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Clima: Quando un virus limita l’inquinamento

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Il virus che mette a dura prova le capacità dell’umanità nel fronteggiarlo, porta anche a riflettere su quest’epoca Antropogenica ed al rapporto che le persone hanno maturato in questi anni con la natura. Non si può ignorare che alcune settimane di blocco delle attività abbia ripulito l’aria e che nelle città sia la fauna, più che la flora, a riappropriarsi degli spazi urbani che l’invasività della presenza umana ha relegato nella clandestinità.

Sul Covid-19, più noto come Coronavirus, si sono fatte molte ipotesi sulla sua apparizione nella vita quotidiana delle persone e tra queste quella della ribellione della natura alla prepotenza antropocentrica.

Un’ipotesi da prendere in considerazione dopo che la NASA ha pubblicato delle foto satellitari della Cina di gennaio 2020 che confrontate con quelle di febbraio evidenziano  una nuvola rossa dell’inquinamento che in un mese si è ridotta significativamente.

Una pandemia che ha portato al blocco delle attività, all’isolamento di intere città , con milioni di persone segregate in casa, portando a riflettere sul futuro del Pianeta e fare delle consapevoli scelte per non essere vittime della nostra incapacità di ripensare al modello di vita fino ad ora perseguito.

Qualche anno fa era comparso sugli schermi una serie televisiva della CBS basata sull’omonimo romanzo di James Patterson, dal titolo Zoo. La serie preconizzava una pandemia che infettava gli animali in varie parti del mondo, facendogli assumere comportamenti aggressivi verso l’uomo.

Con gli odierni virus gli animali non aggrediscono, ma fanno da silenti vettori, come monito per un periodo sabbatico da dedicare all’ambiente, perché il problema era la normalità e tornare alla sbandierata normalità non potrà essere uguale a quella sconvolta dal coronavirus.

Basterebbe, senza intraprendere svolte radicali, far tesoro della pubblicazione Laudato si’ che papa Francesco ha dedicato al rapporto dell’uomo con la natura, richiamando alla sobrietà per non essere travolti dal consumismo e dallo spreco.

Per questo sarebbe opportuno tenere presente il punto:

95. L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti. Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti. Se non lo facciamo, ci carichiamo sulla coscienza il peso di negare l’esistenza degli altri. Per questo i Vescovi della Nuova Zelanda si sono chiesti che cosa significa il comandamento “non uccidere” quando «un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere».

Non si deve soccombere ad una decrescita imposta da una pandemia, ma essere guidati verso un altro stile di vita, la prossima normalità non sarà come quella passata e dovremmo essere consapevoli delle conseguenze che le nostre azioni avranno sul Pianeta , nel quale vorremmo vivere in un modo diverso.

Un Pianeta che non preveda, come nel documentario“Tiger King”, trasmesso da Netflix, lo sfruttamento degli animali selvatici in via di estinzione ed in particolare il confinamento della Natura in spazi sempre più angusti.

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Una Roma distopica

Diciamolo: tutte queste immagini di Roma e delle città italiane deserte ci piacciono: esteticamente perfette, ci riportano a una visione astratta dell’arte, del paesaggio, dell’urbanistica. E’ l’Italia delle vecchie foto Alinari, dove l’elemento umano è un puro accidente. Roland Barthes già notava in Miti d’oggi che nelle guide blu Michelin città e monumenti vivono nell’assoluto (1) e lo stesso vale per le guide del Touring Club Italiano. Ma piace anche l’idea di una metropoli invasa da cinghiali, anatre selvatiche con paperotti al seguito e magari le capre che brucano l’erba che cresce tra i sampietrini: Madre Natura si sta riprendendo quello che le appartiene e fa piacere vedere i delfini a Trieste, a Venezia e a Salerno, o l’acqua del Po di un colore diverso. Se un barile di petrolio vale oggi meno di un dollaro, vuol dire che tutto è fermo. Ma assai prima del compiaciuto moralismo ecologista (al quale Greta Thunberg finora non si è associata) ci sono state nei secoli centinaia di riflessioni morali sulle rovine della Roma imperiale: a partire dal Medioevo, viaggiatori e pellegrini confrontano fino alla noia la visione dell’Urbe deserta e degradata con la nuova Roma cristiana risorta dalle ceneri pagane. Altrettanto scontata è la visione del’epidemia come castigo biblico per i nostri peccati, stavolta anche ecologici. Ma ora si è aggiunta una variante: le ricche chiese evangeliche americane e alcuni settori ultraconservatori cattolici vedono nella solitudine di Papa Francesco in piazza san Pietro la punizione divina per il pontefice eretico, socialista e anticristo. Niente di nuovo, visto che l’AIDS fu considerato il castigo divino per Sodoma ma non per Gomorra. Stupisce però che un gesto simbolico così forte come quello di Papa Francesco sia stato interpretato ora in modo laico – per Sgarbi è il fallimento della religione (2), ora in modo paranoico, anche se certe correnti religiose non sono nuove a interventi estremi, al limite del patologico. Diversa la reazione islamica: all’epoca delle conquiste l’epidemia riguardava le affollate città infedeli (quindi era meritata) e in seguito – quando toccò a loro – fu vista come equivalente alla morte in guerra o volontà divina (3). Come si vede, le metafore belliche oggi tanto frequenti non sono nuove: la malattia rimanda alla debolezza umana, la guerra al sacrificio collettivo per la vittoria finale. Ma le grandi religioni oggi sembrano più caute: anche se per l’ISIS la pandemia è il flagello contro gli infedeli, questo non rappresenta il pensiero di tutti gli islamici. Piuttosto, le grandi religioni monoteiste si stanno responsabilmente adeguando a tutte le disposizioni sanitarie, ma promuovendo nel contempo la preghiera in casa, la meditazione personale, la fratellanza universale e l’armonia con la natura; in sostanza, una forte spiritualità svincolata dalla rituale riunione collettiva dei fedeli. E come negli anni passati la Radio Vaticana diffondeva in tutto il mondo il messaggio del Papa, oggi ben altri mezzi telematici permettono la partecipazione collettiva al positivo messaggio di speranza.

Ma torniamo all’immagine di Roma come non l’abbiamo mai vista. Tra tanti video ne voglio valorizzare uno, breve (3 minuti), girato il 14 marzo, senza droni e in un quartiere – Testaccio, Porta Portese – diverso dalle solite cartoline. L’ha girato Roberto Di Vito, un videomaker romano indipendente, autore anche di medio metraggi, il migliore dei quali è “Bianco” (2011, 78”) (4). Non è la solita carrellata sulle piazze e i monumenti di una Roma stupenda perché deserta; ricorda piuttosto certe sequenze del regista sovietico Tarkovskji o del suo allievo Lopushanskj, caratterizzate da ambienti reali resi alieni dal disuso, svuotati della presenza umana. Vediamo dunque il video “Emergenza Coronavirus.

Le immagini sono drammatiche, evocatrici, efficaci nella loro essenzialità, quasi prese di peso da un film di fantascienza. Eppure la videocamera inquadra elementi reali, banali, i quali riescono stranamente a trasformare un video di tre minuti in un documento storico mai visto prima. Inquietante la voce fuori campo che grida: ” Dove sei? Dove sei amico. Vieni qui“. Non sappiamo chi la pronuncia e perché, ma risuona in un vuoto. Ma è un vuoto metafisico, simbolicamente saturo. Tutto questo è ottenuto con mezzi poveri, essenziali, da vero regista indipendente: il valore aggiunto viene prodotto attraverso un procedimento per sottrazione. E qui Di Vito è coerente: continua un discorso iniziato con “Ai confini della città” (1998, 34”), amaro apologo di una civiltà e di più generazioni allo sbando, all’interno di una Roma inedita, svuotata, pronta alla desertificazione che avverrà da un giorno all’altro appena una ventina d’anni dopo.

Note:

Migrazione: Umanità sofferente tra due fuochi

Migrazione Profughi

Il Rapporto Annuale 2017 che il Centro Astalli, ha presentato l’11 aprile, è una fotografia aggiornata sulle condizioni dei richiedenti asilo e rifugiati che durante il 2016 si sono rivolti alla sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, ma è stata anche un’occasione per riflettere sugli sviluppi dell’accordo dell’Unione europea con la Turchia e le nuove direttive decreto dei ministri Minniti-Orlando.

Un’umanità che non deve solo fuggire dalla morte, ma affrontare un cammino impervio tra montagne e deserti, evitando di essere venduti come schiavi, per poi trovarsi davanti a distese d’acqua e le barriere turche, affrontare le nuove norme d’accoglienza e la tenace ostilità della destra, le schizofreniche posizioni dei penta stellati e le fosche accuse gettate dalla magistratura catanese sul ruolo di alcune navi di Ong di “comodo” per spalleggiare il traffico di esseri.

Non è possibile fare di un sol fascio le Ong come Medici Senza Frontiere o Save The Children con quelle pseudo che battono bandiere dubbie, tant’è vero che il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro sta concentrando la sua attenzione sulla maltese Moas o le tedesche.

Il procuratore di Catania ammette di non avere dei riscontri decisivi, ma la sua esternazione si basa su di una mera ipotesi, forse nata da un datato sospetto di Frontex. È triste se la Legge in Italia viene applicata su “sensazioni” o “sospetti” e non sulle prove dei fatti.

Ora Frontex, dopo aver attaccato le organizzazioni non governative di fare il gioco dei trafficanti di esseri umani, si corregge e attraverso il suo portavoce dichiara: “Salvare vite non è solo una priorità, ma anche un obbligo internazionale per tutti coloro che operano nel mare”.

Sulle polemiche di questi giorni sui rapporti di alcune Ong e scafisti, interviene anche il direttore dell’Iom (International Organization for Migration)  per l’Europa, Eugenio Ambrosi che sostiene come non sia di aiuto il fatto di “alimentare percezioni che mettono sullo stesso piano o confondono interessi criminali a scopo di lucro ed entità senza scopo di lucro che lavorano per salvare vite in mare”. Ma aggiunge “non possiamo essere ingenui. Il fatto che navi di soccorso di Ong operino così vicino alle acque libiche può essere sfruttato dai trafficanti”. E prosegue: “è necessario definire meglio il ruolo e le regole delle Ong e le risorse dell’Ue per l’obiettivo principale di garantire che nessuno muoia in mare”.

Una questione questa sulle responsabilità delle Ong nel traffico di esseri umani che un Movimento estremamente “fluido” come quello delle 5 Stelle, dalle mille opinioni che porta, certe volte, i suoi a disquisire, per noia più che per competenza, non si è fatto sfuggire per scavalcare in superficialità la Lega e i quattro gatti della Meloni che sventolano la bandiera della patria sovranità, ma è solo una vuota parola per mascherare da patriottismo il vero significato di egoisti.

Il direttore di Migrantes (Cei), mons. Giancarlo Perego, in un’intervista a Tv2000, afferma che al di là delle accuse da provare questa è una polemica “strumentale per portare lontano dall’impegno vero che dovrebbe essere di tutti i Paesi europei e i cittadini di fronte a un dramma che sta crescendo”, invece di trovare delle concrete soluzioni politiche che potrebbero proporre dei Corridoi umanitari attivati dalla collaborazione ecumenica fra cristiani della Comunità di Sant’Egidio, le Federazione delle Chiese evangeliche, le Chiese valdesi e metodiste, con un protocollo d’intessa firmato con il Ministero degli Affari Esteri e degli Interni.

Quello dei Corridoi umanitari non è solo una soluzione per salvaguardare la vita umana e garantire una migrazione avulsa da possibili infiltrazioni malavitose e terroristiche, ma soprattutto economicamente vantaggioso per l’Europa, invece di sperperare miliardi di euro solo per respingere.

La politica non dovrebbe strumentalizzare e accanirsi sulle Ong, ma trovare delle soluzioni che non siano la solita abitudine di ricorrere a un rimedio provvisorio, per una visione che invece travalichi la punta del naso modello Minniti-Orlando.

Con il decreto dei ministri Minniti-Orlando che prevede un Centro di permanenza per il rimpatrio a misura “umana” in ogni regione, eliminazione dell’appello dopo rifiuto al diritto d’asilo,  si velocizzano le procedure per la concessione del diritto di asilo e la possibilità di svolgere lavori di pubblica utilità gratuiti e volontari. Alcuni migranti si sono organizzati e hanno “adottato” un tratto di marciapiede o di mercato rionale romano nel tenerlo pulito, affidandosi al buon cuore del passante per raccogliere qualche euro.

Papa Francesco ha più volte stigmatizzato i Centri di permanenza come lager e simbolo della negazione di qualsiasi umanità. La migrazione rimane un proficuo affare, come dimostra lo stanziamento di 19 milioni di euro per garantire l’esecuzione delle espulsioni, mentre l’Ue destina alla sorveglianza, anche con droni, delle frontiere 4,5 miliardi di euro da spendere entro il 2020.

Non è tutto, l’Ue sta impegnando complessivamente una cifra vicino ai 600 milioni di euro non solo per la ricerca e lo sviluppo di progetti per la sicurezza nel Mediterraneo, ma anche per Frontex e per Eos (European organisation for Security), il principale gruppo europeo impegnato per la sicurezza, che spinge per la creazione di un gruppo di lavoro per studiare un sistema di controllo delle frontiere denominato “EU Border check task force”.

La migrazione non è solo un “affare” per tener fuori dall’Europa gli Altri, ma anche per accogliere chi riesce a mettere piede in uno dei 27 paesi dell’Unione. Ogni governo, chi più chi meno, destina fondi per gestire una crisi che dura da anni trasformando la disgrazia di molti in lavoro per alcuni e grazie a istituzioni pubbliche e private, oltre che a singoli cittadini, si possono garantire dei pasti, e con qualche difficoltà per dare dei posti letto ad ognuno.

Nell’anno passato, il Centro Astalli, ha potuto contare sull’8 per mille Cei, Migrantes, Fondazione Bnl e Segretariato sociale Rai, per poter coprire i 3milioni e 100mila euro spesi per i servizi offerti dalla sede romana.

I Gesuiti del Centro Astalli sono impegnati sull’accoglienza, mentre i Gesuiti di Magis lavorano per sviluppare delle realtà economiche di cooperazione tra gli abitanti dei luoghi dai quali proviene parte dei migranti.

La situazione migratoria continua ad essere affrontata soprattutto con la limitazione della libertà di circolazione per alcune categorie di persone, ignorando l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò il 10 dicembre 1948, ma sottolineando invece l’articolo 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sulla Libertà di circolazione e di soggiorno riguardante solo i cittadini dell’Unione.

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Il bastone e la carota, la questione migratoria

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2015: Senza Guerre e Schiavitù

Mentre Papa Francesco per il 2015, in occasione della Giornata Mondiale della Pace, augura  che non ci siano più guerre, le spese militari in Italia non subiranno tagli, anzi si prevede 5 miliardi per nuovi armamenti.
Il 2015 non solo un Anno di Pace ma anche senza schiavitù, perché la Guerra rende Schiavi e non Fratelli.

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Pace 11873-1La Repubblica
Gli auguri del Papa: “Mai più guerre, sia un anno di pace”

Il Sole 24 Ore
Il Papa: «La pace è sempre possibile»

Il Fatto Qutidiano
Spese militari, nel 2015 niente tagli alla Difesa. E 5 miliardi per nuovi armamenti

Per la Pace
Schiavi o fratelli? E’ tempo di scegliere

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Finché c’è guerra c’è speranza

Nei primi anni ’70 Alberto Sordi dava vita, con amarezza, al personaggio di un mercante d’armi in crisi esistenziale per quello che faceva. Un film che sintetizzava l’adagio Mors tua vita mea, con la distruzione di un’Africa dilaniata da conflitti regionali come terreno di confronto tra l’allora Comunismo e Capitalismo e dove piccoli e grandi spacciatori d’armi avevano il loro tornaconto.

A quarant’anni di distanza dal film Papa Francesco bolla quei mercanti come “pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi” che “hanno scritto nel cuore: A me che importa?”.

Una condanna gridata dal Sacrario di Redipuglia, traslitterazione dallo sloveno di “sredij polije”” (terra di mezzo), dove riposano decine di migliaia di militari della Prima guerra mondiale.

Sono gli “affaristi della guerra” che basano la loro filosofia di vita sul profitto dovuto prima alla vendita di strumenti di morte e distruzione e poi nell’offrire l’occasione di fare affari per la ricostruzione.

Cosa c’è di più capitalistico nel rendere obsoleti armi e munizioni di qualche anno e inabitabili interi quartieri e città dopo essere stati investiti da bombe e razzi, per poi ridar “vita” ad un’economia stagnante con la ricostruzione?

Sino a quando il “benessere” si basa sul consumismo – il distruggere per ricostruire ne è il nodo fondamentale – sarà difficile che la maggioranza delle persone possano essere interessate al destino dei loro simili in aree di conflitto.

Non sono bastate due Guerre Mondiali con decine di milioni di morti e di stermini, perché qualcuno riteneva qualcun altro diverso da lui e per imporre una visione della società a chi non la condivide, per poter fermare i sobillatori di conflitti e gli spacciatori di morte.

Quando il biblico “A me che importa?” potrà avere un significato per la maggior parte della popolazione che non si interessa del fatto che “La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà…” sino a quando non saranno loro le vittime degli altrui interessi?

Nella Striscia di Gaza ci vorranno, secondo le organizzazioni non governative Oxfam http://www.oxfamitalia.org/ e la norvegese Shelter Cluster affiliate alle Nazioni Unite, 20 anni per la ricostruzione di 17 mila unità abitative, tra edifici danneggiati o distrutti, e non meno di 4 milioni di euro, oltre agli edifici pubblici come scuole e ospedali.

Con i 2143 morti, in gran parte civili e bambini, in 50 giorni di reciproci attacchi è Gaza ad aver subito un ennesimo colpo al fragile tessuto sociale e all’economia, mentre a fare affari sono stati i trafficanti di armi prima e poi, appena Israele autorizzerà l’apertura dei varchi, gli imprenditori edili di qualsiasi nazionalità. È uno strano modo per rendere omaggio al 2014 come Anno Internazionale di Solidarietà con il popolo Palestinese.

Ora che tra il governo israeliano e Hamas si è raggiunta una tregua che sembra reggere, a chi può importare di consolidarla per dare un futuro alle popolazioni di una terra martoriata?

È faticoso e difficile a dare un volto ad ognuna delle migliaia di vittime del Medio Oriente come di altre aree di conflitto. Le persone diventano, superato il numero di cinque forse anche dieci vittime, solo un numero tra tanti, senza nome ne volto.

È più facile che l’attenzione empatica si focalizzi su di un volto e un nome, mentre un’umanità seppellita dalle bombe, trafitta da proiettili o sgozzata da algide mani ispirate dalla missione salvifica di sterminare chi ha altri comportamenti, è una moltitudine che rientra nella quotidianità degli eventi.

Cosa c’è di più tenero di un musetto d’orso reso orfano da un eccesso di zelo per sollevare l’indignazione di una folla piena di compassione per un batuffolo di pelo?

A chi importa di un mendicante quando sono sempre più numerosi gli indigenti che s’incontrano per le strade, se si evita di incrociare il loro sguardo?

Gli organi d’informazione possono veicolare l’attenzione su di una tragedia che coinvolga pochi personaggi, ma riesce a banalizzare le stragi quando diventano quotidianità.

In un mondo proteso alla separazione più che alla condivisione è palese il trionfo dell’individualismo che porta a suggellare la frase “A me che importa?” sulla lapide dell’indifferenza colpevole di Caino nei confronti di Abele.

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