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Un Nobel in conflitto d’affari

Mai un riconoscimento come quello del Nobel, per l’impegno a favore della Pace, è stato tanto spudoratamente disatteso come sta avvenendo con il comportamento dell’Unione europea per la sua non decisione sull’embargo di armamenti verso la Siria. Qualche dubbio sull’opportunità di conferire quel riconoscimento all’Ue, motivato per il contribuito che aveva dato alla riconciliazione, alla democrazia e ai diritti umani in Europa, era stato comunque in precedenza sollevato, vista l’incapacità di fermare prontamente il massacro nei Balcani e l’aver ripetutamente taciuto sulle tragedie del Mediterraneo, oltre ad operare con una forza militare quale è Frontex per dissuadere l’umanità disperata di trovare in Europa un luogo dove vivere.

E’ con questi precedenti che la Ue ha dunque affrontato lo scorso 27 maggio a Bruxelles il nodo siriano, con i ministri degli esteri dei diversi stati, e ha pensato di risolverlo togliendo l’embargo sulle armi alla Siria. In prima fila a sollecitare le forniture militari all’Opposizione siriana ci sono la Gran Bretagna e la Francia che, constatando l’incapacità dell’Occidente a fermare il quotidiano massacro di civili che dura da due anni, hanno pensato di trarne profitto – come sta facendo la Russia – smerciando armi proprio ora che si entra nel vivo della preparazione per la Conferenza di Pace di metà giugno a Ginevra, l’appuntamento sembra slittare a luglio. Nel frattempo l’Opposizione siriana continua a discutere in riunioni interminabili, l’ultima delle quali si è protratta a Istanbul per giorni e giorni senza alcun risultato, per marcare la divisione tra posizioni laiche e islamiste.

Si continua a parlare di pace, ma tutti sembrano soffiare sul fuoco, trasformando la Siria autoritaria, con un’economia turistica stabile e una posizione geopolitica di garanzia nell’area mediorientale, in terreno di scontro tra sunniti e sciiti, tra Russia ed Europa, tra Cina e Stati uniti, tra laicità musulmana e islamismo. Creando sodalizi pericolosi come tra Iran e Iraq in una sorta di alleanza sciita per emarginare le altre componenti dell’Islam.

Per ora il campo di battaglia tra le due componenti islamiche si svolge cruentamente nel territorio siriano, con mercenari e fanatici che arricchiscono uno scenario circoscritto, ma la situazione ribolle in Iraq con la silenziosa mattanza quotidiana e nell’attiguo Libano con una complesso alternarsi di alleanze variabili. In più, combattenti stranieri in ambo gli schieramenti, fondamentalisti con Bashar al-Assad e con chi gli si oppone, mercenari e idealisti che si fronteggiano. In occasioni simili mai è risultato saggio affidarsi a mercenari per conservare il potere. Ma il fronteggiarsi di sunniti e sciiti (difficilmente comprensibile fuori dell’Islam) pervade gran parte del mondo islamico. In Iraq, al tempo di Saddam Hussein, era la minoranza sunnita a detenere il potere, ora i ruoli sono invertiti, con i sunniti a trovarsi limitati nei diritti e organizzare attentati. Nel Bahrein la minoranza sunnita controlla invece con autorità gli sciiti. E in Pakistan sono frequenti gli attentati nei confronti della comunità sciita.

Più semplicemente la Russia gongola, guardando la Ue che si divide, ambendo ad essere egemone nell’emisfero settentrionale, mentre la Cina scansa gli Stati uniti da quello meridionale. E dopo che il regime di Bashar al-Assad è stato continuamente foraggiato in armamenti da Russia e Iran, ora è la volta che l’Europa procuri armamenti adeguati a rendere più equilibrato lo scontro e accrescere le file di vedove e orfani. I contrasti religiosi e culturali sono un lucroso affare per i mercanti d’armi e un modo per risollevare dalla crisi l’Occidente che detiene la maggioranza della produzione bellica.

L’Europa nel suo non decidere unitariamente si dimostra incapace di mostrarsi come degli stati con un unico futuro. Non è la zona euro a essere in crisi, è l’idea complessiva dell’Europa, con rappresentanti succubi dei governi nazionali e una leadership opaca.

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La sostenibilità dello Sviluppo

Nella corsa allo sviluppo e nel tentativo di emancipazione dall’influenza nordamericana, archiviando la cosiddetta dottrina Monroe, i paesi sudamericani hanno spinto sulla crescita economica attraverso processi di industrializzazione e di costruzione di grandi opere nei quali, spesso, si sono manifestate evidenti contraddizioni in termini di violazioni ambientali e di diritti umani.

Stiamo parlando di un territorio – quello sudamericano – che concentra in sé quasi la metà delle foreste tropicali e sette dei venticinque ecosistemi più ricchi del mondo. È popolato da oltre cinquecentoventidue gruppi indigeni rappresentanti però, solo il 6% della popolazione totale, che invece si riversa negli agglomerati urbani (dopo il 1960 il tasso di urbanizzazione passa dal 50% al 75%) posizionando quindi tale Continente come il più urbanizzato del terzo mondo (il 30% della popolazione concentrata nelle periferie).

La costruzione di accessi di comunicazione terrestri o per acqua, il disboscamento, l’urbanizzazione, l’estrazione delle materie prime (minerali e idrocarburi), la coltivazione dei campi con monocolture intensive, la pratica della caccia (47 % delle specie animali sono catturate illegalmente), la promozione del turismo o la creazione di impianti industriali, se non affrontati in un’ottica ecosostenibile, creano danni non solo al territorio circostante ma di seguito al paese e conseguentemente all’equilibrio ecologico mondiale.

Ciò è facilmente intuibile soprattutto nel caso della deforestazione, che ha causato nel continente latinoamericano tra il 1990 e il 2000 la perdita  di 46,7 milioni di ettari di foreste e avanza, con una percentuale annuale doppia rispetto alla media mondiale, contribuendo così in modo sostanziale al cambio climatico e all’effetto serra.

Necessita invece di una maggiore riflessione l’analisi delle conseguenze relative allo sfruttamento dei campi per le monocolture e per i biocarburi, come avviene nel primo caso, nel “blocco” costituito da Argentina, Brasile, Paraguay e Bolivia che rappresenta il 68% dell’esportazione mondiale complessiva della soia e si sta affermando come il maggiore esportatore mondiale di questo cereale (“Mercosoya 2006”) e nel secondo, con la coltivazione della canna da zucchero in Brasile.

La monocultura, agroecologicamente parlando, nega la possibilità dello sviluppo di un’agricoltura adattata al ciclo biogeochimico terrestre comportando, quindi, un alto supporto di fertilizzanti, erbicidi, fungicidi i cui residui contaminano ed inquinano il territorio coltivato. L’intensificazione delle monoculture e dell’allevamento bovino in zone ecologiche,  come  ad esempio quella del  “Cerrado” e del “Chaco”, hanno causato la perdita delle caratteristiche ecologiche del territorio e delle riserve naturali di biomassa. All’impatto ecologico si aggiunge quello sociale derivato dalla riduzione dei campi disponibili per la produzione di alimenti.

La costruzione dell’autostrada trans-amazzonica e dell’idrovia Paraguay-Paranà hanno anch’essi influito sulla perdita della biodiversità.

Nella ricerca di fonti di energia alternative, obiettivo di per sé pregevole, il Brasile ha progettato di costruire una diga per la quale verrà modificato circa l’80% del corso del fiume Xingu, danneggiando di conseguenza gli abitanti di quell’area che verranno a trovarsi senza acqua. Peraltro, secondo studi dell’ INPA (Istituto amazzonico nazionale di ricerca), l’inondazione della foresta causerà la dispersione in atmosfera di enormi quantità di metano, un gas serra che è venticinque volte più dannoso dell’anidride carbonica.

Il rispetto ambientale è negato di fronte al miraggio dei profitti anche quando si parla di multinazionali nordamericane o europee operanti in territorio sudamericano. Alla luce del fenomeno già ampiamente dibattuto “del nuovo colonialismo economico” perpetuato dalle multinazionali, queste ultime hanno praticamente invaso i paesi in via di sviluppo, per sfruttare nuovi giacimenti minerari e d’idrocarburi e godere di enormi vantaggi, sia di tipo economico che tecnico: come la deregolamentazione sulle tematiche ambientali. Questo ha portato, proprio in America Latina, ad un aumento esponenziale della presenza di industrie estrattive che non hanno avuto scrupoli ad usare metodi poco ortodossi, a volte anche all’oscuro dei governi, e che molto spesso restano impunite.

Ma alcuni casi vengono alla luce: come quello della  lunga battaglia legale tra Chevron e gli ecuadoriani. Fortunatamente la Corte Suprema statunitense ha respinto la richiesta della Chevron per l’annullamento della sentenza ecuadoriana che richiede un risarcimento di 18,2 miliardi di dollari, emessa nel 2011 dopo 8 anni di indagini nella città  petrolifera di Lago Agrio. L’Ecuador ha dimostrato che erano stati versati più di 16 miliardi di galloni di greggio, fanghi e rifiuti tossici in Amazzonia, gravemente inquinanti per sorgenti, falde e corsi d’acqua e, a causa dei quali, sono state decimate tribù indigene della regione.

Una battaglia è stata vinta “penso che sia stata fatta giustizia”, afferma il presidente dell’Ecuador Rafael Correa, anche se come ha affermato la Corte d’appello “nessuna somma sarà sufficiente a riparare tutti i crimini che hanno fatto nella nostra zona, né sarà sufficiente a portare i morti in vita.”

Lo stesso Correa che intende affidare lo sfruttamento di una zona della foresta amazzonica ai cinesi, disinteressandosi degli indios che vi abitano.

La Cina è bramosa di ricchezze naturali e dopo l’Africa è la volta del continente latinoamericano ad essere visto solo come uno smisurato supermercato per soddisfare tutte le nessità di una popolosa nazione protesa ad acquisire il monopolio di ogni risorsa, in una sorta di Capitalismo di Stato autoritario globale.

Un’avidità che ha portato la Cina alla devastazione di parte del suo territorio e di quello africano per impegnarsi anche sul suolo sudamericano.

Nel caso della Famatina (Argentina, estremo nord della provincia di La Rioja) è la piccola comunità e non il Governo a lottare contro la corporation canadese Osisko Mining sensibilizzando l’intero paese fino a mobilitare manifestazioni davanti all’ambasciata canadese di Buenos Aires. La comunità della Famatina è riuscita, per il momento, a bloccare l’estrazione di oro nella megaminiera a cielo aperto: la multinazionale canadese utilizzava 10 tonnellate di cianuro al giorno per separare l’oro dalla roccia, con effetti devastanti non solo per la contaminazione dell’acqua della zona ma anche per tutto il territorio.

Come afferma Gustavo Carrasquel, ambientalista venezuelano: ”Oggi non c’è un governo in America Latina che stia realmente costruendo un progetto per il miglioramento delle condizioni ambientali nel proprio paese”.

C’è comunque da dire che ripercorrere il tema ambientale ed i principi dello sviluppo sostenibile, creando obiettivi di miglioramento ambientale, economico, sociale ed istituzionale, implica il tenere in considerazione le minacce o gli impatti ambientali in eco-regioni (178 “ecoregioni” identificate in America Latina e Caraibi) per lo più sovranazionali.

Veri e propri conflitti tra gli interessi del Capitale e quello delle comunità, non solo indigene, custodi di aree preziose a preservare le biodiversità, evidenziati nel sito della CDCA (Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali).

Le logiche dello sviluppo sostenibile seguono un’intricata rete di attori e problematiche, difficilmente rappresentabili in un quadro organico. Da qui la grande complessità e la necessità di promuovere un Piano di Azione Sovranazionale con un Fondo monetario ad esso univocamente destinato per bilanciare economie e diseconomie. È importante, altresì, una maggiore sensibilizzazione non solo a livello nazionale (pensiamo semplicemente alla gestione dei rifiuti nel territorio urbano), ma anche internazionale.

Nell’ambito delle Istituzioni a tutela o dei tavoli aperti dalle varie organizzazioni, l’approccio latinoamericano è caratterizzato da forme di integrazione sub-regionale e da una marcata tendenza al metodo intergovernativo, piuttosto che allo sviluppo di istituzioni sovranazionali.

Organizzazioni “storiche” come il Mercosur, la Comunità Andina delle Nazioni (CAN) e il Sistema dell’Integrazione Centroamericana (SICA), ma anche le nuove come l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR) e l’Alternativa Bolivariana per l’America (ALBA), coinvolgono aree più limitate rispetto alle grandi aggregazioni geografiche: un quadro composito di integrazione nel quale coesistono diversi raggruppamenti di paesi che rende difficile il perseguimento di politiche che coinvolgano efficacemente anche dimensioni extra regionali.

In questo panorama si inserisce la Conferenza sulle strategie per l’uso delle risorse naturali (Conferencia de la Unión de Naciones Suramericanas sobre Recursos Naturales para el Desarrollo Integral de la Región) che riunirà dal 27 al 30 maggio nella capitale venezuelana i membri dell’UNASUR. Una riflessione collettiva sull’importanza di un migliore utilizzo delle risorse naturali e del territorio, per uno sviluppo sostenibile in ambito sociale, economico, culturale, tecnologico e industriale.

I governi sudamericani saranno sufficientemente lungimiranti nelle scelte?

 

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Histria Antiqua

Son tornato in Istria in vacanza, e mi viene la curiosità di capire come era descritta dagli antichi greci la zona che va da Trieste fino a tutta la Dalmazia. Ho qui una copia di Antichi viaggi per mare. Peripli greci e Fenici, a cura di Federica Cordano (Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1992). Da questa antologia scelgo e cito testualmente dal Periplo del c.d. Pseudo-Scilace. Si tratta di un testo che probabilmente integra un nucleo originario con parti aggiunte anche due secoli dopo; pratica questa non infrequente nelle opere geografiche. Scilace era un esploratore al servizio di Alessandro Magno (sesto secolo a.C.), ma poco importa qui sapere se sia lui il vero autore del Periplo: la letteratura nautica è spesso cumulativa. Per scrupolo consulto anche un’altra edizione dello stesso testo, in inglese, curata dalla Università di Leicester nel 1992 e reperibile in rete. Non è pedanteria: la cito perché la trascrizione dei nomi diverge parecchio dall’edizione italiana e perché la corretta trascrizione dei nomi rimane un problema aperto. Purtroppo non ho sottomano un’edizione critica completa del testo in greco: l’edizione di Patrick Counillon (Bordeaux, 2004) si occupa solo della parte relativa al Mar Nero, che qui non ci interessa. Detto questo, chiariamo intanto cos’è un periplo: non è un portolano, ma piuttosto una descrizione delle coste. Tanto per capirci, un portolano descrive esattamente punti noti, secche, luoghi d’attracco e regime dei venti, mentre il periplo è più un’opera di geografia descrittiva. Il portolano serve dunque a chi naviga, il periplo è una piacevole lettura per chi resta a terra. Ecco dunque cosa scrive Scilace, il nostro greco: 19. Veneti. Dopo i Celti c’è il popolo dei Veneti. E nella loro terra scorre il fiume Eridano (cioè il Po).. La navigazione interna è di un giorno. 20. Dopo i Veneti c’è la popolazione degli Istri e il fiume Istro (il Danubio). Questo fiume sbocca nel Ponto (il Mar Nero), dirimpetto all’Egitto. 21. Dopo gli Istri c’è il popolo dei Liburni. Le loro città costiere sono Lia, Idassa, Attienite, Diurta, Alupsi, Olsi, Pedeti, Emioni. Essi vivono in regime matriarcale e le donne, mogli di uomini liberi, si uniscono anche ai loro servi e agli uomini del paese vicino. Ecco le isole, prospicienti queste terre, delle quali so dire il nome (ma ce ne sono molte anonime): Istri, lunga 310 stadi e larga 120, e poi le Elettridi e le Mentoridi. Queste isole sono grandi. Poi c’è il fiume Catarbate. La navigazione costiera della Liburnia è di due giorni. 22. Illiri. Dopo i Liburni si trovano gli Illiri, ed essi abitano la costa fino alla Chaonia <l’Epiro>, che è di fronte a Corcyra, l’isola di Alcinoo.<Corfù, in greco Kerkyra> e vi si trova anche una città greca, col nome di Eraclea; e vi abitano anche i Lotofagi, ritenuti barbari, cioè Ierastamni e Bulini. Confinanti con i Bulini gli Ilei. Questi poi dicono che il loro fondatore sia Illo, figlio di Eracle, eppure sono barbari. Abitano una penisola poco più piccola del Peloponneso. Dalla penisola si raggiunge <un’isola> stretta e lunga: vi abitano i Bulini. I Bulini sono un popolo illirico. La navigazione costiera del paese dei Bulini, fino al fiume Nesto, dura un giorno “lungo”. 23. Nesti. Dopo il Nesto la navigazione si svolge all’interno di un golfo. Tutto quanto il golfo si chiama Manio. La navigazione interna dura un giorno. E in questo golfo ci sono delle isole: Protera, Cratie, Olunte. Esse distano una dall’altra 2 stadi, e poco di più dalle dirimpettaie Faro e Issa. Infatti proprio qui si trova la nuova Faro, isola greca.; pure Issa è un’isola, ed entrambe hanno una città greca. Prima di arrivare al fiume Narone si costeggia un lungo tratto di costa che sporge parecchio in mare. E c’è un’isola vicina alla costa, che si chiama Melita, e un’altra isola prossima a quella, chiama Corcira La Nera. Questa seconda isola si allontana dalla costa, e con l’altro guarda la foce del Nesto. Essa dista venti stadi da Melita e otto dalla costa. 24. Mani. Dopo il paese dei Nesti si trova il fiume Narone, l’imboccatura della quale non è stretta, tanto che ci può navigare persino una trireme, e le navi mecantili possono arrivare fino all’emporio alto, che dista dal mare ben 80 stadi.. Vi abitano i Mani, che sono un popolo illirico. Vi si trova una grande laguna, e la laguna giunge fino al paese degli Autariati, anch’esso popolo illirico. All’interno della laguna c’è un’sola di 120 stadi, e l’isola stessa è molto adatta alle coltivazioni. E proprio da questa laguna esce il fiume Narone. Dal Narone al fiume Arione c’è una giornata di navigazione, e dall’Arione al fiume Rizunte una mezza giornata: qui si trovano i munumenti di Cadmo e Armonia, e neppure il santuario è lontano dal fiume Rizunte. Da questo fiume fino a Butoa la navigazione è pari a quella dell’emporio. 25. Encheli. Gli Encheli sono un popolo illirico e abitano la regione dopo il fiume Rizunte. Da Butoa fino ad Epidamno, città greca, per mare ci vogliono un giorno e una notte, via terra tre giorni. 26. Taulanti. Anche i Taulanti sono di stirpe illirica, e nel loro paese si trova Epidamno e un fiume di nome Palamno scorre lungo questa città. Da Epidamno si raggiunge la città greca di Apollonia. In due giorni di cammino.Apollonia dista 50 stadi dal mare e il fiume Aia bagna la città. Da Apollonia ad Amantia ci sono 320 stadi. (…) Cerchiamo adesso di mettere un po’ d’ordine, seguendo lo stesso ordine dei paragrafi: 19. Veneti. Sui Veneti poco da dire: esistono ancora, anche se anticamente erano cugini degli Illirii e simili a tutti i popoli indoeuropei venuti dalla zona della Turchia. L’Eridano è il bacino del Po. Le distanze qui son misurate in giorni di viaggio. Ma che s’intende per un giorno di viaggio? E’ grosso modo la stima che oggi farebbe un velista che si tenesse sotto costa e veleggiasse in condizioni climatiche buone, cioè con venti regolari o prevedibili. Anticamente si navigava dalla primavera fino all’inizio di ottobre. Nelle parti del testo integrate più tardi, le distanze son misurate anche in stadi (180 m.). 20. Istri. Il territorio degli Istri non pone problemi: l’Istria è un grosso triangolo ben caratterizzato geograficamente. Dopo gli Istri vengono i Liburni e, a seguire, Dalmati e Illiri. In realtà, prima della dominazione romana erano ancora liburniche anche le città istriane di Albona e Fianona, a oriente del fiume Arsa (lat. Arsia, croato Rasa) lungo la costa istriana. Qui i Liburni si sono trovati stretti fra Istri e Giapidi, un popolo che preme sulla costa dall’interno cone gli Slavi secoli dopo. Il fiume Arsa (lat. 45.0322 e lat. 14.0436) nasce dal monte Maggiore (Ucka in croato) e scorre in una specie di fiordo sul lato orientale dell’Istria fino a Barbana (Barban in croato). Albona (in croato Labin) esiste ancora (lat. 45.05N, long. 14.07E). Esiste anche Fianona (croato Plomin) (lat. 45.08 N, long..14.11E), abitata all’epoca per l’appunto dai Liburni Flanati. Il golfo del Carnaro o Quarnero (Qvarner in croato) era detto prima di Augusto Sinus Flanaticus. Ancora oggi è chiamata Istria-Liburnica la zona tra la Cicceria e il Carnaro, ed è ben delimitato dall’allungamento della catena del monte Maggiore, che si spinge fino a nord, fino alla strada che va da Trieste a Fiume, mentre a sud arriva per l’appunto al vallone di Fianona con la catena della Caldiera. 21. Liburni. Il territorio vero e proprio dei Liburni iniziava dal fiume Tibavio o Zedanio, che dovrebb’essere oggi un torrente presso Zerovniza a sud di Segna (croato, Senj, lat. 44.59N, long. 14.54E). Dal Tedanio si arriva costeggiando fino al grande fiume Tizio (Titius in latino, la Krka dei croati), che sbocca in mare a Sebenico/Sibenik e faceva da confine naturale con i Dalmati. Nel nostro periplo il fiume Tizio suona Katarbates (Kataibates nell’ed. Leicester). L’assurdo viene dopo: Lia, Idassa, Attienite, Diurta, Alupsi, Olsi, Pedeti, Emioni. diventano nell’edizione inglese Arsias, Dassatika, Senites, Apsyrta, Loupsoi, Ortopeletai, ed Heginoi (una in meno, tra l’altro). 310 stadi diventano 210, e così via. Se avessi tempo consulterei una buona edizione critica, dato che è evidente la corruzione del testo originale. Copisti ignoranti hanno trascritto i nomi come potevano. Ma quali sono i nomi veri? E soprattutto, a cosa corrispondono? Il suffisso -te è di certo liburnico (vedi Tergeste, Trieste) e Senites potrebb’essere Segna/Senj. Certo, i porti sono gli stessi da sempre, ma identificarli uno per uno sulla base di un elenco simile è azzardato. Più facile identificare le isole: Istri è per forza Cherso (Cres), viste le dimensioni, mentre Mentoridi ed Elettridi (lett. le isole dell’ambra, attraverso le quali passava il commercio del prezioso materiale nordico) sono per esclusione le altre: Veglia/Krk, Arbe/Rab, Pago/Pag e così via. Più quelle che all’epoca di Scilace non avevano nome. 22. Illiri. Agli Albanesi – sedicenti eredi degli antichi guerrieri Illiri – piace credere che il termine derivi da Iliret, uomini liberi, il che non è impossibile. Il fiume Nesto, che fa da confine tra Illiri e altri popoli più a sud, altri non è che la Narenta (Neretva). Il golfo Manio è il golfo di Spalato, ma sta più a nord.: il periplo ogni tanto non ha chiaro lo sviluppo reale della costa. I Greci vennero a contatto con gli Illiri più a sud – diciamo con gli antenati degli Albanesi – e hanno esteso il nome anche a popolazioni più a nord. Chi sono gli Ierastamni? Il testo edito da Leicester li chiama Iaderatenai, il che forse è più esatto: Iader era Zara e Jadran è tuttora il nome con cui i croati chiamano il loro mare Adriatico. Infine i Bulini. Sono sicuramente illirici, e sembrano abitare – almeno dalla descrizione – nella penisola di Sabbioncello/Peljesac. Eraclea è forse Corcira La Nera, ovvero Curzola/Korcula, almeno dalle monete col volto di Ercole ritrovate in zona. Stranamente non si parla di Epidauro (Ragusa vecchia, croato Cavtat). La Chaonia, confine sud degli Illiri, è l’Epiro. 23. Nesti. Melita/Mljet non pone problemi: non ha cambiato nome. Il golfo Manio è quello di Spalato/Split (vedi sopra). Cratie e Olunte sono oggi Brazza/Brac e Solta, mentre Faro e Issa sono Lesina/Hvar (<Pharos) e Lissa/Vis. Issa aveva evidentemente il digamma eolico, che suona “v”. La distanza tra le due isole è errata: non 2 stadi ma almeno 20. 24. Mani. Rhizon o Rizunte si riferisce alle Bocche di Cattaro. 25. Encheli. Epidamno è l’attuale Durazzo Butoa è oggi Budva. Il nome del popolo ricorda quello delle anguille(encheléai in greco). Forse era una comunità di pescatori. 26. Taulanti. Le rovine di Apollonia, oggi in Albania, sono visitabili. Era una colonia greca in terra straniera. Il fiume è l’attuale Voiussa.

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Una diversa Liberazione

Hugo Chavez è stato sconfitto dal cancro e l’ortodossia chavista non gode di buona salute. Non è riuscito a manipolare “democraticamente” la malattia e non solo il Venezuela ne sarà influenzato da questa morte, ma tutto il Sud America che ha guardato con interesse all’appuntamento elettorale.

Per sapere cosa succederà al Venezuela ora sarà necessario vedere Nicolas Maduro come affronterà la l’alzata di scudi del l’opposizione capeggiata da Capriles con la sua richiesta del riconteggio delle schede e se poi avrà la forza di portare avanti l’idea bolivariana del riscatto di uno stato e dell’intero continente Latino Americano.

L’ultimo desiderio di Chavez è stato esaudito dai venezuelani, ma con una timida maggioranza, ben lontana da un plebiscito chavista.

Maduro forse non ha lo stesso carisma di Chavez nell’infuocare le folle, ma ha la forza di continuare nell’opera di redistribuzione delle ricchezze che si misurerà con le sue capacità di guidare un paese emergente.

Il nodo principale è proprio la ridistribuzione della ricchezza proveniente dal petrolio che comporta per alcuni perdere parte della propria influenza in favore dei molti poveri.

Sarà stato benedetto dallo spirito di Chavez nelle spoglie di un passerotto, ma Maduro dovrà cedere il palco a Jorge Mario Bergoglio e gli altri capi di stato del Continente guarderanno al Papa venuto da lontano come possibilità di riscatto del Sud America

L’elezione dell’argentino Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio non renderà protagonisti solo i poveri, ma tutto il Continente Americano, come dimostra il suo rifiuto del lusso e la nomina di otto cardinali, di cui ben tre in rappresentanza delle terre d’oltreoceano, ai quali si rivolgerà per un consiglio nel guardare alle Americhe con estrema attenzione.

Un’elezione importante per il continente Latino Americano pari a quello che fu con Giovanni Paolo II per la Polonia e per tutto l’universo sovietico.

Quello che Chavez aveva iniziato nell’infondere l’orgoglio latinoamericano sarà portato avanti dal Papa che viene dalla fine del Mondo, ma con un respiro ecumenico, estraneo all’inflessibilità del cosmo militare.

Come cardinale Jorge Mario Bergoglio era impegnato nell’aiutare i poveri, come Papa Francesco darà voce agli ultimi ed evidenzierà l’importanza nel panorama internazionale della realtà sudamericana e del suo futuro come “patria grandè” echeggiata dagli eroi Simon Bolivar e Josè de San Martin.

Nel messaggio Urbi et Orbi davanti ad oltre duecentocinquantamila presenti in Piazza San Pietro il Papa dell’America Latina ha sintetizzato la sua idea di Mondo, con lo scongiurare le minacce alla vita umana e alla famiglia, condannando la tratta di persone, il narcotraffico e lo sfruttamento iniquo delle risorse naturali, invitando a essere “custodi responsabili del creato”.

Il nuovo vescovo di Roma sta indicando il futuro fatto di prossimità con gli altri e con il Pianeta, non solo in ambito teologico, ma come stile di vita sobrio, non austero e infelice, basato sulla conoscenza delle conseguenze di ogni nostra azione.

Nell’Ecuador di Correa si dovrà riflettere sull’affidare una porzione dell’Amazzonia alla Cina per lo sfruttamento delle risorse naturali, petrolio innanzitutto, cacciando le popolazioni indigene che vi vivono da secoli, come la tribù Kichwa, minacciando la Biosfera del Parco Nazionale Yasunì.

Un Papa che parla a tutti, nell’ambito del buon senso, per far riflettere le persone sul custodire e non sul possedere.

Non sono direttive dell’etica cattolica, ma della convivenza tra persone da poter adottare indistintamente nell’ambito di un condominio come nella geopolitica, per superare ogni divergenza.

Jorge Mario Bergoglio è un filosofo della vita e un Libertador degli ultimi e dei potenti, con il suo improvvisare con cognizione di causa sulla singolarità della felicità.

Il Papa Francesco potrà cambiare il Mondo senza obbligare nessuno, senza alzare la voce, solo con la serenità della sua voce.

Se Chavez era ritenuto el Libertador del Continente Latino Americano dalle maniere energiche che si sono dimostrate inefficaci contro la violenza, ora è la volta della pacatezza impegnata a rieducare ad un nuovo confrontarsi con il prossimo che potrà dare qualche frutto, offrendo un’alternativa alla devastazione dell’umanità.

Il prossimo appuntamento elettorale sarà in Cile con la ricandidatura di Michelle Bachelet alla presidenza.

 

Chavez Papa Francesco

Cultura al tempo della crisi

Serpeggia da anni il pensiero che ricollega la crisi dei beni culturali alla Legge detta di Ronchey, ma è ingiusto addossare tutta la responsabilità ad un solo uomo. Tanti sono i pregi di quella Legge, prima fra tutti di aver obbligato i musei a spolverare le loro collezioni, ma la sua applicazione ha permesso agli oscuri burocrati di dare il loro peggio estremizzando ogni visione privatista e autosufficiente del sistema museale.

Affidare alcuni servizi alla gestione privata può essere stato un incentivo per il pubblico, ma sicuramente è incomprensibile assegnare al privato l’organizzazione della Didattica. Un servizio quello della Didattica che non può essere un ambito dove si può confondere l’utente con il cliente. E proprio questa osmosi tra utente in cliente che è il vero nocciolo del cambiamento dei Beni Culturali da strumento di istruzione e conoscenza a giacimento culturali, al pari di una riserva di idrocarburi. Una visione stimolata dalla prorompenza “socialista” dell’era craxiana.

Da utenti a clienti è la vera questione dello svilimento della missione che a suo tempo era nel pensiero di Giovanni Spadolini quando “estrasse” dal Ministero della pubblica Istruzione oltre che le funzioni del Ministero degli Interni e della Presidenza del Consiglio dei Ministri gran parte delle competenze per la tutela dei Beni Culturali, intesi come musei, monumenti e ambiente, oltre che delle biblioteche e degli archivi.

Era la fine di gennaio 1975 e neanche vent’anni dopo Alberto Ronchey riesce a far approvare la Legge che porta il suo nome, aprendo a deviazioni liberaliste del patrimonio culturale, non solo aprendo all’iniziativa privata e al merchandising a tutti i costi, ma spalancando le porte all’idea di una cultura che possa produrre ricchezza per chi v’investe e non per chi ne dovrebbe usufruire.

Si è svecchiato il modo di gestire il patrimonio, ma non si è ritenuto importante riconoscere a tale patrimonio il ruolo educativo e di crescita. Un ruolo che i musei e le biblioteche dovrebbero svolgere per far conoscere a ogni cittadino la storia italiana.

I musei e le biblioteche non potranno mai autofinanziarsi, non vi riescono gli americani, ma possono creare ricchezza nel territorio. La soluzione non è nel manifesto lanciato nel 2012 dal Sole 24 Ore domenicale per una Costituente della cultura. La cultura non è un deodorante.

Il recente rapporto dell’EuroStat relega l’Italia nelle ultime posizioni in Europa per spesa pubblica dedicata alla scuola e alla cultura, ben lontana dal primo posto dell’Estonia che non ha come l’Italia oltre il 40% del patrimonio mondiale.

Forse il problema è che l’Italia continua ad avere troppo patrimonio, nonostante i crolli e il degrado nel quale versano. Dovrebbe avere meno per potersene prendere cura.

Un’analisi critica delle politiche culturali dell’Italia viene proposta da Tomaso Montanari nel suo recente libro Le pietre e il popolo (Minimum Fax), politiche basate su grandi eventi che poco hanno a che fare con un museo o un’area archeologica, trasformandoli in luna park o vetrine di moda solo per racimolare qualche euro per il restauro di un’opera o provvedere alla riparazione del soffitto.

Scelte che fanno transitare ancora di più il cittadino dall’essere utente a consumatore, non partecipi ma passivi alla vita culturale.

Il libro non è solo una critica contro la retorica del Bello che copre lo sfruttamento delle città d’arte, ma è un manuale di resistenza capace di ricordarci che la funzione civile del patrimonio storico e artistico è uno dei principi fondanti della nostra democrazia, e che l’Italia può risorgere solo se si pensa come a una “Repubblica basata sul lavoro e sulla conoscenza”.

Sul quotidiano La Stampa del 6 aprile 2013 un’inchiesta sui beni culturali, Bellezza, sprechi e scempi dei dodici gioielli d’Italia, tende a un certo ottimismo basato sul nostro patrimonio più conosciuto del centro-nord, tranne per un salto a Pompei e alla Reggia di Caserta che non sprizzano di salute, ma senza far menzione di Venezia o Bologna, come si ignora Napoli e Palermo.

Dodici musei e siti più visitati corredati da una scheda dei servizi e dove vi sono delle mancanze è il personale a sopperire con la loro disponibilità.

Luoghi di cultura con una missione, tra paradossi e occasioni perse, che difficilmente possono svolgere se l’ingresso è permesso solo attraverso i contanti, vedendo i visitatori come clienti e non utenti.

Realtà gestite con regole codificate e con la volontà di farle rispettare, senza tollerare i truffatori.

Lontano da ogni ottimismo è invece l’articolo Tutti i musei pubblici d’Italia guadagnano meno del Louvre di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera di cinque giorni dopo.

Anche da oltreoceano, e non è la prima volta, giungono critiche sulla cattiva gestione del patrimonio, coma ad esempio quello di Pompei con l’articolo The Latest Threat to Pompeii’s Treasures: Italy’s Red Tape, corredato dal video, del New York Times del 20 aprile. Un Tesoro, quello di Pompei che sta cadendo in disgrazia, minacciato dalla burocrazia italiana, dopo essere sopravvissuto alla distruzione del Vesuvio, agli scavi, per non dimenticare i traffici camorristici, e sopportato stoicamente i milioni di turisti.

Contemporaneamente il quotidiano britannico The Independent si domanda se la camorra sia la causa di tutti i problemi e crolli di Pompei o molto è dovuto all’insufficiente manutenzione. Una negligenza simile che accomuna Pompei ad altri monumenti come il crollo che ha coinvolto la Domus Aurea nel 2010.

La ricchezza dell’Italia non è solo Pompei che crolla o il Colosseo assediato dagli ambulanti, ma Selinunte o Alba Fucens, Sibari reduce da un allagamento o San Vincenzo al Volturno sulla via della transumanza, Buccino in Volcei o Aquileia, Pitinum Pisaurense o San Galgano

A cosa può servire in questa situazione svolgere il Forum Universale delle Culture a Napoli, sul quale peraltro i tagli sono calati come una mannaia?

Fortunatamente il fine settimana di metà aprile ha rivitalizzato il panorama culturale da due assemblee sul patrimonio comune come quella tenutasi a Roma presso il Teatro Valle Occupato per la Costituente beni comuni e il patrimonio culturale è un bene comune come l’acqua e l’aria, trovando giuristi e realtà sociali riunite per discuterne.

Mentre il dopo il voto e costruzione dell’alternativa economica è l’argomento a Firenze dell’assemblea che l’incompiuto soggetto politico denominato Alba (Alleanza per i beni comuni) ha riunito intellettuali tuttologhi e specialisti in vari campi, ma anche sindacalisti e politici, riafferma la sua esistenza con l’analisi sul risultato elettorale e sul governo Monti.

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