso è Divino.

Del resto il teologo “alternativo” Mancuso si perde troppo nei meandri affascinanti di un Idealismo panteistico ce pure devia, come altri fecero, dalla necessità cristiana (Nascita, Morte e Resurrezione di Cristo), della dottrina della umana Redenzione.

Né ci conquista la risaputa parlantina (al solito un po’ sarcastica e presuntuosa) dell’ateo convinto Odifreddi. Dio è aldilà di qualsiasi dotta risposta. Ad ogni passo che la ragione fa’ verso di Lui, Egli si allontana anni-luce! Perché Dio è troppo lontano e troppo vicino, è in noi e nel senso del nostro esistere. Scoprirlo nel cuore e nelle ragioni dell’amore è l’unica utopia realizzabile dall’uomo.

Troppo semplice e troppo difficile: è per questo che Egli, come si disse, si manifesta più facilmente ai semplici di cuore.

Ai semplici, beninteso, non agli idioti!

Uomini e semidei

Fantascienza? Alieni? Universi paralleli? Buchi neri? … Sciocchezze! Cosa c’è di più incredibile dell’Umanità? … Venire al mondo: incredibile! Morire: inimmaginabile. La coscienza di esistere ci impedisce di concepire il Nulla.

La coscienza ci rende semidei e come tale è inconcepibile morire … Ecco che siamo eterni nell’Assoluto: ecco il miracolo. Siamo un pazzesco scherzo della Natura o siamo veramente figli di Dio: propendo per la seconda ipotesi.

Un filosofo un giorno disse: “Il vero assurdo è che noi esistiamo; sarebbe molto più ragionevole che non ci fossimo ….”

Ma che senso ha l’Oceano se nessuno mai lo attraversa?

 

Radioamatori: Una specie in estinzione

Il Radioamatore è una persona che, debitamente autorizzata, si interessa di radiotecnica a titolo puramente personale e senza scopo di lucro, che partecipa al servizio di radiocomunicazione detto d’amatore, avente per oggetto, l’istruzione individuale, l’intercomunicazione e gli studi tecnici“. G.U. n. 289 del 9/12/1992:

Nel 1995 i radioamatori italiani registrati erano 30.000, e ora? È dal 1995 che con l’avvento dell’internet c’è stato un calo drastico dei radioamatori. Prima dell’era della rete, l’unico sistema per potersi collegare e tenere uno stabile e facile collegamento senza spendere una lira in telefonate da e verso i cellulari era la radio (CB, VHF, UHF) (1), ma il rovescio della medaglia era una confusione generale e la mancanza di qualsiasi protocollo di trasmissione. Chi scrive ricorda i “baracchini”, radio abbastanza economiche in CB (la banda cittadina, senza bisogno di esami o patenti speciali), oggi usate quasi solo dai camionisti. Altro mondo invece quello dei radioamatori, che da sempre devono sostenere un esame presso il Ministero, hanno una regolare patente, un identificativo e sono obbligati a precise regole di comportamento, oltre a essere sempre a disposizione della Protezione Civile. Molti di loro con le radio ci hanno lavorato, quindi hanno una competenza specifica: prima c’erano le stazioni radiotelegrafiche dei porti, i marconisti sulle navi, gli operatori radio delle ambulanze, tutto un mondo superato dalla telefonia cellulare, dalle linee digitali e dal web. Oggi a un giovane non verrebbe mai in mente di spendere migliaia di euro per le apparecchiature, le antenne e le autorizzazioni richieste a un radioamatore, visto che può fare lo stesso con la normale chat di un iphone di seconda mano. E infatti, ad ascoltare le conversazioni dei radioamatori, si nota subito l’età matura se non avanzata di chi si collega la sera. Per parlare di cosa, poi? Per la maggior parte le comunicazioni sono tecniche: si usano sigle (QSO, QRP, etc.) (2), si parla di antenne, impedenze, frequenze, ponti radio; ma spesso si chiacchiera. Ad ascoltarle, le conversazioni tecniche sono utili e fanno da sempre parte della cultura radiantistica, ma le altre sono poco interessanti e tradiscono un basso livello culturale. Meglio a questo punto un web forum o un social. Ma neanche i radioamatori sembrano soddisfatti dell’attuale situazione. Cito da un loro forum:

“Questo pomeriggio facevamo un qso a 145,500 con un amico che mi ha visto crescere sia in sezione che come radioamatore. parlavamo dei nuovi sistemi digitali fm in 2 metri (c4fm, fusion dstar), che stanno creando un isolazionismo per chi non ne possiede una radio. se non hai una radio con questi sistemi (per me del tutto inutile tanto non ce mai traffico in 2 metri nei canali normali), sei tagliato totalmente fuori da questo mondo. il mio amico, radioamatore di vecchia generazione come me, mi ha confessato con tutta sincerità che non trova più lo stimolo di andare in sezione se non si parla di radio, esperienze e cose che accrescono la mente dei nuovi e vecchi radioamatori. brutta cosa. lui è stato Presidente di sezione per 2 mandati, e ne abbiamo avute esperienze assieme sia belle che brutte. suo papà era radioamatore nel 1960, ed è stato socio fondatore della sezione. Noi (i radioamatori) saremo una dinastia in via di estinzione come i dinosauri, spazzati via da nuovi modi di comunicare tra i giovani che cercano il dinamismo della comunicazione.”

I radioamatori hanno comunque una lunga storia. La loro prima epoca è quella dell’autocostruzione. All’inizio del ‘900 un manuale spiegava, in appena 100 pagine, come costruirsi un apparato trasmettitore e un apparato ricevitore per comunicare a distanze di parecchie centinaia di metri a linea di vista. In ogni caso per diversi decenni il radioamatore sapeva assemblare e riciclare parti di altre radio, adattare componenti, e in ogni caso aveva anche buone cognizioni di matematica. Si trasmetteva non sempre in voce, ma più spesso in Morse. La successiva rivoluzione tecnologica (dalle valvole ai transistor e poi ancora ai circuiti integrati stampati) fa sparire già dagli anni ’70-80 del secolo scorso le autocostruzioni e la sperimentazione: era ormai difficile intervenire su sistemi chiusi e assemblati in fabbrica; al massimo si poteva lavorare sugli accessori e sulle antenne. Gli apparati infatti diventano sempre più complessi e costosi, ma più potenti e performanti. Il radioamatore non ha più bisogno di elevate competenze tecniche, e neppure di conoscere il codice Morse. Il boom dei baracchini amplia la base dei radioamatori, ma – come nel turismo – alla quantità non si accompagna la qualità. Oggi infine siamo arrivati all’epoca della SDR, software defined radio. Gli apparati diventano dei computer che convertono la radiofrequenza in un flusso di dati (e viceversa in trasmissione), in modo da lavorare (filtrare, decodificare, ecc.) quasi esclusivamente su quel flusso. In un apparato, il lavoro che prima veniva fatto da un gran numero di componenti elettronici viene fatto ora da un software, con un risparmio notevole sulle parti fisiche e sul lavoro. In pratica, il radioamatore diventa concettualmente un informatico-matematico, e lo scopo non è più il mettere in contatto persone ma il trasferire dati fra computer (dati in cui ci può anche essere traffico voce). Unica discriminante con l’informatico: le antenne, che da sempre hanno acquisito le forme più diverse in funzione delle radiofrequenze. In più, un vantaggio esclusivo: per comunicare non c’è bisogno di un’infrastruttura esterna, e infatti i radioamatori garantiscono le comunicazioni anche quando salta la rete telefonica (si è visto negli ultimi terremoti). Quanto all’interoperabilità con l’internet, per ora è un valore aggiunto.

Note:

 

 

 

Achille Nero

La pratica cinematografica di fare interpretare dei personaggi di un film o di una serie televisiva ad un attore di un’etnia diversa non risparmia neanche l’Iliade di Omero: nel 2018 Netflix e la BBC trasmetteranno Troy: Fall of a City, rifacimento televisivo del celebre poema greco, con un Achille interpretato da David Gyasi. attore afroamericano già noto per i suoi notevoli ruoli in Interstellar e ancor prima in Cloud Atlas. Nella polemica seguita all’evento, sono stati confusi due piani diversi anche se correlati: la reinterpretazione del mito e il suo adeguamento alle differenze culturali subentrate al testo classico. Per il primo punto, nessuno può e deve dire niente: miti millenari sono stati reinterpretati centinaia di volte e con successo da artisti, scrittori e registi. E visto che si parla del colore della pelle, cito Orfeo negro (1959), lo stupendo film scritto da Albert Camus, dove il mito di Orfeo ed Euridice viene reinterpretato e ambientato nel carnevale di Rio. Per il secondo punto, il politically correct, la questione in realtà non è nuova. I poemi omerici hanno sempre goduto di grande popolarità, ma nella Francia del re Sole e del barocco di corte era imbarazzante seguire le gesta di sovrani che scannano montoni davanti all’ospite e guerrieri che si coprono di insulti. Questo urtava le convenzioni sociali del tempo, anche se non era colpa di Agamennone se era vissuto nell’età del bronzo, quasi tremila anni prima. Risultato? Le traduzioni in francese dell’epoca sono un capolavoro di diplomazia. Ma ancora quando facevo io il liceo si sorvolava sull’episodio di Telemaco che cerca di rendersi indipendente da Penelope, perché il linguaggio di un figlio verso sua madre era ritenuto irrispettoso! E sempre in quei tempi, nell’Eneide televisiva firmata da Franco Rossi (1971) all’unione del maturo Enea con la giovane Lavinia viene affiancata una sub-trama di un coetaneo che corteggia la fanciulla: una love story ipocrita che mette in secondo piano il rapporto fra Enea e Lavinia e la loro differenza di età. In realtà anche la vergine Maria era giovanissima, visti i costumi dell’epoca, ma questo il pubblico televisivo non l’avrebbe accettato.

E passiamo dunque al nostro Achille Nero. Ovviamente tale non poteva essere, visto che era miceneo. Fosse stato il capo dei Garamanti o dei Numidi o degli Etiopi (popoli africani già noti a Omero), allora era diverso. Ma ammettiamo pure che l’Iliade non è un documento storico, quindi del testo classico uno può farne quello che vuole: per un jazzista è normale improvvisare variazioni su un tema di Bach, il quale del resto faceva lo stesso con la musica del suo tempo. Il vero problema di Achille Nero è piuttosto la debolezza del progetto: la motivazione sembra tutta commerciale, allo stesso modo in cui anche la nostra pubblicità ora è piena di colori alla Benetton. Non saranno i lineamenti somatici di un attore ad interferire con gli amori, intrighi, tradimenti e battaglie del un kolossal a episodi, non per nulla annoverato come Historical fiction – Fantasy, girato a Città del Capo, in Sudafrica, impegnato a offrire il racconto, e non storia, della presa di Troia vissuta attraverso lo sguardo dei vari protagonisti, con il punto di vista della famiglia reale troiana. Se veramente avesse voluto reinterpretare il mito, il regista avrebbe potuto rappresentare sia il re Menelao che la bellissima Elena con la pelle scura, Paride essendo invece adatto a simboleggiare la prepotenza dello sfruttamento coloniale europeo. A quel punto la guerra di Troia sarebbe stata la stupenda metafora di un popolo che si riprende quello che altri gli hanno espropriato con la forza e con l’inganno. Ma questo è solo un suggerimento letterario. Purtroppo Bertolt Brecht non è più di moda.

 

Cantate un canto nuovo

“Cantate Domino canticum novum, cantate Domino omnis terra” (Salmo 96)

Nella mia parrocchia non conoscono il suono di un organo: a messa solo chitarre ed ora pure un bongo, percosso da un ragazzotto di provata fede. Sempre meglio di una parrocchia vicina, dove i neocatecumenali cantavano rumorosamente e in modo abominevole. E a questo punto mi chiedo a che serve il Pontificio Istituto di musica sacra e perché non chiuderlo (1). Aggiungo pure di far parte di una schola cantorum sfrattata da una basilica romana dal nuovo parroco, accolta ora in un’altra basilica e impegnata per tutto l’anno nelle liturgie solenni. Amo dunque la musica sacra, so cantare e ho un minimo di competenza in un paese dove pochi sanno leggere uno spartito e la scuola non educa alla musica. Detto questo, andate a messa la domenica in qualsiasi parrocchia romana e sentite cosa cantano e come: è un confuso repertorio di musica pop, canzonette, corali simil-luterani, brani di musical, salmi e inni vari, ora imparati a memoria, ora letti su un libretto promosso dalla CEI. I singoli brani sono numerati, ma non seguono l’anno liturgico (come nel Liber usualis) (2), la sequenza la decide di volta l’officiante, senza comunque ricorrere a quei tabelloni coi numeri che si vedono nelle funzioni dei protestanti. Ma quelli almeno sanno cantare: sono disciplinati, si sentono parte di una comunità e il corale protestante è schematico quanto facile da intonare, vista la sua origine popolare. Lutero aveva visto giusto e capiva di musica. La tradizione sia cattolica che delle chiese orientali invece previlegiava il canto gestito da un coro separato dall’assemblea dei fedeli, che comunque partecipava nelle formule responsoriali e ha localmente elaborato un ricco patrimonio di inni popolari, spesso legati al culto mariano. Tutto questo fino al Concilio Vaticano II (1962-1965) (Atti: Sacrosanctum Concilium, in sigla SC) e alla sua ossessione per la partecipazione. Senza addentrarci in una discussione teologica, ci limiteremo a constatare che l’evoluzione della musica liturgica è imprescindibile dalla riforma della liturgia, e in questo gli atti del SC sono fondamentali. Il principio di partecipatio actuosa (SC 14) è infatti una pietra miliare della riforma liturgica post-conciliare, anche se il primato sulla partecipazione era stato richiamato anche da documenti precedenti (3). Ripeto: non è il caso di entrare in una discussione teologica che richiede ben altra competenza. Mi limito pertanto a dire che, per quanto riguarda la musica che deve accompagnare la liturgia, nella pratica la partecipazione si è appiattita sull’omologazione e si è finito per impoverire ciò che il Concilio voleva invece arricchire. Nella pratica corrente il canto assembleare è divenuto la “traduzione simultanea” della partecipazione attiva. Tutto ciò che lo esclude si configura quindi come elemento in sé negativo perché in contraddizione “a priori” con  tale principio, quasi fosse un diaframma tra l’assemblea e l’officiante. La debole riflessione ecclesiale ha fatto il resto, contribuendo a determinare un progressivo degrado della prassi liturgico-musicale. Non cantare la liturgia, usando solo musica di consumo piuttosto che musica sacra, rifiutare di educarsi o di educare gli altri nella tradizione della Chiesa e nelle sue direttive, mettendo poco o nessuno sforzo per l’edificazione di un programma dignitoso di musica sacra è a mio parere un atteggiamento colpevole e anti-intellettuale. E quello che è più pericoloso, la liturgia ha subìto una deriva dalla spiritualità verso l’autoesaltazione emotiva, cosa che peraltro le chiese evangeliche sanno fare molto meglio, mentre in realtà i giovani cattolici  sono oggi i primi a cercare la spiritualità, un segnale preciso da non sottovalutare. Ma quando il mio parroco, giovane e capace pastore di anime, nella messa domenicale ha testualmente affermato che “la messa è un balletto”, invitando dunque i fedeli all’animazione della liturgia, nessuno gli ha replicato che la liturgia non è un musical, né un happening che celebra sé stesso, ma dovrebbe essere animata dalla fede e dalla celebrazione collettiva del mistero del sacramento, senza ricorrere a contributi esterni legati allo spettacolo più che alla spiritualità.

Ma le premesse erano diverse: si vedano in SC le disposizioni relative alla musica sacra e al suo rapporto con la liturgia. Le indicazioni generali dei paragrafi 114 e 115 (Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della Musica sacra […] Si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari […] ai musicisti e ai cantori, e in primo luogo ai fanciulli, si dia anche una vera formazione liturgica) sono suggellate dal paragrafo 116, intitolato specificamente Canto gregoriano e polifonico. Il paragrafo recita alla lettera “a)”:

La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale.

Malgrado le chiare indicazioni conciliari, nella fase successiva le conferenze episcopali hanno invece previlegiato un repertorio musicale estraneo al latino e al gregoriano, con forme vicine al pop e alla musica leggera, mettendo in secondo piano la cura del repertorio gregoriano che, pur ritenuto tradizionalmente solido, è invece scomparso dalla scena liturgica. Sono state dunque imposte nella pratica liturgica idee estranee al testo conciliare, troppo spesso con la complicità di una mancanza di vigilanza da parte del clero e della gerarchia ecclesiastica. Il patrimonio della musica sacra, che il Concilio aveva chiesto venisse preservato, non solo non è stato preservato ma è stato combattuto; e questo certamente contro il Concilio, che aveva chiaramente affermato ben altro. Purtroppo il dibattito post-conciliare si è sostanzialmente appiattito e impoverito nella contrapposizione puramente ideologica fra un gregoriano comunque indiscutibile e un gregoriano da eliminare del tutto, al punto di farne un estraneo in casa propria. In realtà, se pur tradizionale, il canto sacro non è esclusivamente il gregoriano, né è intangibile. E se la risposta ideologica è stata una congerie musicale non strutturata e di basso livello artistico, ancora più assurdo è che ancora nessuno abbia insegnato all’assemblea dei fedeli il canto corale. Eppure, dal Concilio a oggi vescovi e parroci hanno avuto ben cinquant’anni di tempo.

Ma scorriamo il canzoniere della mia parrocchia, ufficializzato dalla CEI: sono 170 pagine con il testo di 246 tra inni, salmi, canzoni e canzonette. La musica non c’è e s’impara a memoria, tanto nessuno la saprebbe leggere. Il legame armonico tra le parole e la musica è spesso casuale, segno che nessun musicista ha mai affrontato il problema. Le traduzioni degli inni dal latino sono sciatte, forse opera di un prete straniero: in un Sanctus stile spaghetti western “Hosanna in Excelsis” diventa un banale “Osanna nelle altezze”. Ma del Sanctus esiste anche una versione country , accompagnata da battiti delle mani e movimenti sincronizzati delle braccia. Partecipazione, d’accordo, ma a che cosa? Bisogna sottolineare che il magistero non richiede un’indistinta partecipazione di tutto il popolo nel canto liturgico, ma raccomanda un buon coordinamento di tutti, ciascuno secondo i propri compiti e ministeri, da cui “scaturisca quel giusto clima spirituale che rende il momento liturgico veramente intenso, partecipato e fruttuoso” (Giovanni Paolo II, chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo desiderio, 23 novembre 2003) (4). E proprio questo testo ci ricorda che la Santa Sede si è sempre occupata del problema, molti essendo i documenti dedicati alla musica sacra, dalla “Docta Sanctorum Patrum” (1324) di Giovanni XXII alla “Annus Qui” (1749) di Benedetto XIV, giù fino al Motu Proprio “Tra le sollecitudini” (1903) di San Pio X, la “Musicae Sacrae Disciplina” (1955) di Pio XII, e appunto il Chirografo sulla Musica Sacra (2003) di cui sopra. Interessanti poi gli interventi di papa Benedetto XVI, vista la sua reale competenza musicale: servirebbe un lungo articolo solo per darne una sintesi. Qui basta notare che il pensiero di Ratzinger – grande teologo e grande pontefice – non si limita alla musica liturgica, ma riconosce la musica come espressione dell’anima dell’uomo. Il suo non è un elogio formale e scontato, ma un contributo importante per lo sviluppo della dottrina sulla musica. Egli ricorda come con la riforma conciliare si fosse rinnovato l’“antichissimo contrasto” tra i sostenitori della musica sacra nella liturgia e i fautori della partecipazione attiva dei fedeli nelle celebrazione della fede con la loro maggiore semplicità, anche musicale. Proprio la liturgia celebrata da San Giovanni Paolo II in ogni continente ha mostrato “tutta l’ampiezza delle possibilità espressive della fede nell’evento liturgico” e, insieme, che la “grande musica della tradizione occidentale non sia estranea alla liturgia, ma sia nata e cresciuta da essa”. E con un valore, soggiunge, senza paragoni:

Si può dire che la qualità della musica dipende dalla purezza e dalla grandezza dell’incontro con il divino, con l’esperienza dell’amore e del dolore. Quanto più pura e vera è quell’esperienza, tanto più pura e grande sarà anche la musica che da essa nasce e si sviluppa “ … L’origine della musica è l’incontro con il divino, che sin dall’inizio è parte di ciò che definisce l’umano” (dal discorso del 4 luglio 2015 tenuto a Cracovia)

Un compendio è accessibile in un suo libro intitolato appunto: Sulla musica (5).

E passiamo a papa Francesco. Non è un intenditore come Ratzinger, ma nel 2017 scrive testualmente (6) :

L’incontro con la modernità e l’introduzione delle lingue parlate nella Liturgia ha sollecitato tanti problemi: di linguaggi, di forme e di generi musicali”:.. “Talvolta è prevalsa una certa mediocrità, superficialità e banalità, a scapito della bellezza e intensità delle celebrazioni liturgiche. Per questo i vari protagonisti di questo ambito, musicisti e compositori, direttori e coristi di scholae cantorum, animatori della liturgia, possono dare un prezioso contributo al rinnovamento, soprattutto qualitativo, della musica sacra e del canto liturgico”.

Tutto bene allora? No, se rileggiamo un capoverso iniziale:

emerge una duplice missione” per la Chiesa: da una parte, si tratta “di salvaguardare e valorizzare il ricco e multiforme patrimonio ereditato dal passato, utilizzandolo con equilibrio nel presente ed evitando il rischio di una visione nostalgica o archeologica” … “d’altra parte, è necessario fare in modo che la musica sacra e il canto liturgico siano pienamente ‘inculturati’ nei linguaggi artistici e musicali dell’attualità; sappiano, cioè, incarnare e tradurre la Parola di Dio in canti, suoni, armonie che facciano vibrare il cuore dei nostri contemporanei, creando anche un opportuno clima emotivo, che disponga alla fede e susciti l’accoglienza e la piena partecipazione al mistero che si celebra”.

Che vuol dire “visione nostalgica e archeologica”? Gregoriano? Più chiara la tesi dell’inculturazione, cara ai Gesuiti, dalle cui file papa Francesco proviene. Come si vede, più preoccupato che appassionato dal tema, egli auspica comunque la qualità. Quanto all’inculturazione, essa significa – se compresa correttamente – che noi dovremmo introdurre la cultura di ogni popolo nella liturgia. Ma non nel senso che la liturgia e la sua musica debbano divenire il luogo dove esaltare una cultura secolare. Essa è un luogo dove la cultura, ogni cultura, deve essere trasportata a un altro livello e purificata. E qui entriamo nel vivo: nel canto gregoriano come in quello delle chiese orientali – ma stavo per dire anche nel corale luterano – la parola di Dio si fonde indissolubilmente con la musica, entra in un’altra dimensione, si dispiega. La natura liturgica del canto sta nella sua capacità di strutturarsi in stili e forme precise, laddove nella musica di consumo (ma non nella musica popolare) il legame tra il testo e la forma musicale resta labile, né ha pretesa alcuna di trascendenza..

Chi deve cantare è un problema successivo. Ma se decidiamo che a cantare debba essere solo l’assemblea, a questo punto va condotta una seria alfabetizzazione musicale e soprattutto il clero deve dare più spazio ai musicisti, gli unici che possono indicare la strada per superare l’attuale degrado della musica liturgica. Detto questo, concludo la mia analisi con alcuni suggerimenti pratici, con la speranza che in parrocchia se li leggano e se ne discuta insieme:

  1. Se di musica si parla, vanno coinvolti i musicisti. E’ assurdo che coloro che hanno competenza e amore per la musica siano gli ultimi ad essere ascoltati, come se il loro parere non fosse invece fondamentale.
  2. A un volontario di coro parrocchiale consiglierei di provare a cantare tutti i quasi 250 canti contenuti nel libro degli inni, con la sola voce, senza chitarre o percussioni. Se ha un minimo di sensibilità musicale scarterà tutti quelli dove parole e musica mal si accordano, seguiti da quelli con testi troppo concettuali (quindi poco cantabili) o persino ambigui (p.es., Te lodiamo Trinità) e infine tutto quanto è Sanremo con le parole cambiate.
  3. Il canto liturgico deve mantenere un minimo di solennità, non è un musical.
  4. Com’è unitaria la liturgia, unitario dovrebbe essere anche il canto liturgico. Invece spesso si cantano in sequenza brani musicali diversi per stile e privi di un vero legame organico. L’insieme non è strutturato.
  5. Nel repertorio attuale, spesso gli intervalli tra le note sono spesso troppo ampi. Il corale luterano si canta con naturalezza perché il motivo è contenuto anche in una sola ottava e tra una nota e l’altra l’intervallo è minimo, mentre le canzoni in stile Sanremo sono riservate a cantanti professionisti, capaci di passare da un’ottava all’altra senza steccare e di passare dal basso all’acuto con naturalezza. Ma sono atleti della voce.
  6. Un’iniziativa elementare ma pratica consiste nel selezionare in ogni parrocchia almeno una voce guida. Una persona che abbia una bella voce, sappia cantare e leggere uno spartito e intoni per primo il canto, seguito dall’assemblea. E che sia capace anche di dare quelle indicazioni minime per cantare insieme in modo decente, visto che la pratica del canto corale è decaduta anche nella scuola primaria. Chiediamo troppo?

NOTE: