Sir Ranulph Fiennes è un nome che a noi italiani dice poco. Eppure è il più grande esploratore vivente e come tale è registrato nel Guinness; tiene di continuo conferenze, è presente su Youtubehttps://www.youtube.com/watch?v=N_yH5rw4LUc con una dozzina di filmati, ha un fan club e una pagina Facebook; è un sincero ecologista, finanzia la ricerca sul cancro e ha scritto ventiquattro libri, di cui uno solo tradotto in italiano, ma solo perché era uscito un film (Killer élite, 2011) basato su un suo romanzo. Già, perché il nostro esploratore da giovane è stato anche un incursore di Sua Maestà, erede del suo antenato guerriero schierato nel 1066 nella battaglia di Hastings. In seguito ha intrapreso numerose spedizioni geografiche ed è stato la prima persona a visitare sia i poli Nord e Sud con mezzi di superficie ed anche il primo ad attraversare a piedi l’Antartide. Ha corso sette maratone e scalato la parete nord del Cervino. Nel maggio 2009, all’età di 65 anni, ha scalato la cima del Monte Everest. Difficile capire a questo punto perché il più grande esploratore vivente del mondo sia ignoto in Italia, a parte qualche raro articolo su di lui (uno p.es. sulla rivista Focus). Personalmente mi sto impegnando per tradurre almeno un paio dei suoi libri e divulgare la sua opera interessando la Società Geografica Italiana, che potrebbe magari invitarlo ufficialmente. E visto il periodo che stiamo vivendo, ho scelto per primo FEAR: parla appunto della Paura, col sottotitolo “la nostra sfida suprema” (our ultimate challenge). L’ho scelto in seguito a una riflessione precisa: è da tre mesi che invece di puntare sulla sicurezza, la narrazione politica e la sua traduzione nei media è incentrata unicamente sulla paura, col risultato di creare ansia e frustrazione in una società già insicura. Scatenare l’ansia può anche essere una strategia, ma a patto di saperla riassorbire; ma se la paura viene invece vissuta senza essere analizzata, allora si apre una depressione sfruttata da paranoici, falsi profeti e destre nazionaliste e reazionarie. Più o meno come adesso e negli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso, con cui non son poche le analogie.
Passiamo ora al libro: l’autore cita la letteratura scientifica sull’argomento, ma si basa essenzialmente sulla sua esperienza personale e su testimonianze di chi ha vissuto esperienze traumatiche. Fisiologicamente, la paura è una reazione istintiva a una situazione di pericolo e il suo centro di elaborazione risiede nell’amigdala, che è la parte più antica del nostro cervello: in comune coi rettili, mantiene memoria dell’esperienza difensiva. Non a caso paure così diffuse come quella dei ragni e dei serpenti sono assolutamente ataviche. L’autore è chiaro: dobbiamo avere paura, essere coscienti del pericolo, altrimenti è temerarietà, pura incoscienza che non garantisce incolumità se non addirittura la sopravvivenza. Affrontare il pericolo o reagirvi implica dunque la paura, la quale produce adrenalina, accelera il ciclo cardiorespiratorio, prepara sensi e muscoli alla difesa e trasmette alla memoria informazioni per il futuro. Diversamente dal panico – irrazionale e dannoso – la paura è dunque nostra alleata, e Fiennes, avendola vissuta nel profondo, ci spiega esattamente cosa sentiamo nel provarla.
Premesso questo, il libro si sviluppa in sedici diversi capitoli: un’analisi del fattore paura; la paura dei bulli, sperimentata dall’autore nei migliori (?) college britannici e nell’esercito (nonnismo); paura del nemico (l’autore ha realmente combattuto in guerra); paura del fallimento (sportivo, familiare, finanziario, di carriera); paura della malattia (più che attuale); paura del vicino (immigrato o meno); paura dell’Oceano (navigatori); paura del futuro (ambiente, clima, economia, migrazioni, guerre). E così via. Ma il vero pregio di questo libro è la continua interazione tra concetto ed esperienza: Fiennes descrive con sincerità i brutti momenti che ha passato quando ha rischiato la morte in guerra, l’infarto, il congelamento e altro, altrimenti viene analizzato un caso di studio: la vittima del pedofilo, la ragazza schiava del sesso, il naufrago oceanico, il reduce sconvolto dai disturbi da stress differito, il profugo di guerra, l’atterrito inquilino delle case popolari. Già, perché la paura non riguarda solo mari e foreste, ma pervade anche la metropoli, spesso vero inferno in terra. E qui si apre un altro aspetto studiato dall’autore: la paura e/o il terrore come strumento di potere. Ce n’è per tutti: maschi padroni, mafiosi, dittatori, santoni, movimenti di guerriglia (tutt’altro che idealizzati, ndr.), narcos, terroristi politici e/o religiosi, tutti accomunati dall’uso cosciente e sistematico della paura per governare o per convincere la popolazione locale a schierarsi dalla loro parte. Ma anche senza far uso della violenza, il populista spinge la gente dalla paura all’odio verso l’altro e a definire la propria identità per sottrazione. Dal canto loro il mafioso, il dittatore e il terrorista – criminali a tempo pieno – fanno capire con la violenza pervasiva che nessuno è al sicuro o può ritenersi esentato. In questo modo si diffida anche del vicino e si spezza la solidarietà sociale, fenomeno che abbiamo avuto modo di sperimentare anche ora in tempo di pandemia. Ma solo in un regime di terrore le misure temporanee diventano permanenti, sia per la natura stessa del regime, sia perché le paure vengono alimentate di continuo – stavo per dire prorogate – dalla propaganda. Gli esempi non mancano: basta pensare alla Guerra Fredda, dove in fondo un contendente aveva bisogno speculare dell’altro. Ma in una vera democrazia, dove viene incoraggiata la convivenza civile ed è garantita un’informazione indipendente, è invece chiaro che il gioco non può funzionare in eterno, e infatti la stampa è sempre la prima vittima del terrore e dei nemici della democrazia.
In appendice al libro, una curioso elenco – non privo di “humour” – dei nomi scientifici dati a tutte le paure possibili. Sono ben sedici pagine di termini derivati dal greco e latino e dimostrano la patetica tendenza a controllare la paura assegnandole un nome accademico.
Fear: Our Ultimate Challenge Ranulph Fiennes Editore: Hodder & Stoughton, 2017, pp. 336 Testo in English Prezzo: € 12,42 – 20 dollari / 15 sterline
ISBN-13: 978-1473617988 EAN: 9781473618008
Esiste anche in e-book e in audiolibro con britannica voce originale dell’autore.
Diciamolo: tutte queste immagini di Roma e delle città italiane deserte ci piacciono: esteticamente perfette, ci riportano a una visione astratta dell’arte, del paesaggio, dell’urbanistica. E’ l’Italia delle vecchie foto Alinari, dove l’elemento umano è un puro accidente. Roland Barthes già notava in Miti d’oggi che nelle guide blu Michelin città e monumenti vivono nell’assoluto (1) e lo stesso vale per le guide del Touring Club Italiano. Ma piace anche l’idea di una metropoli invasa da cinghiali, anatre selvatiche con paperotti al seguito e magari le capre che brucano l’erba che cresce tra i sampietrini: Madre Natura si sta riprendendo quello che le appartiene e fa piacere vedere i delfini a Trieste, a Venezia e a Salerno, o l’acqua del Po di un colore diverso. Se un barile di petrolio vale oggi meno di un dollaro, vuol dire che tutto è fermo. Ma assai prima del compiaciuto moralismo ecologista (al quale Greta Thunberg finora non si è associata) ci sono state nei secoli centinaia di riflessioni morali sulle rovine della Roma imperiale: a partire dal Medioevo, viaggiatori e pellegrini confrontano fino alla noia la visione dell’Urbe deserta e degradata con la nuova Roma cristiana risorta dalle ceneri pagane. Altrettanto scontata è la visione del’epidemia come castigo biblico per i nostri peccati, stavolta anche ecologici. Ma ora si è aggiunta una variante: le ricche chiese evangeliche americane e alcuni settori ultraconservatori cattolici vedono nella solitudine di Papa Francesco in piazza san Pietro la punizione divina per il pontefice eretico, socialista e anticristo. Niente di nuovo, visto che l’AIDS fu considerato il castigo divino per Sodoma ma non per Gomorra. Stupisce però che un gesto simbolico così forte come quello di Papa Francesco sia stato interpretato ora in modo laico – per Sgarbi è il fallimento della religione (2), ora in modo paranoico, anche se certe correnti religiose non sono nuove a interventi estremi, al limite del patologico. Diversa la reazione islamica: all’epoca delle conquiste l’epidemia riguardava le affollate città infedeli (quindi era meritata) e in seguito – quando toccò a loro – fu vista come equivalente alla morte in guerra o volontà divina (3). Come si vede, le metafore belliche oggi tanto frequenti non sono nuove: la malattia rimanda alla debolezza umana, la guerra al sacrificio collettivo per la vittoria finale. Ma le grandi religioni oggi sembrano più caute: anche se per l’ISIS la pandemia è il flagello contro gli infedeli, questo non rappresenta il pensiero di tutti gli islamici. Piuttosto, le grandi religioni monoteiste si stanno responsabilmente adeguando a tutte le disposizioni sanitarie, ma promuovendo nel contempo la preghiera in casa, la meditazione personale, la fratellanza universale e l’armonia con la natura; in sostanza, una forte spiritualità svincolata dalla rituale riunione collettiva dei fedeli. E come negli anni passati la Radio Vaticana diffondeva in tutto il mondo il messaggio del Papa, oggi ben altri mezzi telematici permettono la partecipazione collettiva al positivo messaggio di speranza.
Ma torniamo all’immagine di Roma come non l’abbiamo mai vista. Tra tanti video ne voglio valorizzare uno, breve (3 minuti), girato il 14 marzo, senza droni e in un quartiere – Testaccio, Porta Portese – diverso dalle solite cartoline. L’ha girato Roberto Di Vito, un videomaker romano indipendente, autore anche di medio metraggi, il migliore dei quali è “Bianco” (2011, 78”) (4). Non è la solita carrellata sulle piazze e i monumenti di una Roma stupenda perché deserta; ricorda piuttosto certe sequenze del regista sovietico Tarkovskji o del suo allievo Lopushanskj, caratterizzate da ambienti reali resi alieni dal disuso, svuotati della presenza umana. Vediamo dunque il video “Emergenza Coronavirus”.
Le immagini sono drammatiche, evocatrici, efficaci nella loro essenzialità, quasi prese di peso da un film di fantascienza. Eppure la videocamera inquadra elementi reali, banali, i quali riescono stranamente a trasformare un video di tre minuti in un documento storico mai visto prima. Inquietante la voce fuori campo che grida: ” Dove sei? Dove sei amico. Vieni qui“. Non sappiamo chi la pronuncia e perché, ma risuona in un vuoto. Ma è un vuoto metafisico, simbolicamente saturo. Tutto questo è ottenuto con mezzi poveri, essenziali, da vero regista indipendente: il valore aggiunto viene prodotto attraverso un procedimento per sottrazione. E qui Di Vito è coerente: continua un discorso iniziato con “Ai confini della città” (1998, 34”), amaro apologo di una civiltà e di più generazioni allo sbando, all’interno di una Roma inedita, svuotata, pronta alla desertificazione che avverrà da un giorno all’altro appena una ventina d’anni dopo.
Note:
Roland Barthes, Miti d’oggi. Torino, Einaudi, 1962 e successive ristampe.
Lo stesso Sgarbi ha difeso invece il parroco Lino Viola quando questi ha voluto celebrare messa con un ristretto numero di fedeli e sono intervenuti i Carabinieri. In questo caso Sgarbi è intervenuto in nome delle libertà sancite dalla Costituzione.
La peste di Giustiniano. Seconda parte: l’influenza dell’epidemia sulla formazione dell’impero islamico, a cura di Sergio Sabbatani et alii, in Le infezioni in Medicina, 2012, 3.
E’ curioso: nella storiografia spesso si tende a capire meglio gli avvenimenti passati sulla base dell’attualità invece di vedere il presente come risultato di processi precedenti. La riflessione sui cambiamenti climatici ha dato p.es. una nuova chiave interpretativa delle invasioni barbariche: è verosimile che gli Unni e altri allevatori nomadi della steppa siano stati spinti a occidente dalla progressiva mancanza di acqua e pascolo per le loro migliaia di cavalli. Ed è così che l’attuale pandemia può farci riflettere su analoghi episodi virali del passato. In questo articolo mi soffermerò sull’epidemia di peste nera che colpì Costantinopoli e l’Impero Romano d’Oriente dal 541-42 in poi e dopo cicli quasi endemici di 20-30 anni si esaurì verso il 750. E’ detta di Giustiniano perché infuriò durante il suo regno (527-565 d.C.). La fonte principale è lo storico Procopio di Cesarea (1), testimone oculare dell’epidemia: originaria dell’Etiopia, giunta in Egitto con le navi dal Mar Rosso e in seguito diffusa via navi granarie nei principali porti del Mediterraneo e in seguito anche nell’entroterra collegato dai grandi fiumi navigabili (come il Rodano da Marsiglia in su). Nell’Impero il granaio era infatti l’Africa mediterranea e vettori dell’infezione furono i topi neri dei porti, a loro volta infestati da cimici e pidocchi capaci di infettare il sangue degli umani col virus Yersinia pestis, di un ceppo simile a quello responsabile della Peste Nera del 1347-48 (quella del Decamerone, per intenderci). E siccome nelle popolose città portuali i ratti e i loro parassiti erano e sono la norma, l’infezione era inevitabile. Già c’era stata negli anni tra il 165 e 180 d.C. un’epidemia nota come “Peste Antonina” – in realtà vaiolo polmonare (2), ma questa nuova pandemia non aveva precedenti, quindi attaccò con virulenza popolazioni non immunizzate. Come abbiamo detto, difficile fare stime: si parla di una demografia ridotta di un terzo (cioè 15-30 milioni di morti), di 10.000 morti al giorno a Costantinopoli nel periodo di picco, ma i dati non sono sempre attendibili e di recente sono stati rimessi in discussione dai virologi, i quali se da un lato hanno identificato con precisione il genoma, hanno però ridimensionato i dati esagerati, basandosi su sull’analisi economica e lo studio delle sepolture (3). Sicuramente è difficile far stime in epoche prive di statistiche scientifiche, per cui dobbiamo basarci sulle testimonianze degli storici del tempo, che paragonavano la peste descritta da Tucidide – in realtà tifo esantematico (4) – a quanto vedevano ogni giorno nella nuova capitale dell’Impero e nelle terre riconquistate ai barbari invasori. Parlano di cataste di morti senza spazio per la sepoltura, di campi abbandonati, di reggimenti indeboliti, di burocrazia impotente, di cadaveri buttati a mare, di miasmi irrespirabili, di latifondi privi di manodopera. Nulla sapendo di virus e batteri, descrivono la realtà ma non sanno spiegarla, ripiegando sulle facili metafore del castigo divino, pagano o cristiano che sia. Conseguenza immediata dell’epidemia fu comunque la crisi della produzione agricola, più la paralisi militare dell’esercito imperiale e dell’apparato amministrativo che doveva inquadrarlo e alimentarlo, col risultato che la riconquista dell’Africa romana e dell’Italia non fu consolidata e da lì a poco sarebbero calati i Longobardi. Dunque il piano strategico di Giustiniano si rivelò troppo ambizioso e privo di risorse adeguate in una situazione d’emergenza, ma non era tutta colpa sua: senza la peste, quelle risorse non solo sarebbero state disponibili, ma avrebbero garantito anche la ricostruzione, mentre gli storici dell’epoca registrano una desolazione tale da scoraggiare qualsiasi ripresa.
Ora mi si permettano alcune osservazioni, che così schematizzo:
La pandemia è storicamente documentata anche da recenti studi di storia naturale.
Sulla strategia di Giustiniano gravano pregiudizi storiografici.
Gli studi che sminuiscono l’impatto della pandemia non invalidano la narrazione corrente.
Conclusioni
Procopio non è l’unico storico che abbia descritto la peste (5). Ma oggi le fonti storiche sono state integrate da recenti studi scientifici. In particolare, se l’analisi del genoma ha chiarito la natura e l’iter del virus (note 3 e 4), la climatologia ha rilevato attraverso il carotaggio dei ghiacci antartici che nel 541 ci fu una netta riduzione dei livelli di anidride carbonica in atmosfera, dovuta dunque al collasso demografico e alla riduzione del bestiame produttore di metano (6).
Sull’Impero Romano d’Oriente pesano tuttora due pregiudizi: quello dello storicismo tedesco e quello altrettanto fuorviante della cultura cattolica. L’interesse geopolitico tedesco per l’Europa continentale e l’Italia come sua appendice si direbbe ancora attuale, ma ha sempre avuto i suoi collaborazionisti. L’ossessivo accento sul Sacro Romano Impero ha relegato l’Impero Romano d’Oriente (volgarmente detto bizantino, come a dire né greco né romano) a zona residua, mentre in realtà è una grande entità statuale durata mille anni e assai più solida e strutturata delle coeve istituzioni imperiali germaniche. L’ingresso di Goti, Eruli e Longobardi in Italia e la creazione di regni romano–barbarici di fatto porta all’inserimento del Mediterraneo in un’orbita continentale, invertendo la dinamica che da Cesare in poi spingeva Roma ad assorbire l’Europa prima delle grandi invasioni germaniche. Ma i soldati e funzionari di Giustiniano non erano “greci” e il Codex Juris Civilis è scritto in latino. L’impero romano si riprendeva quello che era suo, anche se la divisione tra Impero Romano d’Occidente e Impero Romano d’Oriente era ormai una realtà funzionale già dai tempi di Diocleziano. Resta da capire se la grande strategia di Giustiniano era quella giusta. Edward Luttwack (7) fa notare che distruggere il nemico invece di farne un vassallo alleato significa dover combattere il successivo nemico (magari più forte) che occupa lo spazio vuoto e sostenere da soli lo sforzo militare, e infatti la politica imperiale successiva non farà mai più questo errore strategico; cercherà piuttosto di indebolire i nemici concedendo loro lo status di vassallo o di alleato e favorire le ibridazioni fra “romani” e allogeni. Quanto all’altro pregiudizio storiografico – quello cattolico – ha le sue ragioni profonde in quel processo di evoluzione genetica e culturale divergente che ha portato Latini e Greci cristiani a non parlarsi più per secoli, almeno fino al Concilio Vaticano II. Meglio un destino storico legato ai rudi Franchi e santificato da Roma piuttosto che una dipendenza da Bisanzio e dalla chiesa ortodossa, la quale altro non è che un cristianesimo orientalizzato. Da qui una “cattiva stampa” su Giustiniano, i suoi generali e i suoi esosi funzionari e l’esaltazione degli esperimenti di Teodorico, di Vitige e di Totila, sovrani guerrieri rozzi e stranieri, ma in fondo capaci di evoluzione e compatibili con l’ideologia monarchica sabauda (8), in parallelo alla denigrazione dei Greci infidi, corrotti e decadenti se non degenerati, più o meno come vengono rappresentati nell’Armata Brancaleone. Nella realtà i bizantini non si sono mai fatti chiamare così (a parte i residenti nella capitale), ma Romàioi, cioè romani, e si sono sempre considerati gli eredi di un’istituzione – l’Impero romano – che non è sparita come in Occidente, ma si è solo trasformata per adeguarsi ai tempi.
Ammettiamo ora, come suggeriscono alcuni specialisti (citati in nota 3), che la pandemia di Giustiniano vada ridimensionata. Non sono né archeologo né virologo, quindi non ho gli strumenti per confutare quei professionisti. Suggerisco però che gli effetti della pandemia siano stati amplificati dalla struttura stessa dell’Impero. Intanto, non è un caso che la peste non abbia devastato l’Europa d’oltralpe: poco popolata, priva di grandi centri urbani e di strade, quindi ha dato poco esca al contagio. Lo stesso vale per le zone desertiche a sud della Siria e della Palestina: le popolazioni arabe nomadi o seminomadi vivevano disperse in ampi spazi, e infatti saranno falciate solo un secolo dopo, quando conquisteranno le grandi città formicaio del Vicino e Medio Oriente e vivranno nelle stesse pessime condizioni igieniche dei popoli conquistati. Ma sul momento possono approfittare proprio della crisi sanitaria, demografica e amministrativa dei due imperi, Romano orientale e Persiano Sassanide. Lo stesso faranno nel Maghreb con le scarse difese dell’Africa romana, già riconquistata dalle tribù libiche dell’interno (come avvenne anche dopo secoli, quando la nostra conquista del 1912 fu messa subito sotto pressione dai discendenti delle stesse tribù). Ma torniamo al nostro Impero: anche se la peste avesse avuto danni limitati, ha comunque messo in crisi la testa di un’amministrazione molto centralizzata. I reggimenti erano ormai a organici ridotti, ma non funzionava più l’economia produttiva ed era paralizzato l’apparato statale che esigeva le tasse, reclutava, pagava e riforniva i soldati e le navi per trasportarli. Per un esercito barbarico o nomade era diverso: non si distraevano braccia dall’agricoltura, non si raccoglievano centralmente le tasse (da qui la lamentela sulla fiscalità bizantina) e non si dipendeva da una catena logistica estesa e complessa. E’ un po’ il problema che affligge oggi i tecnologici eserciti occidentali quando devono combattere conflitti di bassa intensità o viene interrotta la catena logistica. Sarà un caso, ma le difficoltà le abbiamo ancora negli stessi luoghi: Medio e vicino Oriente, Nordafrica.
Conclusioni: L’attuale pandemia da Coronavirus fornisce l’occasione per ripensare un fenomeno analogo avvenuto nel VI secolo d.C., che avrebbe influito profondamente sulla storia dell’Europa mediterranea. L’eccessiva centralizzazione dell’Impero Romano d’Oriente ne fu fortemente penalizzata e in pochi anni si scivolò realmente nel medioevo.
NOTE:
Procopio, Storia delle guerre ,Οἱ ὑπὲρ τῶν πολέμων λόγοι. Edizioni varie.
L’epidemia falciò anche l’imperatore Lucio Vero, della dinastia degli Antonini. E’ nota anche come “Peste di Galeno”, dal noto medico che la descrisse. Fu portata e diffusa dai soldati reduci delle guerre contro i Parti. Si vedano le analisi condotte dai virologi studiando le fonti storiche: La peste di Giustiniano, a cura di Sergio Sabbatani et alii, in Le infezioni in Medicina, 2012, 2, pag. 125 e segg.
Cito i contributi più autorevoli: Yersinia pestis and the Plague of Justinian (541-543 A.D.): a genomic analysis, David M. Wagner PhD, Jennifer Klunk BS et alii, in The Lancet. Infectious Diseases, Vol. 14, Issue 4, p. 319-326, April 1, 2014 < disponibile anche in web >. Per una revisione sono fondamentali: Mordechai, Lee; Eisenberg, Merle; Newfield, Timothy P.; Izdebski, Adam; Kay, Janet E.; Poinar, Hendrik (November 27, 2019). “The Justinianic Plague: An inconsequential pandemic?”. Proceedings of the National Academy of Sciences. 116 (51): 25546–25554. e il seguito: Mordechai, Lee; Eisenberg, Merle (August 1, 2019). “Rejecting Catastrophe: The Case of the Justinianic Plague“. Past & Present. 244 (1): 3–50.
Altre fonti: il giurista Agathias, l’ufficiale delle guardie Menandro, il retore Giovanni Malalas, il vescovo Vittorio di Tunnunna, Evagrio Scolastico di Antiochia, Giovanni da Efeso, lo Pseudo-Dionigi di Tell Mahre, il monaco Teofane (vissuto però nel IX secolo) e Paolo Diacono (id.)
Edward N. Luttwack, Great Strategy of Byzantine Empire, 2009, ed. Italiana: La Grande Strategia dell’Impero Bizantino. Milano, Rizzoli, 2009, pag. 101-107 e note bibliografiche. Qui cito dall’edizione italiana.
Luttwack, cit. E’ la tesi portante del suo libro.
Cito p.es. Il romanzo di Totila : primo re d’Italia / Guido Perale, 1960.
Cosa dire in questo periodo surreale,
con Roma vuota e tutti reclusi ai domiciliari? Cosa fare ogni giorno col
coprifuoco di 24 ore? A quali ricordi fare riferimento per affrontare una
situazione mai vista se non in tempo di guerra? Come convivere serenamente con
chi altrimenti vedevi poche ore al giorno? E quando finirà una situazione che
pareva breve? Ogni giorno prendo appunti e come tutti gli altri cerco di
capirci qualcosa, di dare un senso a questa reclusione. Non sono originale,
però vivo come tutti una strana situazione che mai avrei immaginato possibile;
da qui il bisogno di mettere nero su bianco la quotidiana esclusione dallo
spazio sociale. Ma dopo venti giorni al telefono ci diciamo tutti più o meno le
stesse cose, cioè poco, visto che poco possiamo fare. Chi ha figli può
approfittarne per avere con loro un dialogo, un rapporto più stretto; ma noi
siamo solo in due e la giornata è lunga, molto lunga. Cristina per fortuna ora
può lavorare da casa e lo fa con entusiasmo, per ore. E’ una bibliotecaria come
lo sono stato io, quindi spesso collaboro con lei nella revisione delle schede
di catalogo. Tutto in linea, ovvio. Ieri sera invece mi sono collegato via
Skype con un’associazione, e con mia sorpresa il collegamento funzionava bene.
Oggi invece è domenica e la rete è sovraccarica e ricorda i collegamenti di
vent’anni fa. Ma sia chiaro: vivo quello che vivono tutti, a Roma la situazione
è ancora sotto controllo e io non sono in prima linea come medici, infermieri e
volontari. Seguo ogni giorno le notizie e mi chiedo come mai abbiamo oggi più
morti dei cinesi (se non hanno barato: ieri sera abbiamo visto tanti, troppi
pallets con imballate le urne cinerarie da restituire ai parenti); telefono
ogni tanto agli amici del nord e mi rimangono indelebili sia le immagini dei
camion militari che portano via le bare che quelle di Papa Francesco che da
solo predica in mezzo a piazza san Pietro totalmente vuota, vera Lux in
tenebris.
Ma come si svolge la vita quotidiana?
Primo consiglio: di questi tempi è meglio la radio. Ogni giorno, su tutti i
canali tv e a tutte le ore non solo si parla soltanto di Coronavirus, ma ne
parlano anche persone in cerca di visibilità quanto prive di competenza, e il
bollettino di guerra della Protezione Civile da solo non dice tutto. Ma
l’epidemia di fatto monopolizza l’informazione, al punto che nulla più sappiamo
dell’assedio di Tripoli, dei combattimenti in Siria, dei migranti che premono
sui confini greci o dei barconi pronti a partire dalle coste nordafricane;
forse aspettano che finisca l’epidemia per riprendere le consuete attività.
Oppure, i nostri giornalisti hanno sviluppato una sorta di monocultura che
esclude tutto il resto.
Qualcuno si è scagliato con violenza
contro le metafore di guerra che stanno saturando il vissuto quotidiano e il
suo immaginario. Non abbiamo il diritto di paragonare tre settimane sbracati
sul divano con quello che patiscono in questo momento i siriani assediati o con
gli anni di guerra vera vissuti dai nostri genitori e dai nostri nonni. Per
salvare l’Italia nessuno ci ha ancora mandato al fronte e i soldati ora
impegnati nell’emergenza sono tutti professionisti. Anche se c’è fila, i generi
alimentari non sono razionati e ognuno compra quello che può. Non siamo esposti
a bombardamenti e in ogni momento possiamo comunicare liberamente con tutti e
ascoltare informazione senza apparente censura. Abbiamo tecnologie che ci
permettono di lavorare da casa e restare in contatto con tutto e tutti. Le
limitazioni alla nostra libertà individuale sono temporanee e almeno per ora
non c’è pericolo immediato di un’involuzione autoritaria delle istituzioni.
Strana guerra poi: identificato il nemico, sgombriamo il terreno invece di
occuparlo. Eppure le metafore belliche saturano il nostro immaginario e
informano il linguaggio dei politici, degli esperti, dei giornalisti, più
quello dei presenzialisti da strapazzo che la tv invita ogni momento in studio
o in video chat. Il motivo è semplice: esse hanno facile presa su una società
che non conosce più privazioni e ha quindi perso il senso della realtà.
Sicuramente la doccia fredda nessuno se l’aspettava e le conseguenze le
pagheremo per anni, e non solo economiche. In più già si registra una fioritura
di testi apocalittici e moralistici, con il supporto dei presunti complotti
diffusi via social.
Ma parliamo di noi. La cosa più
importante: organizzare la giornata. Uno deve darsi un programma, una
disciplina. Come insegna il servizio militare, se la struttura è improduttiva
bisogna imporle precisi rituali quotidiani. In famiglia non sempre funziona,
nel senso che, convivendo h24 da venti giorni, non sempre tutto procede secondo
tabella e se c’è un periodo in cui viene messa alla prova la tenuta della
coppia, è proprio questo. Fra qualche mese è scontato che aumenteranno le separazioni
e/o i neonati. Molti negozi e alberghi falliranno, ma non gli avvocati e le
ostetriche.
Regola due: curare l’igiene personale e
il proprio corpo, radersi, mettersi sempre in camicia e cravatta. Questo non
solo per mostrare un’immagine decente di se stessi quando ti chiamano via Skype
o in videochiamata WhatSapp, ma per mantenere un tono. Ricordo l’immagine di
copertina di un romanzo di Evelyn Waugh (mi pare Unconditional Surrender):
anche nel campo di prigionia l’uffiziale inglese mantiene la sua dignità, anche
se la sua divisa è ridotta a stracci. Niente di peggio che rimanere tutta la
giornata in pigiama: di sicuro quello è il sistema migliore per non combinare
niente.
Altra regola, guardare la televisione il
meno possibile: è ansiogena e invece di comunicare sicurezza riesce a scatenare
l’effetto contrario. Un solo argomento occupa tutti i canali a tutte le ore,
con la continua presenza di presenzialisti ed esperti che spesso tali non sono.
E’ una comunicazione sbagliata. Un mio amico invece mi manda ogni giorno il
numero dei bambini nati: almeno è un segnale di vita. Meglio a questo punto la
radio: più variata, priva di censura. La radio poi riempie il silenzio della
casa nei momenti più noiosi. Personalmente sono da sempre un affezionato radioascoltatore
e anche un po’ radioamatore, visto che ogni tanto una radio me la sono anche
fabbricata da solo con materiali di fortuna, come nei campi di prigionia.
Lavorare alla radio è il mio sogno e presto inizierò a collaborare con una web
radio (1).
Ma torniamo alla nostra vita chiusi in
casa. Mettiamola in ordine. Io e Cri abbiamo “scoperto” che, uscendo la mattina
e tornando solo la sera, casa è incasinata. Morale: è da tre settimane che
spostiamo roba, buttiamo borse e buste di plastica, mettiamo altra roba in
lavatrice e inscatoliamo soprammobili, ritroviamo collane, cravatte, foto,
distintivi, ricette mediche. Ogni giorno si lavano bagno e cucina, si
innaffiano piante e si levano foglie secche. La metà di quello che sta nelle
case è ripetitivo o non serve a niente. Purtroppo le case sono strutturate in
modo irrazionale, almeno in alcune parti: angoli morti e mobili con zampe basse
son solo trappole per la polvere; sotto i cuscini il divano cela telecomandi
per televisore, telefoni viva voce, penne biro e libri tascabili. In compenso
dentro armadi e cassetti ritrovo cavi di prolunga, chiodi e viti, barattoli di
vetro vuoti e quant’altro “potrebbe servire”: in tempi normali è l’anticamera
del barbonismo, ma non potendo uscire tutto è utile; in più realizziamo la
quantità e varietà di detersivi e detergenti che la parossistica colf ci ha
fatto ricomprare ogni settimana. Tocca poi ai flaconi di shampoo, ai medicinali
scaduti, ai dopobarba svaniti, agli alimenti dimenticati nel frigorifero, ai
verbali del condominio di due anni fa… e così via. Per poi passare a borse,
scarpe e vestiti. Un capitolo a parte meritano i capi di vestiario militari o
compatibili: prima o poi sparirebbero se non riuscissi a convincere mia moglie
che gli ho trovato posto, il che naturalmente non è vero.
Da ragazzino – intendo fino a dieci anni
– stavo spesso a casa, come tanti altri. La mattina a scuola, ma il pomeriggio
a casa. Di giocare a pallone per strada non se ne parlava, eravamo borghesi.
Quindi, fatti i compiti, molto modellismo Airfix e letture di ogni tipo, più i
giochi insieme ai miei fratelli: Meccano, Lego, soldatini e giochi da tavolo,
forse oggi rivalutati. In più il teatrino dei burattini – ma mia sorella aveva
il Pollock’s Toy Theatre, un teatrino inglese con figure in cartoncino che
ancora è in commercio (2). E sentivo molto la radio, visto che il televisore è
entrato a casa nostra quando ormai avevo quindici anni. Mia madre fu chiamata
dalla maestra che le disse “suo figlio è un bugiardo”. Nel tema sui programmi preferiti
avevo infatti scritto che nulla avevo da dire perché a casa nostra il
televisore non lo avevamo proprio, e questo negli anni del boom era
impossibile. In compenso, a casa nostra siamo cresciuti in piena autonomia di
pensiero.
Uscire per fare la spesa sembra un film
di Tarkovskij: strade deserte, macchine ferme, pochi sopravvissuti al disastro
di Chernobyl, tutti attrezzati con mascherine, sciarpe e occhiali scuri. Come
gli asiatici, ormai ci si saluta solo con un inchino e abbiamo capito perché. Nei
negozi c’è la fila come nella Jugoslavia di Tito; si entra uno per uno, mentre
passa qualcuno che porta il cane a pisciare per la dodicesima volta. Si
ricontrolla il modulo di autocertificazione, giunto già alla quarta edizione in
due settimane. Passa un autobus che trasporta aria e nel frattempo vediamo
uscire un cliente con cinquanta rotoli di carta igienica e litri d’acqua,
mentre la lista della spesa noi l’abbiamo dimenticata a casa. Una volta
entrati, fa un certo effetto vedere alcuni scaffali vuoti. Penuria? In realtà
la logistica della filiera alimentare è regolare, ma la gente compra tutto a
carrello pieno. I supermercati e negozi di quartiere sono forse le uniche
imprese che guadagnano più di prima. Per gli altri saranno mesi molto duri:
niente clienti ma l’affitto corre e i lavoranti saranno mandati a casa. Dopo la
pandemia la carestia. Alla faccia dell’estetica: le città italiane – stupende ma vuote – ricorderanno pure le
foto di Alinari e hanno sicuramente il loro fascino, ma con negozi, uffici,
ristoranti e alberghi chiusi sono città morte. Perlomeno un mio amico cineasta
ne ha subito approfittato per girare un incisivo cortometraggio, che consiglio
a tutti:
In mancanza di un pianoforte (mentre mia
suocera ne ha due), altra attività quotidiana è la lettura. In molte case è impossibile
concentrarsi, e anche per questo esistono le biblioteche pubbliche. Casa nostra
è invece adatta per leggere, scrivere e studiare: abbastanza grande e
silenziosa, piena di libri ma senza bambini, con vicini educati e cantieri
fermi. E’ anche il momento di ricomporre le collezioni e dedicarsi a un hobby
arretrato. Un bel tavolo napoletano d’antiquariato è diventato lo smart office,
ma nel tempo libero (!) anche le affollate foto scattate a inizio marzo
sembrano appartenere a un’altra epoca. Si riprendono i contatti con amici,
parenti, compagni di scuola e di naja e persone che non chiamavamo da mesi. Si
cerca di interpretare i comunicati del Governo, lunghi e prolissi, che
rimandano ad almeno altri dieci tra leggi e comunicati precedenti, come se a
casa avessimo uno studio legale. Ricordo invece le poche, scarne regole che
Churchill fissò nel 1940 per la stesura dei documenti e che anche oggi
dovrebbero esser rese obbligatorie: la materia va divisa in scarni paragrafi
puntati; analisi dettagliate e statistiche vadano in allegato; si presenti solo
un promemoria con intestazioni, da
espandere a parte o verbalmente; evitare giri di frase inutili e dire le cose
con poche parole, prese anche dalla comune lingua parlata. Questo intervento
s’intitolava molto opportunamente
“Brevity” (3).
* Abbiamo anche tempo per meditare, per pregare. In fondo si viveva così d’inverno in un villaggio in montagna. Non si poteva uscire né fare i lavori agricoli, a parte la cura del bestiame. I social erano le osterie, le birrerie e i pub, oppure la parrocchia. In val Gardena tutta la famiglia d’inverno si dava alla lavorazione creativa del legno, in campagna la sera si raccontavano storie, e sicuramente Omero aveva più da spartire con loro che con noi. La mia famiglia non ha comunque origini contadine, quindi sull’argomento non ho nulla da dire. Ricordo invece quando mia madre mi parlava del coprifuoco nella Roma occupata dai Tedeschi, del razionamento e della fila davanti ai negozi. Papà ogni tanto citava “er beciainigung” (= Bescheinigung, il lasciapassare rilasciato dalle autorità militari tedesche) che aveva indosso come Guardia Palatina di Sua Santità e che ho pure ritrovato tra le sue carte. Ma sono ricordi scarsi, visto che della guerra a casa mia si parlava poco: piuttosto ero io, per i miei interessi storici, a sollecitare la loro memoria. E fu così che nonno mi affidò in vita le foto e i diari di guerra, che a suo tempo ho fatto anche pubblicare (4). E se continua così, di libri ne scriverò altri.
NOTE:
(1) https://www.bibliolorenzolodi.it/radio-giano/
(2) https://www.pollocks-coventgarden.co.uk/categories/toy-theatres/
(3) http://executivesummary.it/siate-brevi-please/
(4) Soldati e cannoni : diario e fotografie di un ufficiale di artiglieria / a cura di Enrico Acerbi e Marco Pasquali . 1996
In
questo momento le sale cinematografiche sono vuote per paura del Coronavirus,
ma di film con epidemie è piena la storia del cinema. Scarto però in anticipo
le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso illustrano, non
interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in scena, sfruttando le
enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel ricostruire ambienti e
scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino Visconti
(1971) o ancora de L’amore ai tempi del
colera (2007). Detto questo, quali sono i soggetti originali per una
rassegna di cinema “epidemico” ? Sono per la maggior parte film di
fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove virus e batteri
sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. La gente andava a vedere L’ultimo uomo sulla Terra – The Omega Man, che ha visto ben tre
adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954 da Richard
Matheson col titolo Io sono leggenda
(1954), narra di un’epidemia causata da un batterio che trasforma tutti gli
umani in vampiri. Il solito meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è
Robert Neville, che si barrica e si difende a modo suo. Una curiosità: la prima
versione fu girata all’EUR. Ma parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato
George Romero: La città verrà distrutta
all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in questione, è
stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli abitanti
diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in attesa che lo
sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang
Petersen. Il virus nasce in Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce
gli Stati Uniti si reagisce con energia (più chiaro di così..) e parte la
caccia per rintracciare la “scimmia zero” da cui è partita l’infezione e così
produrre il vaccino. E sempre le scimmie le rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry Gilliam
(1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe dopo la
pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willis) nel 1995, a
pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga e riferisca. Nel
film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due anni
dopo esce Il Quinto Elemento di Luc
Besson e ricompare proprio il nostro Bruce Willis, stavolta nell’impresa di
salvare il mondo dal Male Supremo, evocato da uno sconsiderato scavo archeologico.
Il film è intricato e mischia anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al
genere catastrofico, dove l’elemento di base è che la minaccia letale per gli
umani proviene sempre da fuori. Andiamo avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi
ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare
loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28 giorni dopo (2003), di Danny Boyle,
dove stavolta il virus è stato creato in laboratorio e sperimentato su
scimpanzé che scappano in giro (ancora scimmie, ma che fantasia!). Manco a
farlo apposta, in quell’anno scoppiò l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh,
vero uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema
respiratorio e si trasmette velocemente con una stretta di mano…
Cosa
resta allora che non sia film di genere? Beh, nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957) siamo in piena epidemia di
peste nera, tant’è che il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con
la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo
meno schematico. In Orfeo negro (1959)
di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto
dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più
stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria
due film che ci proiettarono a scuola, alle elementari. Il primo era
avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre
nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il vaccino contro la
difterite. Non ricordo il titolo, ma ho scoperto che Balto, uno dei leggendari
husky della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento
al Central Park di New York. L’altro era un tetro film giapponese del
dopoguerra: Una lettera per Tezuò.
Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e giuro che ancora
mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è
cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa
convincermi a cambiare idea sui vaccini.
Mi
piace però concludere in modo ancor più indiretto: con un film ungherese che di
epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982,
ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa
significa il rallentamento della vita sociale urbana dovuto a un traumatico
evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine
della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.
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