Art. 32 della Costituzione:La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
Già, ma quale legge? Bella domanda. Ma in Europa non va poi tanto meglio: in sostanza, se la pandemia ha giustificato ovunque interventi di emergenza e limitazioni della libertà individuale, resta il baluardo della vaccinazione obbligatoria.
In una lettera alla Commissione europea, il premier ellenico Kyriakos Mitsotakis chiede di creare un documento per identificare le persone immunizzate: in questo modo sarebbero libere di viaggiare, a beneficio dell’industria del turismo (1). Ungheria, Belgio, Danimarca, Spagna e Polonia sono a favore, mentre Francia, Belgio e Germania si oppongono. Nel mondo la situazione non è omogenea (2). Spostandoci sul privato, sono invece favorevoli le compagnie aeree internazionali, né c’è bisogno di spiegarne il motivo. In effetti, un documento sanitario unificato sarebbe pratico: garantisce uno standard di sicurezza certificato e abbrevia le operazioni di controllo alle frontiere. Si noti: nessun vaccino è obbligatorio; si spera piuttosto che così facendo la popolazione europea sia incentivata a immunizzarsi. Chi si è vaccinato e desidera viaggiare – la tesi di Mitsotakis – non dovrebbe più sottoporsi a quarantene e tamponi, vedendo quindi ripristinata la sua libertà di movimento, peraltro sancita dalla UE. Per la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è necessario trovare un “requisito medico che dimostri che le persone sono state vaccinate”. Ma guai a chiamarla tessera.
I motivi di tanta cautela? Elettorali. In Francia e Germania è diffusa sia la diffidenza e lo scetticismo verso il vaccino (è anche vero che si tratta di prodotti sperimentati da poco) che il fronte no-vax, quest’ultimo anche capace di manifestazioni violente. La questione intanto passa ai giuristi (3) e può essere così esemplificata: si mina il diritto alla privacy (parere del Garante europeo della protezione dei dati, il polacco Wojciech Wiewiórowski) e pone rischi molto alti in termini di coesione, discriminazione, esclusione e vulnerabilità. Ma se tutti avessero accesso al vaccino nello stesso periodo e con le stesse modalità sarebbe forse diverso? Chi non si vuole vaccinare sarebbe identificato per esclusione, e il Vaticano su questo non discute: il dipendente che rifiuta il vaccino rischia il licenziamento o comunque il declassamento di funzione. Il problema investe direttamente le prerogative dello Stato, che deve erogare lo stesso livello di servizi in tutto il territorio e nel contempo tutelare i cittadini senza discriminarli, anche se un medico o un infermiere che rifiutino il vaccino a mio parere sono solo degli asociali. In ogni caso, la mancanza di un passaporto vaccinale non impedisce ai singoli stati di bloccare l’accesso da singoli altri stati, lasciando quindi discrezionalità nella gestione delle frontiere e di fatto discriminando comunque chi non si è vaccinato.
La Brexit chiude le porte alla
manodopera non qualificata degli europei per aprire alla migrazione all’interno
del Commonwealth, magari per rifondare l’impero e vivere sulla finanza del riciclaggio
dei patrimoni arabi, russi e cinesi.
La Gran Bretagna si sta avviando a
scoprire se il suo malessere è dovuto all’Europa o alla tristezza di voler dare
la colpa agli altri.
C’è da domandarsi se con la fuga
britannica è opportuno lasciare l’inglese una delle lingue ufficiali della UE.
Ma soprattutto quale sarà lo status dei funzionari britannici che lavorano a
Bruxelles e a Strasburgo su progetti europei?
L’anacronismo dell’isolazionismo,
diminuirà le visite degli europei in Gran Bretagna, ma i britannici stanno
imboccando la strada dell’invisibilità nel contesto culturale, per godersi in
solitudine i fish and chips.
Con la Brexit è stato aperto il vaso di
Pandora degli attriti e delle rivendicazioni: dalla restituzione dei marmi del
Partenone ai greci alla sovranità di Gibilterra, dalle controversie
anglofrancesi sulla pesca alla volontà di quel 53% di britannici che hanno
sperperato il loro sentimento europeista su vari partiti.
Per la Gran Bretagna, i prossimi anni,
sarà l’occasione per scoprire se il malessere britannico sia dovuto ad una
contiguità all’Europa o alla tristezza di voler dare la colpa agli altri. Per
l’Unione europea sarà un’opportunità, come lucidamente spiega Enrico Letta in
una lettera a Repubblica (4 febbraio), di superare i veti britannici e
trasformarli in opportunità di crescita, fissando tre punti e una modifica
lessicale.
Sicuramente è l’armonizzazione fiscale,
il primo punto elencato da Letta, al superamento del sistema ibrido partorito
dal veto britannico, offrendo l’occasione di scardinare alcuni paradisi fiscali
all’interno della Ue, che ha creato una disparità di trattamento tra cittadini
europei con la medesima moneta.
Alcuni paesi praticano facilitazioni
fiscali a società che intendono investire, rendendo floride alcune economie a
discapito di altre, mentre altri praticano la “vendita” di passaporti europei,
previo esborso dalle 250mila ai 2milioni di euro. Una pratica mascherata da
investimenti, che apre le porte della Ue non solo a facoltosi russi, cinesi,
arabi etc., ma anche a infiltrazioni criminali ed a terroristi.
Scompaiono muri e confini, filo spinato
e polizia armata per chi ha a disposizione portafogli colmi di euro per
entrare, anche con cattive intenzioni, in Europa.
Non esiste una migrazione uguale
all’altra, come il sistema tributario o il sistema sociale o come anche
l’istruzione, un altro veto britannico, che la Ue è riuscita ad aggirare con il
progetto Erasmus e che Enrico Letta propone di aprirlo ai sedicenni, per essere
integrato nel corso di studi obbligatori a tutte le scuole europee. Un Erasmus
ampliato per facilitare non solo l’applicazione del principio comunitario della
“mobilità dei cittadini”, stimolando non solo la conoscenza delle
lingue, ma anche delle culture e dei differenti modelli di vita a carico del
bilancio europeo.
Il terzo ed ultimo veto preso in
considerazione è quello sullo stato sociale che rende l’Europa difforme nel
trattamento salariale, non solo una concorrenza sleale tra paese e paese nel
produrre a basso costo, ma anche uno sfruttamento della manodopera senza le
garanzie sindacali e con un welfare minimo unificato.
Il tema del salario minimo e del welfare
dovrebbe comprendere anche l’unificazione del trattamento pensionistico e
quello dei parlamentari.
Enrico Letta, con la sua lettera, prende
anche in considerazione una modifica lessicale, ponendo il problema di
percezione del cittadino rispetto al termine “Commissario” a quello
di “Ministro”, identificando il primo come prepotente, mentre il
secondo scelto come amministratore, scardinando la retorica sovranista e
anti-europea “di una Ue che, dall’alto, è prevaricatrice dei diritti e dei
comportamenti dei cittadini che stanno in basso”. Una scelta linguistica non di
poco conto.
La riflessione di Enrico Letta va ad
arricchire il piano di Ursula von der Leyen su una Green Deal europea per una
indipendenza non solo energetica, ma anche sulla produzione di qualsiasi
manufatto, per superare la dipendenza della delocalizzazione senza incorrere al
rallentamento economico come avviene durante i conflitti o per le epidemie, con
il blocco dei trasporti e dell’eterei benefici della globalizzazione.
Un’importante passo verso una coscienza
europea condivisa può rappresentare la formazione di una Forza armata europea,
per superare i bollori sovranisti.
La Brexit non è solo un’occasione per
ripensare all’Europa, è una riflessione sulla fragilità del sistema economico,
con l’interdipendenza della globalizzazione, messo in evidenza dal Covid-19 che
confini e muri non riescono ad argina questa vigorosa influenza.
Le società
“occidentali” sono indirizzate all’aiuto in “sede”, trasformando la solidarietà
in cooperazione e quindi in una occasione di stipulare contratti più con le
comunità che con i governi centrali che hanno dato dimostrazione d’inefficienza
e malafede nel gestire i cospicui fondi che organizzazioni internazionali e
singole nazioni hanno destinato allo sviluppo di certe aree fondamentalmente
ricche di risorse naturali.
Governi
corrotti impegnati ad impoverire le varie popolazioni per arricchire i propri
conti e che l’economista Dambisa Moyo mette sotto accusa, al pari degli stati
“donatori”, nel libro La carità che uccide (2011), sottolineando Come
gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo. Una spietata
analisi per sollecitare le nazioni a non distribuire soldi a pioggia, ma creare
delle partnership modello cinese.
In questo panorama di buone
azioni si inserisce la Cina che, avulsa dai sensi di colpa per decenni di
colonialismo, è ormai stabilmente presente in gran parte degli stati africani,
senza far differenza tra governi autoritari e dittatoriali, con la
realizzazione di infrastrutture ed industrie, raramente ecosostenibili, che con
un piano di investimenti da oltre 60 miliardi di dollari pongono una seria
ipoteca sul futuro sviluppo indipendente dell’Africa.
Un futuro dove la popolazione
si sente consigliata ad imparare il mandarino ed a cedere le loro terre per
coltivazioni gradite ai cinesi, ma senza i basilari diritti per i lavoratori.
Nel periodo
coloniale anglofrancese i nativi dovevano parlare in francese o in inglese e
coltivare cotone, caffè, tabacco, tè e così via, per ottenere la possibilità
d’istruirsi, vedere le prime ferrovie e fare i domestici nei comodi edifici
coloniali.
La Cina si
sta sostituendo all’Occidente nello sfruttamento africano e la differenza sta
nell’aver cancellato il debito ad una trentina di paesi, concedendo prestiti a
lungo termine a tassi bassi, ma in entrambi i colonialismi non si fanno
scrupoli nel procurarsi le materie prime a discapito dei diritti umani, della
rappresentanza sindacale e della difesa dell’ambiente.
Come un
pusher, la Cina, prima ti cancella il debito per poi prospettare altre forme di
collaborazione, allettando i Governi con il fantasmagorico progetto della
“Nuova via della seta” e fornendo infrastrutture in cambio di ricchezze
naturali, aprendo nuovi canali di credito pronti a lievitare e con un futuro
senza possibili di riduzioni.
Una politica
quella cinese, in questo nuovo sfruttamento dell’Africa, che ha aperto la via
ai paesi arabi, all’India e alla Turchia, nella cosiddetta strategia del soft
power, accattivandosi l’amicizia e magari la fiducia, attraverso la vendita di
tecnologie e formazione, illudendo i vari governi nell’astenersi ad
intromettersi nelle politiche dei singoli paesi.
Le trame cinesi si allungano
sul continente con l’adozione di 13 paesi della nuova valuta ‘ancorata’ allo
yuan cinese, decretando la fine del predominio francese con il franco CFA
(attuale acronimo di Comunità Finanziaria Africana), che porterà 350 milioni di
persone ad usarla nel 2020 e farà tanto felice Luigi Di Maio e Alessandro Di
Battista, allontanando il continente dall’Europa.
L’Occidente
continua a perdere e varie strutture private, fondazioni e Ong, sembrano aver
ispirato un nuovo modello di cooperazione allo sviluppo come strumento di
politica estera, magari con la Ue come capofila, con Exco (The International
Cooperation Expo) http://www.exco2019.com/
nel pensare e far conoscere “piccoli” prodotti che aiutano la vita in aree
sfavorite, rivolgendosi alle aziende ed alle istituzioni impegnate nella
ricerca scientifica, nell’innovazione tecnologica e nella formazione.
L’Italia, nel
suo piccolo, è il primo Paese europeo per investimenti, con complessivi 4
miliardi di dollari nel solo 2016 per un totale di 20 progetti, posizionandosi
al quarto posto dopo Cina, Emirati arabi uniti e Marocco.
La
collaborazione tra le diverse organizzazioni nel confrontarsi e mettere a
frutto le singole esperienze non è stata solo un’occasione di business, ma fa
capire che non è necessario varare grandi progetti per stimolare l’economia di
luoghi remoti. Coinvolgere l’infanzia nel rimboschimento o la costruzione di
una scuola è un passo per l’emancipazione delle comunità a costi irrisori.
Far conoscere
i lampioni mobili http://www.eland.org/
ideati da Matteo Ferroni per illuminare la vita delle comunità rurali del Mali,
paese attraversato da un conflitto, l’energia solare per i pannelli al liceo
Lwanga (Ciad) o il progetto Syria Solar, organizzato dall’Union of Medical Care
and Relief Organizations (UOSSM) https://www.uossm.org/who_we_are, per svincolare gli
ospedali siriani da una rete elettrica fatiscente e dall’utilizzo del diesel,
le cucine solari promosse da Magis https://magis.gesuiti.it/progetto/cucine-solari/,
la campagna “Più luce alla vita dei rifugiati” https://www.ikea.com/ms/it_CH/good-cause-campaign/brighter-lives-for-refugees/index.html
di Ikea Foundation e UNHCR per fornire illuminazione sostenibile alle famiglie
nei campi profughi, come anche le tende di ultima generazione http://www.abeerseikaly.com/weavinghome.php,
sono solo alcuni esempi per non lasciare il campo ai mega finanziamenti come
quello per la nave estrazione diamanti in Namibia o quello per il commercio del
gas in Mozambico che non aiutano la popolazione, come dimostra la ricchezza
petrolifera in Nigeria di esclusiva pertinenza di un ristretto gruppo
politico-affarista.
Progetti
ambiziosi come quello legato all’impianto idroelettrico della diga Gibe, sul
fiume Omo, che si è rivelato fallimentare e che doveva anche favorire la
coltivazione intensiva di canna da zucchero, ma che ha per l’ennesima volta
sfavorito le popolazioni indigene, obbligate ad abbandonare le loro terre e
costrette alla fame.
In questo
panorama di esclusione delle popolazioni all’accesso alle ricchezze si
inserisce l’elezione del vice ministro dell’agricoltura e degli affari rurali
cinese alla carica di Direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni
Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao) http://www.fao.org/news/story/it/item/1199205/icode/,
che rafforza a tutti i livelli la presenza cinese, non solo in Africa, per
indirizzare le economie dei paesi in cerca di uno sviluppo autoctono.
L’intervento
della Fao, sino ad ora, si è dimostrato timido e con grandi studi di settore,
ma forse il nuovo direttore sarà attento alle necessità delle comunità, facendo
tesoro dell’esperienza delle piccole realtà nella realizzazione di orti
comunitari e banche dei cereali, svincolando le comunità dai capricci dei
potenti e magari sostenere la formazione di ragazzi e ragazze alla coltivazione
del Pleurotus Ostreatus, un fungo che cresce in Africa occidentale, o nei
progetti di piscicoltura, per renderli economicamente indipendente.
Un direttore
che ha annunciato di far lavorare l’elefantiaca struttura, con la speranza che
scelga di sostenere quelle iniziative che non richiedano impegni
finanziari milionari e di non essere il cavallo di Troia della finanza
internazionale.
Uno sviluppo
che l’Occidente, ancorato al suo senso di colpa, continua a contribuire con
l’elargizione di soldi sino a quando trasformerà le sue “buone
azioni” in una fruttuosa cooperazione per entrambe le parti.
Partnership
difficilmente realizzabili in aree di conflitto come nella R.D. del Congo
sconvolto da scontri etnici, come in Etiopia e nella Repubblica
Centrafricana, come gli scontri separatisti anglo-francofoni in Camerun e in
Sudan con i militari che non mostrano di dare una svolta democratica alla
destituzione di Al Bashir e in Malì e in Burkina Faso dove i jadisti
fanno vivere la popolazione nella paura, come anche in Nigeria con i saccheggi
e i rapimenti di Boko Haram e la presenza di varie missioni militari nei
diversi stati riescono appena a contenere la violenza e sono ben lontani a
stabilizzare la situazione.
Conflitti
che alimentano le fughe e l’Occidente non potrà continuare ad erigere muri,
rinviando una scelta condivisa per attrezzarsi all’accoglienza e renderla una
ricchezza.
Molto prima delle elezioni europee la comunità del web si è interrogata sul senso dell’identità europea, a prescindere dall’immagine negativa percepita da chi vede nella UE solo un’eletta di burocrati e tecnocrati concentrati sull’economia e sulle regole, ma poco comunicativi con l’Europa dei popoli. Ma nei siti diciamo identitari l’immagine dell’Europa è mitica più che storica, icona di una comunità più sognata che reale, legata a una società preindustriale. A guardare anche superficialmente questi siti, intanto si direbbe che il Mediterraneo è totalmente escluso da un’Europa nordica e continentale. Volti, paesaggi, usi e costumi rimandano al repertorio del Sacro Romano Impero o del Reich millenario, dimenticando un grande imperatore come Federico II di Svevia, l’unico che ha realmente cercato di integrare nord e sud d’Europa. Vero è che nell’UE egemonia franco-tedesca si è sempre imposta sugli altri paesi, ma questa visione mitologica non fa altro che marcare l’esistente invece di ricrearlo. Il messaggio è emblematico: il sud dell’Europa non partecipa da protagonista all’identità europea, il che dimostra che certi pregiudizi datano dai tempi dei Franchi e Longobardi. Eppure la parola Europa parte da sud, è fenicia (Ereb, occidente). Europa era la figlia di Agenore re di Tiro, città fenicia oggi in Libano. Zeus, innamoratosi di lei, decise di rapirla e si trasformò in uno splendido toro bianco. Mentre coglie i fiori in riva al mare, Europa vede il toro che le si avvicinava. E’ spaventata ma il toro si sdraia ai suoi piedi ed Europa, tranquilla, vi sale in groppa. Ma il toro si getta in mare e la conduce fino a Creta, dove Zeus si ritrasforma in dio e le rivela il suo amore. Avranno tre figli: Minosse, Sarpedonte e Radamanto. Il senso del mito è che la civiltà arriva dal Medio Oriente, ma una volta traversato il mare quella cultura si sviluppa con una vita propria.
Ora,
se il mito di Europa è greco, il concetto di Europa risale al medioevo; prima
era tutto Imperium Romanum e il termine geografico per i greci indicava in modo
generico una terra a nord del Mediterraneo, dai confini ancora indefiniti. Il
primo a usare il termine è a fine del VI secolo l’abate irlandese San
Colombano, futuro fondatore dell’abbazia di Bobbio, che lo cita (tutus Europae)
in una delle lettere al papa Gregorio Magno. Il termine lo usa anche il monaco
Isidoro Pacensis, per indicare i soldati di Carlo Martello che avevano
combattuto a Poitiers (prospiciunt Europenses Arabum tentoria, nescientes
cuncta esse pervacua). La battaglia aveva assunto infatti un grande valore
simbolico: l’Occidente cristiano, idealmente rappresentato dall’Europa, aveva
fermato l’espansione araba; e quindi Isidoro usa l’aggettivo
“europeo” per attribuire un’identità collettiva ai guerrieri franchi
che avevano fermato gli invasori musulmani. E infatti l’Europa politica nasce
con l’impero di Carlo Magno, all’inizio del IX secolo, realtà che riunisce
simbolicamente popoli romani, celti e germanici, sotto la guida dell’Imperatore
e del Sommo Pontefice. Peccato che si ignorasse l’Impero Romano d’Oriente, che
pur è durato mille anni ed era ben più solido del Sacro Romano Impero.
Tornando
però ai nostri siti web, alcuni vanno più indietro: la vera Europa non è
cristiana, ma pagana, ancestrale. L’iconografia è un misto di Nibelunghi e
Trono di Spade, fra rune naziste, rudi guerrieri e bionde fanciulle in un
paesaggio cupo e boscoso che fa rimpiangere il trascurato Mediterraneo. E se
l’Europa è un continente che possiede una massima diversità culturale in
distanze geografiche minime, questi siti misticheggianti esaltano l’identità
europea non accogliendo o assimilando la varietà, ma operando solo per
esclusione, esaltando un cupo nordismo e mostrando famiglie patriarcali,
guerrieri scorciati dal basso, uomini inseriti in un’economia contadina e una
cupa vegetazione forestale, in mezzo a simboli runici ossessivamente ripetuti.
Da un punto di vista elettorale, ci si può anche chiedere quanta presa possono
avere queste immagini sulle masse inurbate che vivono nelle periferie delle
metropoli piuttosto che nelle province del continente o nelle comunità locali
isolate, serbatoio di voti per i partiti c.d. sovranisti (1). Sui motivi di
questa immagine neopagana e paleoecologista in stile Frei Korps Kultur si
potrebbe discutere, ma è probabilmente anche una reazione alle politiche
cattoliche di accoglienza dei migranti e di dialogo con l’Islam che papa
Francesco porta avanti quasi in modo ossessivo, provocando l’ostilità o almeno
la diffidenza dei cristiani più conservatori e non solo di quelli, visto il
successo dei partiti europei “sovranisti”.
Si è parlato di Islam. Ebbene, abbiamo scoperto che per ogni sito razzista europeo che incoraggia la maternità ariana ce n’è parimenti uno islamista o africanista che sogna unioni con bionde fanciulle da usare come fattrici per sommergere la vecchia Europa con nidiate di bimbi musulmani e donne convertite al velo. Gli stilemi ricordano una certa pornografia e sono anche pieni di minacce e profezie, le quali danno solo una giustificazione o almeno un appiglio ai teorici del complotto della sostituzione razziale e religiosa, altro mito che fa tutt’uno con il complotto mondiale dei banchieri. Ma si sa, in rete tutto è permesso. L’importante è che chi vota usi anche il proprio cervello
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NOTE
La
differenza fra nazionalismo e sovranismo potrebbe essere così
definita: il nazionalismo tende ad aggregare popoli etnicamente e culturalmente
affini, mentre il sovranismo crea un’identità mitologica esclusivamente per
sottrazione, escludendo non solo i diversi ma persino gli affini.
Sono un monito per tutta Europa le traversie che sta affrontando il governo britannico per esaudire il risultato del referendum consultivo indetto da Cameron nel 2016, del quale non si è mai pentito, per allontanarsi dall’Unione europea. I britannici stanno scoprendo di avere una economia debole, con dei politici incerti che rendono l’uscita dalla Ue un percorso ad ostacoli, tra hard e soft, che li sta portando ad eleggere, tra il 23 a il 26 maggio insieme ad altri 27 paesi, i suoi parlamentari a Strasburgo.
Quello che la premier britannica si è trovata ad affrontare è un percorso accidentato, dove nessuno voleva arrivare ad un compromesso, con il risultato di una polarizzazione degli schieramenti che ha fatto crescere, nelle elezioni locali e parziali del 2 maggio, i partiti europeisti “minori” ed il rinato euroscetticismo di Nigel Farage con il suo Brexit Party, ex Ukip, punendo i Conservatori della May e i Laburisti di Corbyn, con un complessivo 30%, per i loro tentennamenti.
I risultati delle elezioni amministrative britanniche, quelle politiche spagnole, quelle presidenziali in Slovacchia con l’elezione di Zuzana Čaputová ed anche il vigore dell’opposizione in Polonia, fanno ben sperare in un nuovo spirito europeista.
Un europeismo da riscoprire anche grazie alla campagna antiastensionista Stavolta votohttps://www.stavoltavoto.eu/, varata dal Parlamento europeo, per riflettere sul futuro dell’UE e su quale Europa volere, come suggeriva Vaclav Havel “Se non saremo capaci di sognare una Europa migliore, non costruiremo mai una Europa migliore”.
Un voto che
potrà evitare il futuro apocalittico disegnato nel videogame sulla post Brexit Not Tonighthttp://nottonightgame.com/,
Regno Unito autoritario che costringe ai lavori forzati i cittadini europei e
l’economia britannica a rischio game over.
Anche
l’iniziativa Bandiere al Balcone #unabandieraueinognibalcone,
promossa da EuropaNow!http://www.europanow.eu/,
vuol far uscire dall’anonimato i cittadini che credono che l’Unione permetterà
di confrontarsi alla pari con la Russia, la Cina e gli Stati uniti, evitando di
essere a rimorchio dei capricci di Trump o di Putin e non trovarsi manipolati
dal premier cinese Xi Jinping con la sua via della seta.
Scegliere un
futuro ripiegato su se stessi o aperto, sovranista e individualista, perché i
cultori del proprio giardino non possono fare l’interesse di una comunità o di
quello europeista per non essere obbligati a scegliere partner scomodi e
trovare delle politiche comuni per un benessere condiviso.
Gli europeisti
potranno fare, se uniti, gli interesse degli europei, salvaguardare i diritti e
i doveri di tutti, mentre i sovranisti-nazionalisti hanno solo un comune
obbiettivo: depotenziare l’Unione europea per disgregarla e dissolverla negli
egoismi.
Sovranisti in
ordine sparso, senza avere altro interesse che instillare paura nei singoli
elettori e non lavorare insieme, come ha dimostrato il disinteressamento di Viktor
Orban e Marine Le Pen nell’incontro milanese promosso da Salvini, ma un coro di
applausi e lodi quando si tratta di chiudere porti, innalzare muri e inneggiare
a blocchi navali per rendere l’Europa una fortezza inaccessibile alle persone
in fuga da conflitti e carestie.
Una fortezza,
quella europea, che sarà espugnata se non aiuterà le persone che cercano un
luogo dove vivere senza paura e dal 23 al 26 maggio i 400 milioni di cittadini
europei voteranno per eleggere non solo il nuovo Parlamento europeo, ma anche
quale futuro vorranno dare alle prossime generazioni, magari riflettendo ai
moniti dei giovani sui cambiamenti climatici e su una Europa del libero scambio
di idee e di merci.
Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti