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Egitto e Turchia: I Presidenti si ripetono

Per una seconda volta Al Sisi è Presidente dell’Egitto e il suo operato appare nella continuità di una Democrazia impegnata non solo nel dare la caccia ai terroristi e nel cercare di garantire almeno il pane ai quasi 100 milioni di egiziani, ma perseguendo ogni opposizione, senza escludere gli studenti e i blogger, gli avvocati e i giornalisti, rendendo la vita difficile ad ogni Ong impegnata nel far rispettare i Diritti basilari.

È un grosso impegno per una struttura governativa largamente incentrata sulla figura del presidente e nell’evitare di fare la fine di Mubarak e di Morsi, il primo fatto dimettere mentre il secondo è attualmente in prigione con l’accusa di aver organizzato l’evasione dal carcere dei vertici dei Fratelli Musulmani, un’occasione che non si sono fatti sfuggire le gerarchie militari per una “correzione” al fievole spiraglio di democrazia che aveva portato un pò speranza nei giovani di Piazza Tahrir.

L’Egitto è stato sempre sotto tutela militare, come pure la sua economia, e nonostante le elezioni plebiscitarie che offre a Al Sisi di vince le presidenziali col 97% del 41,5% dell’elettorato, può sorgere il dubbio di non vivere in uno stato democratico.

L’Occidente, oltre la Russia, ripone tanta fiducia nel generale fatto presidente per allontanare il Fratelli musulmani dal panorama politico e sociale egiziano, ma soprattutto per tenere sotto controllo le partenze migranti per l’Europa.

Il boicottaggio del voto è una vittoria per l’opposizione egiziana, che aveva bollato le elezioni una “farsa”, praticamente Abdel Fattah Al Sisi gareggiava contro se stesso, dopo i vari ritiri, in quanto il suo sfidante Moussa Moustafa Moussa si era presentato per legittimare il processo elettorale e per far gridare all’establishment che la Democrazia era salva.

Non sono stati ammessi altri candidati, sia che provenissero dell’apparato militare o dalle istanze nate da piazza Tahrir, l’uomo della “stabilità” punta sull’operazione militare anti terrorismo nel Nord Sinai, per trovare la legittimazione internazionale, più che garantire le libertà civili.

I continui giri di vite agli organi d’informazione hanno escluso dal panorama ogni dissenso e chi non tace può finire in prigione o scomparire come continua a succedere dopo il caso di Giulio Regeni.

Le autorità italiane, con la conferma di Al Sisi alla presidenza, confidano di poter risolvere il caso del ricercatore italiano ucciso al Cairo

Se per Al Sisi è la seconda volta, per Erdogan è, dopo aver governato per una quindicina d’anni e in vari ruoli la Turchia, la prima volta dopo le modifiche costituzionale e istituzionali che hanno resto il sistema turco iperpresidenziale, dove tutto dipende dal presidente: una “democratura” del nuovo sultano che festeggerà l’anniversario della repubblica turca, e magari del suo fondatore Ataturk, nel 2023 e continuare a gridare contro “le nazioni crociate”.

La Turchia ha il maggior numero di giornalisti in prigione e con un’impressionante epurazione tra le file del pubblico impegno (magistrati, insegnati, ricercatori, militari) e dove l’opposizione sopravvive nonostante i continui cambiamenti delle regole “democratiche” per escluderla dal panorama politico e sociale.

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Qualcosa di più:
Egitto: Una Primavera che non è fiorita
Egitto, ingabbia i Diritti
Egitto e caso Regeni: la polveriera egiziana
Omicidio Regeni. Diritti civili intesi dagli alleati ingombranti
Una pericolosa eredità in Egitto. Polvere di diamante di Ahmed Mourad
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L’infelicità araba
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Nuovi equilibri per tutelare la democrazia in Egitto
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Turchia: un regime che vuol governare facile
Turchia: il Sultano senza freni
Turchia: la diplomazia levantina
Turchia: Il sogno del Sultano diventa realtà
Migrazione: il rincaro turco e la vergognosa resa dell’Ue
Migrazione: La sentinella turca
Erdogan, il pascià autocrate

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Omicido Regeni: il triangolo italo-egiziano-britannico

Chiedersi se la vicenda che ha portato all’assassinio di Giulio Regeni sia un caso criminale, politico o un intrigo internazionale può essere plausibile, ma limitante e forse superfluo. I valenti procuratori italiani (Pignatone e Colacicco) che da mesi indagano, per nulla aiutati dalla sponda egiziana e da quella britannica, sanno perfettamente svolgere il proprio mestiere e, ci auguriamo, potranno sciogliere nodi giudiziari della questione. Che però, come dimostrano le varie tappe sviluppatesi nei ventuno mesi successivi al fatidico 25 gennaio 2016, ha valenze geopolitiche non secondarie, con tutti gli interessi, gli intrecci e gli intrighi che questa branca si trascina dietro. E non da oggi. Da osservatori delle questioni di quel Paese sin dalla crisi del regime di Mubarak, alla rivolta di Tahrir e oltre, abbiamo toccato con mano come il susseguirsi di accadimenti vede all’opera soggetti interni (strati della popolazione, partiti e movimenti politici e sindacali, attivisti d’opposizione e di regime, Forze Armate, polizie e mukhabarat) ed esterni (media internazionali, giornalisti, ricercatori, intellettuali, Intelligence e politici stranieri). Un aspetto non nuovo, che ha avuto un crescendo nei quasi settant’anni dalla nascita dell’Egitto moderno.

L’omicidio Regeni coinvolge il nostro impegno d’informazione, oltreché la coscienza civile che ci appartiene ben oltre l’identità nazionale e lo sguardo rivolto anche ai palazzi della politica nostrana ha già evidenziato i comportamenti governativi (prima con Renzi, ora con Gentiloni) nell’agire con uno squilibrato bilancino dell’opportunità economica e geostrategica. Da qui: l’iniziale voce indignata verso il Cairo, il segnale del ritiro dell’ambasciatore Massari e l’acquietamento col rinvio dell’ambasciatore Cantini. Tutt’attorno interessi economici su commesse e partenariati di varia natura (forniture di armi, sfruttamento di giacimenti di gas, lancio e rilancio dell’affarismo turistico), con l’aggiunta di attuazioni di piani di sicurezza internazionale su scenari di conflitto, riguardanti anche il jihadismo dell’Isis, e l’annosa questione del traffico di profughi e migranti. Connessione diretta con la vita e la morte dello studioso friulano? Non del tutto, ma il palcoscenico egiziano degli ultimi anni offre una buona quantità di addentellati. Perché Giulio osservava e studiava aspetti della società su cui poggia, come su altri scenari, l’attenzione dell’establishment di quel Paese. E chi ha toccato, anche solo come narratore, la realtà di questi anni ha ricevuto e riceve dalle forze della sicurezza un trattamento draconiano.

I giornalisti di Al Jazeera Greste, Fahmy, Mohamed, fino all’attuale tuttora in galera Mahmoud Hussein, ne sono un esempio. Certo, trattati con autoritarismo brutale non giunto sino alla tortura e all’uccisione, che invece, ben prima di Giulio ha stroncato l’esistenza di oppositori, attivisti e blogger, egualmente rapiti, spariti e non più ritrovati. La sequela di atrocità rivolte all’apolitico Khaled Saeed, mese dopo mese, anno dopo anno, s’è abbattuta sul copto Mina Daniel e sullo sheik Emad Effat sino a stroncare la laica Shaima Al-Sabbagh, tutte vittime di quella repressione di strada che ha affiancato e preparato il sistema dell’omicidio di Stato più o meno occulto. Fra i primi ottocento morti della rivolta di Tahrir e lo strazio di Regeni, si contano – da qualche mese lo dicono in tanti, eppure se si torna al biennio 2011-2012 l’informazione mainstream raccontava altro – migliaia di vittime e di sparizioni, decine di migliaia di arresti, in gran parte immotivati. O motivati solo dall’essere oppositori, prima di Mubarak poi di Suleiman e del Consiglio Supremo delle Forze Armate, quindi del nuovo restauratore, il generale Al-Sisi, dipinto da liberali e dalla stessa sinistra egiziana come il liberatore dallo spettro della Fratellanza Musulmana.

Oggi, sulle pagine de la Repubblica, gli ottimi Bonini e Foschini, evidenziano i contorni omertosi della tutor di Regeni presso l’Università di Cambridge: Maha Mahfouz Adbel Raham. La docente che indirizzò il dottorando friulano verso la ricerca sul sindacalismo indipendente degli ambulanti (nel cui ambiente il giovane incrociò l’informatore della polizia che lo denunciò). Secondo i sospetti dello stesso Regeni la donna sarebbe stata un’attivista e nei contatti cairoti lo avrebbe indirizzato verso un’altra attivista (la professoressa dell’American University Rabab Al Mahdi) ben nota alla polizia locale. Da quest’ottica, pur confidando in un cambio di posizione della tutor anglo-egiziana che potrebbe offrire un contributo ai nostri magistrati, il mistero sulla morte di Regeni non muta. Anzi, viene a confermare quel che da tempo è evidente nei comportamenti di Al Sisi e dei collaboratori di governo, il ministro dell’Interno Ghaffar su tutti: mettere attivisti, ricercatori, giornalisti nella condizione di non nuocere, con ogni mezzo. Crediamo all’affermazione dei genitori di Giulio che lui fosse animato dal solo desiderio di studio. Bisognerà scoprire se gli intenti di Maha Mahfouz Adbel Raham si fermassero lì. Indubbiamente nella fobìa di regime questo poteva già bastare per stroncare ricerca e ricercatore.

In tal senso Giulio diventa doppiamente vittima, dei suoi aguzzini e di chi voleva trarne vantaggio, utilizzando la ricerca sul minatissimo campo diretto, per altri fini. Questa è comunque un’ipotesi, che fra l’altro ha bisogno di un riscontro di una sua vera utilità sulla politica egiziana. Chi vive in loco, e prova ad agire politicamente, conosce benissimo la realtà e ben pochi vantaggi può trarre da una simile indagine. Utile, invece, a una lettura dall’esterno dell’attuale fase. Nel controverso rapporto di ricerca-studio-lavoro che Regeni ha avuto in terra britannica c’è anche l’ormai nota  collaborazione di circa un anno (fra il 2013 e il 2014) con Oxford Analytica, una delle strutture di consulenza geostrategica mondiale. Organismo che sta nelle attenzioni dell’MI6 britannica, che in non pochi casi ha visto l’Intelligence scegliere dalle file dei ricercatori elementi a lei utili. E’ l’antefatto, indicato da alcuni cronisti anche italiani, d’un Regeni collaboratore dei Servizi, che tanto ha fatto arrabbiare i familiari dello scomparso. Se gli interessi di Giulio sono quelli ricordati dalla madre Paola, potrebbe anche qui risultare aggirato contro la sua volontà. E il suo distacco da quella collaborazione potrebbe essere scaturito dal rifiuto di prestarsi a simili scopi.

Come per il caso della tutor, potrebbe essere Graham Hutching, uomo più in vista della Oxford Analytica, a offrire agli inquirenti notizie. Sebbene si sa che se si lavora per taluni organismi difficilmente si è disposti a svelarne piani e progetti.  Eppure fra triangoli e misteri, nel martirio dello studioso di Fiumicello, resta una certezza finora non indagata: la responsabilità dei vertici politici, prima che polizieschi, del Cairo. Partire da lì o all’inverso arrivarci sarebbe la giusta strada per la “verità per Giulio” e per la sua “giustizia” che incredibilmente gli attuali cartelli di Amnesty International sembrano aver archiviato.

Pubblicato giovedì 2 novembre 2017
Articolo originale

Migrazione: Un monopolio libico

La migrazione anche in Libia sta diventando un affare per ogni contendente e non solo per la gestione discutibile dei 34 centri di detenzione noti, ma anche per la possibilità della Guardia costiera libica e per le vari milizie, che si contendono un fazzoletto di potere, di lucrare sul traffico di esseri umani.

Un grande affare che non poteva essere lasciato in mano ai soli trafficanti, ma ora anche i libici, di tutte le parti, hanno pensato che è ora prendere in mano tutta la filiera: dall’organizzazione dell’imbarco alla “accoglienza”, grazie all’istituzione di una personale zona di soccorso (Sar – Search And Rescue) libica.

Una zona di soccorso che rende più Mediterraneo sotto il controllo di Tripoli ed ecco che riemergono le antiche ambizioni di Gheddafi nell’ ampliare la propria sovranità sulle acque territoriali., comportando, stando alle mappe in uso alla missione EuNavFor Med (Sophia), il possibile arretramento dell’area d’intervenire delle Ong da 12 miglia a fino 97 miglia dalla costa libica.

I migranti che arrivano in Libia possono venire rinchiusi nelle strutture sotto il controllo di Tripoli o di Tobruch, ma anche riuscire a prendere il mare per l’ultima tappa verso l’Europa.

Questo poteva succedere prima, ora tutti possono essere imbarcati su gommoni e bagnarole, per poi essere ripescati dalla Guardia costiera ed essere rinchiusi nelle strutture di detenzione, in attesa di essere venduti come schiavi o ceduti nuovamente agli scafisti.

In Libia si sta collaudando la migrazione a moto perpetuo, una sorta di criceto che corre nella ruota, sino ad esaurimento. Persone nella ruota della fortuna, tra le strutture governative libiche e in balia dei trafficanti, dove solo il banco vince.

L’Occidente ha creduto di essere stato tanto furbo a delegare ad altri il ruolo di sentinella dei propri confini con accordi e intese che hanno coinvolto governi con problematiche interazioni con il prossimo e personali interpretazioni del concetto di Diritti umani come quello di Khartoum (2014) e il più recente con la Turchia, ma anche a Rabat (2006) e ancor prima a Budapest (1993).

Tanti processi, accordi e trattati con governanti democraticamente discutibili, che hanno e stanno impegnando ingenti fondi europei che sarebbero stati meglio utilizzati se gestiti direttamente per l’accoglienza e per lo sviluppo nei luoghi d’origine, invece di foraggiare i signorotti locali e i governi autoritari.

Il ministro degli interni italiano, Marco Minniti, continua ha esternare la sua soddisfazione nell’andamento degli interventi italo-libici, per controllare il controllo meridionale dei confini europei in Libia. Confini che coinvolgono anche il Niger, il Mali e il Ciad, tre dei cinque paesi che tentano di organizzare una forza d’intervento contro i gruppi terroristici jihadisti, ma per ora è riuscito a guerreggiare con le Ong piuttosto che sconfiggere gli scafisti.

Forse è l’attività “diplomatica” francese, con la Ue nel sostenere Serraj e con l’Egitto per Haftar, che ha scrollato l’Italia, decidendo di riportare la rappresentanza diplomatica al Cario al completo, nominando l’ambasciatore Giampaolo Cantini.

Una decisione che potrebbe andare a discapito della verità sul caso Giulio Regeni, ma dovrebbe aiutare il governo italiano a dialogare con il generale Haftar per raggiungere un accordo sulla questione migratoria.

Le agenzie europee e il governo italiano non si limitano ai conti del ragioniere, disumanizzando le persone che hanno affrontato e continuano ad affrontare mille ostacoli, ma oltre a cercare un accordo con i “due governi” libici, hanno negoziato una riduzione di flussi migratori, grazie all’elargizione  di varie forme di aiuti comprese di forniture ospedaliere a Sabratha, con le varie milizie.

Una disumanizzazione che ha ridimensionato quest’umanità in fuga in numeri o a ingombri come è successo nella guerriglia in una Roma agostana a piazza Indipendenza.

Persone che diventano per la politica solo un problema e alle quali nessuno si interessa alle loro singole storie se non in rari documentari come in “Too much stress from my heart” di Ludovica Lirosi che ha realizzato e prodotto tra il nord Africa e il sud dell’Italia.

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Qualcosa di più:

Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
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Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
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Un Mondo iniquo
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La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Egitto: Una Primavera che non è fiorita

GL Egitto Una Primavera non finita BallerinaIn Egitto Mubarak viene assolto per il massacro di piazza Tahrir, ma anche i suoi figli e tutto il suo entourage non soggiorneranno nelle prigioni egiziane, mentre per quella generazione che ha creduto di poter confidare nella Democrazia c’è un futuro in carcere, come sottolinea il New York Times nell’articolo How Egypt’s Activists Became ‘Generation Jail’ .

In sei anni si sono succeduti eventi che facevano sperare nel cambiamento, ma ora ci troviamo punto e a capo: una restaurazione in salsa egiziana.

Secondo il Politico, nell’articolo di gennaio The Arab Spring is far from over la cosiddetta “Primavera araba” non è finita e dal canto suo The New Yorker, in un lunghissimo resoconto di una conferenza stampa di Al Sisi, Egypt’s Failed Revolution, si dice che quella “rivoluzione” sia fallita.

Mentre Shukri al-Mabkhout, con il romanzo L’Italiano, offre una equilibristica lettura degli eventi tunisini, attraverso la storia d’amore tra Abdel Nasser e Zeina.

Una storia tormentata come metafora per le speranze che si dissolvono come i sogni di carriera in ambito accademico di Zeina, la brillante e bellissima studentessa di filosofia, e di Abdel Nasser che si trasforma da giovane idealista di belle speranze a giornalista di successo ma disilluso e stanco.

Tanti sacrifici per assaporare una diversa visione della società e poi trovarsi al punto di partenza, una specie di crudele gioco dell’oca miscelato al celebre Congresso di Vienna per una sorta di restaurazione con personaggi che hanno cambiato volto ma non le pratiche, ma con la differenza che per trovare il velo così presente nelle vita delle donne bisogna risalire a prima degli anni ‘60.

L’ex autocrate egiziano Hosni Mubarak, rovesciato nel 2011 dalle manifestazioni di piazza per poi essere messo sotto processo, è stato liberato e ha lasciato l’ospedale militare dove ha trascorso gran parte degli ultimi sei anni in detenzione.

Era impensabile, sino a qualche anno fa, dopo che il volto di Mubarak era stato rimosso da ogni edificio pubblico, vedere l’uomo che ha governato l’Egitto con fermezza dal 1981 fino al febbraio del 2011, superare le accuse di corruzione e di crimini verso il popolo, per essere addirittura rimpianto.

Non sono state sufficienti le 850 persone uccise dalle varie polizie, nei 18 giorni di rivolta, per rendere meno influenti le Forze armate nel contesto sociale egiziano. Il periodo successivo alla rivolta è stato caotico e quello siglato da Morsi non è stato meno confuso, inaugurando un periodo di instabilità che allontanò turisti e investitori dall’Egitto. La nostalgia per un governo forte ha facilitato Al Sisi nel farsi presidente.

Ora Mubarak, stando al suo avvocato Farid al-Deeb è andato nella GL Egitto Una Primavera non forita Al Sisivilla di Heliopolis, proprio nel quartiere cairota dove recentemente è stata rinvenuta la statua gigant di Ramses II, spezzata in più blocchi, misura 8 metri, insieme ad un’altra, di circa un metro, raffigurante Seti II e così non ci sono due faraoni senza il terzo!

Mentre Mohammed Morsi, il successore di Mubarak in carica da meno di un anno prima di essere defenestrato dall’esercito nell’estate del 2013, rimane per ora in carcere con l’accusa di terrorismo.

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Qualcosa di più:

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L’islamia: preda e predatrice

Mentre nel Nord Africa due Generali hanno aperto la caccia degli islamisti, nel medio oriente iracheno è la crudeltà jadeista ad offrire l’occasione di un’ufficiosa collaborazione tra Usa e Iran per fronteggiare l’avanzata dell’Isis (Stato islamico di Iraq e Siria) o Isil (Stato Islamico in Iraq e nel Levante) che dir voglia.

L’esercito iracheno è impegnato, se non si arrende, in ritirate “strategiche” davanti alle milizie dell’Isil e a quelle tribali sunnite. Per ora a fronteggiare l’avanzata rimangono i peshmerga curdi che avevano che già 6 mesi fa avvertirono Baghdad e gli 007 occidentali sul pericolo islamista-sunnita.

L’arretramento dell’esercito iracheno ha anche aperto un varco verso l’indipendenza, come ha affermato il Presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani, del Governo regionale del Kurdistan dall’Iraq.

Il vero problema per un Iraq unito di sciiti, sunniti e kurdi è l’attuale presidente iracheno sciita Nuri al-Maliki, con la sua intransigenza nel condividere la gestione del governo con le altre popolazioni e non fomentare l’odio.

Il Ramadan porta l’annunciano jihadista della nascita del Califfato in Iraq e Siria e Abu Bakr al-Baghdadi è il suo califfo per ripercorrere il sogno dell’unificazione dei “credenti” sotto un’unica autorità. Non più tanti stati islamici, ma un’unica nazione da levante ad occidente.

Le forze governative irachene, per riconquistare il territorio dichiarato Califfato, non basteranno i consulenti militari statunitensi e iraniani, ma forse i 5 caccia russi Sukhoi potranno dare uno stimolo alla controffensiva del frantumato governo di Nuri Al-Maliki contro le milizie di Abu Bakr al-Baghdadi.

In Egitto si discute del trionfo “gonfiato” di Al Sisi e della sua intransigenza verso ogni opposizione, e non solo quella dei Fratelli musulmani bollati come terroristi, mentre in Libia l’ex generale Khalifa Haftar ha aperto una sua personale caccia alle milizie islamiche per una pacificazione laicizzata, anche attraverso un golpe, del paese che rischia così la sua frammentazione in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.

In Libia nel silenzio si sono svolte le elezioni politiche caratterizzate dalla violenza (è stata uccisa l’avvocato per i diritti umani Bugaighis), e la grande astensione.

Entro il 2013 si doveva tenere a Roma la Conferenza internazionale sull’assistenza alla Libia, con la partecipazione dei principali Paesi coinvolti. Nel frattempo Enrico Letta è decaduto da premier e Matteo Renzi ha una moltitudine di impegni in ambito italiano ed europeo, perdendo l’occasione per esercitare un ruolo nel Mediterraneo.

Affermare che il Mediterraneo è inquieto, e non solo per tutta quell’umanità che rischia in fatiscenti imbarcazioni l’attraversata per trovare un luogo dove vivere in pace, può apparire minimizzare la situazione senza contare il conflitto siriano che Bashar al Assad vuole risolvere anche con raid aerei in territorio iracheno contro i miliziani dell’Isil. Miliziani che il regime di Bagdad ha inizialmente stimolato nella loro organizzazione come elemento disturbatore tra le file dell’opposizione siriana.

Nel groviglio iracheno è troviamo delle tacite alleanze di governi che in altri scenari si confrontano tramite i loro “protetti”.

Brutal infighting persists among Syria insurgents

 

 

 

 

 

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L’Isis istituisce il Califfato “Siamo la guida dell’Islam”
I jihadisti: sotto il nostro controllo i territori dal nord della Siria alla zona orientale dello stato iracheno. A Baghdad arrivano i caccia russi

29/06/2014

L’esperto Usa: “L’Iraq non verrà diviso E l’Isis è al limite delle proprie capacità” La creazione di un «califfato islamico» che va dall’ovest dell’Iraq all’est della Siria e che comprende importanti città del Medio Oriente è stata annunciata oggi da miliziani qaedisti, contro i quali a giorni l’aviazione irachena userà per la prima volta aerei militari russi arrivati oggi a Baghdad.

mercoledì, giugno 25th, 2014
Iraq: gruppi qaedisti Al Nusra e Isil si riuniscono al confine con la Siria

Si sta delineando uno scenario preoccupante in Iraq dove secondo quanto ha riferito l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), l’ala siriana di al Qaida e miliziani qaedisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) hanno deciso di unirsi con un accordo raggiunto ad Abukamal, cittadina situata nei pressi del valico frontaliero iracheno di al Qaim.

 

02 OlO Islamia Egitto Libia Iraq e milizie islamiche iraq-siria-califfato-tempi-copertina
L’Iraq, la Siria e poi? Così l’esercito del terrore vuole marciare su Baghdad e portare la guerra santa in Occidente
giugno 22, 2014 Leone Grotti
Il califfato islamico sognato fin dal 2006 dall’allora nascente Stato islamico dell’Iraq (Isi), oggi è realtà sotto la guida di Abu Bakr Al Baghdadi, che lo guida dal 2010 e a quel primo progetto ha aggiunto la Siria, trasformando il gruppo in Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil).

 

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Iraq: peshmerga, 6 mesi fa avvertimmo Baghdad e 007 Occidente su pericolo Isil

Le forze curde peshmerga hanno preso il controllo di tutte le aree curde irachene dopo la ritirata dell’esercito iracheno a Mosul la settimana scorsa e tra queste anche la provincia contesa di Kirkuk.

Egitto, il trionfo “gonfiato” di Al Sisi
L’affluenza alle urne al 48 per cento
L’ex generale protagonista della cacciata dei Fratelli musulmani lo scorso luglio, ha conquistato la presidenza con il 95% dei voti. Ma oltre la metà non va ai seggi
Francesca Paci
INVIATA AL CAIRO
28/05/2014
Il Cairo, balli e caroselli per la vittoria di Al Sisi

Scontri a fuoco a sud di Tripoli
Libia ancora nel caos, attacco al Parlamento

Prosegue la battaglia tra l’esercito paramilitare e le milizie integraliste islamiche. 79 morti e 140 feriti a Bengasi, spari anche vicino al Parlamento a Tripoli

Libia generale Khalifa Haftar sostiene di vincere la guerra contro le milizie islamiche

Mary Fitzgerald da Bengasi
theguardian.com, Martedì 24 Giugno 2014 13.15 BST
Generale Khalifa Haftar è evasivo quanti uomini ha direttamente sotto il suo comando.

Khalifa Haftar: renegade general causing upheaval in Libya
Commander has managed to rally influential bodies in offensive against post-Gaddafi government but is dogged by old CIA link

Libia: nuovi scontri a Bengasi, 4 morti e famiglie in fuga
Bengasi (Libia), 15 giugno 2014

Khalifa Haftar, l’ex generale libico che ha dichiarato guerra ai miliziani islamici a Bengasi, ha sferrato un nuovo attacco nella critta della Cirenaica; e gli scontri hanno subito innescato la fuga di decine di famiglia dalla città portuale. Negli scontri sono già morte quattro persone e ci sono 14 feriti. Nella città c’e’ un black-out perché un missile ha colpito un impianto di distribuzione elettrica.

 

C’è ancora molta confusione in Libia: domenica pomeriggio nella capitale sono arrivati i carri armati della milizia che viene dal nord del paese.

di Redazione
19 maggio 2014
In Libia è guerra civile

CONTRO AL QAEDA
Volontari delle milizie sciite irachene.
Iraq, l’esercito e le milizie sciite combattono a Sud
Riconquiste vicino a Tikrit. L’Iran invia truppe. In attesa degli Usa.

 

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