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Il Turista nudo di Osborne

Gli anglosassoni hanno un tipo di scrittori da noi raro: il viaggiatore. Penso agli statunitensi Bill Bryson, Paul Theroux, William Least Heat-Moon, al gallese Jan Morris, agli inglesi Bruce Chatwin, Eric Newby, Wilfred Thesiger, Lawrence Osborne e Colin Thubron. Favoriti dalla loro indole di esploratori e protetti dall’espansione stessa delle loro nazioni, hanno sviluppato una letteratura unica nel suo genere, alla quale noi italiani – ben più provinciali – possiamo affiancare solo Tiziano Terzani. Fra questi autori scelgo oggi Lawrence Osborne, proponendo Il Turista nudo (2006), dissacrante panoramica del mondo attuale. Lui è un nomade, ma “il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare”: ormai il pianeta è un grande parco a tema o un’installazione turistica spacciata per natura incontaminata ma ormai priva dell’esotismo portato avanti dalle conquiste coloniali, quando il viaggiatore poteva scoprire il favoloso Oriente o l’Africa misteriosa senza rischiare di essere rapito o ucciso dai talebani o da qualche oscura banda locale, purché viaggiasse con la Thomas Cook e alloggiasse in quei monumentali alberghi con enormi viali e giardini curati da centinaia di lavoratori-schiavi. Tuttora si trovano al Cairo o a Bombay o Calcutta (pardon: Mumbay e Calkata), veri fortilizi di lusso dove godere di tutti i servizi necessari per un europeo ed evitare di essere infastidito e inseguito dalla folla dei poveri non appena girato l’angolo, cosa che è normale anche adesso: l’autore cita l’antropologo Claude Levy-Strauss ma si trova pure lui nella stessa situazione. D’altro canto la popolazione locale viene sempre incontro al turista e gli vende tutto, magari pure le figlie. Il viaggiatore e/o turista vorrebbe che se non tutto, almeno qualcosa fosse autentico, ma quando l’autore descrive Bali come una capitale del vero artigianato balinese ad uso del turismo e non ne può più della musica “barong”, che dire? Bali è un museo vivente, ma d’altro canto il mercato non sa che farsene del resto dell’Indonesia, musulmana e magari anche fondamentalista. Nelle isole Andamane (arcipelago indiano), già battute dalla Mead, alcune popolazioni sono ghettizzate (oppure ostili di suo) ma in un certo senso protette dal turismo. A Dubai l’opposto: è un vero luna park costruito dal nulla, tutto è nuovo (e kitsch), avveniristico, un miracolo strappato al deserto grazie al petrolio. Ma vale davvero la pena di andarci? Tutto è futuro, ma la classe dirigente è rimasta medievale. Altrove poi l’architettura non è così avveniristica: i simboli dell’antica Roma e Atene il colonialismo li ha usati per dare uno stile imperiale al dominio sugli altri (almeno fino alo 1950), ma di quei simboli si sono riappropriati i parvenu dell’indipendenza per dare vigore al progetto sociale e politico da loro giustamente proposto. Alla fine ne viene fuori un insieme di decadenza e consumismo, di generose aspirazioni politiche e sociali unite alla dipendenza dal denaro esterno. Il turismo mondiale muove 500 miliardi di dollari, quindi è la più grande industria del pianeta. Ma pochi sanno che le Maldive sono state letteralmente inventate nel 1972 da un gruppo di imprenditori italiani ed ora sono quello che sono. Osborne lo fa notare ed è abbastanza grande (1958) da ricordare molti luoghi prima che arrivassero le cavallette. In sostanza, nel mondo metà della società lavora per intrattenere l’altra metà, relegando la cultura e la reale esperienza del viaggio a settore residuale: l’importante è divertirsi e ci sono città come Bangkok che lui ribattezza “Edonopoli”, la città del piacere. Eppure la Thailandia (già Siam) non è mai stata colonia di nessuno. Osborne descrive ogni volta questi resort dove si può avere e fare di tutto, anche cambiare sesso o pagar poco un bravo dentista (noi italiani invece andiamo in Croazia). Tutto è artificiale ma inserito nella natura allo stesso tempo, così vuole lo standard del luogo incontaminato ma “comodo”, a meno di non scegliere Avventure nel Mondo e altre agenzie che comunque sorvegliano e proteggono il viaggiatore. Turista e viaggiatore ovviamente non sono la stessa cosa: il primo consuma ma resta un frettoloso estraneo, il secondo si suppone abbia interessi e curiosità più produttive. E’ il fascino di visitare i posti dove nono sono stati (ancora) gli altri, di interagire con il diverso. Eppure anche Osborne fatica a trovare i reali parametri della sua esperienza conoscitiva: inizialmente l’altro si pone sempre in modo di soddisfare le aspettative del nuovo venuto, vuoi per servilismo opportunista (chi ha viaggiato in certi paesi lo sa), vuoi per non essere invaso e mantenere il suo mondo religioso e parentale lontano  da occhi indiscreti. Osborne cita spesso Claude Levy-Strauss e Margaret Mead, grandi antropologi (la Mead tra l’altro è stata la prima a iniziare gli studi di genere oggi tanto popolari) e anche pessimisti sulla possibilità che trenta anni dopo le popolazioni di livello etnico visitate a suo tempo non fossero state corrotte dalla civiltà moderna (si cita spesso Tristi tropici di Levy-Strauss). Ma parlando strettamente di industria del turismo, avviene paradossalmente quanto diceva Walther Theodor Adorno a proposito delle avanguardie: l’avanguardia (qui: il turismo) deve continuamente andare avanti cercando nuove mete “vergini” da presentare come nuove, esotiche, incontaminate, altrimenti dopo pochi anni si cade nel già visto, nella ripetizione, nella colata di cemento e nel kitsch dei negozi di souvenir. Nessuno oggi definirebbe le Hawaii esotiche, lo erano duecento anni fa prima di diventare un’americanata. Nessuno crede oggi nell’originalità dell’artigianato veneziano (prodotto in Cina), ma ancora crede in quello balinese, non fosse perché gli artigiani sono veri e lavorano in modo tradizionale (parliamo di stile, non di tecniche e utensili). Un capitolo del libro s’intitola “un paradiso artificioso”, l’altro “La spa”. Già, perché l’ossessione per il corpo e per i centri di salute e benessere crea un indotto enorme e anche piacevole, diciamolo, almeno per chi se lo può permettere. Ai ricchi piacciono i resort fortificati e ho sottomano l’immagine di Rondoni (Mamula in slavo), una fortezza costruita su un’isola a protezione dell’accesso alle Bocche di Cattaro (Montenegro): ora è un resort esclusivo e costosissimo, ma da lontano sembra un penitenziario. Ben diverso dagli alberghi indiani che Osborne descrive senza sconti: gestiti dallo Stato, servono solo a dar lavoro ai giovani ma non garantiscono nemmeno sapone e lenzuola, articoli per i quali l’autore litiga e mercanteggia ogni volta. Sorprendente anzi la disinvoltura con cui sa passare daagli alberghi a cinque stelle (pagati dall’editore?) alle stamberghe dove meglio è mettere il tappo al lavandino per evitare la ronda dei bacarozzi (da me sperimentata in Turchia, ndr.). E da buon inglese, sorseggia sempre e ovunque un buon whisky, come Il nostro agente all’Avana di Graham Greene

L’ultimo capitolo però è diverso dagli altri: l’autore, dopo un’opportuna preparazione, decide di vivere per qualche tempo in Papua Nuova Guinea, uno dei posti meno turistici del mondo, privo com’è di strade. Eppure vi si parlano più di 800 lingue diverse e c’è una varietà di colture e culture sorprendente. L’autore si appoggia a una vecchia missione evangelica per addentrarsi nell’interno, con il necessario supporto di guide locali. Gli indigeni vivono nella foresta da millenni e la sanno lunga, al punto di studiare loro il “diverso” che hanno davanti. Ed ecco le osservazioni finali:

Tornando a Tambunam ho capito in modo molto chiaro che la vita e la cultura di un popolo si possono cogliere solo vivendo fino in fondo tutta una serie di intensi rapporti personali. Solo attraverso l’intreccio delle vite possiamo sperare di capire bisogni profondi , quali la continuità, la ripetizione delle esperienze e l’intimità”.


Il turista nudo
Autore: Lawrence Osborne
Traduttore: M. Codignola
Editore: Adelphi, 2006, pp. 272
Pezzo: 22,90 €

EAN:9788845920677


Immagini di corpi che danno voce ai borsisti

L’esposizione è caratterizzata dalla diversità delle pratiche artistiche rappresentate, dalla letteratura alla creazione sonora, alla scultura, al restauro del patrimonio, all’architettura, alla fotografia e al video. Dall’ampia gamma di progetti emergono alcuni temi ricorrenti: il mondo vegetale, il corpo e le sue trasformazioni, le forme di resistenza, la dialettica tra esterno e interno, senza dimenticare la figura di Roma, città reale e fantastica.

Durante il loro anno nella capitale, i borsisti sono incoraggiati a vivere la residenza come un laboratorio di sperimentazione, che offre l’opportunità di condurre una ricerca a lungo termine, di esplorare nuove strade e di lasciarsi sorprendere e coinvolgere dai risultati degli incontri con altre pratiche artistiche e altre geografie. La mostra è un’estensione di questa esperienza, nonché un’opportunità per mettere in discussione il modo in cui vengono presentati i progetti che non rientrano nelle categorie espositive convenzionali.

Dalle oscurità sotterranee ai gorgoglii dell’acqua, dalle interpretazioni architettoniche dell’Antica Roma, con un’installazione di pietre, alle riflessioni sull’esilio di Hamedine Kane, (nato in Mauritania, vive tra Dakar, Bruxelles e Parigi,) propone un intervento sulla post-indipendenza di alcuni Paesi africani, con afro-nostalgia e afro-utopia, recuperando dall’Archivio Luce la testimonianza sul “Congresso mondiale degli scrittori” tenutosi a Roma nel 1959, portando avanti un progetto di ricerca su tre grandi scrittori afroamericani esiliati a Parigi nella seconda metà degli anni Quaranta e un sogno di libertà che stava per avverarsi.

Kapwani Kiwanga è un’artista franco-canadese che ha studiato antropologia e religione, con un progetto performativo “Remédiations” per affrontare il tema delle terre tossiche o contaminate e la possibilità di poterle curare, così come le nostre abitudini tossiche possono essere modificate per essere più sane.

Il mondo vegetale è al centro dei racconti raccolti dalla scrittrice Céline Curiol, che presenta, attraverso una postazione di ascolto, il racconto di storie d’amore aventi come pretesto, o oggetto, piante e fiori, raccontate delle voci di chi voleva offrirgliele. Anche il corpo, nei suoi diversi aspetti, rientra tra i temi affrontati da diversi residenti.

Il corpo visto da Jean-Charles de Quillacq attraverso i manichini mutilati, tra desiderio, allucinazioni, sdoppiamento, scomparsa, frammentazione, mimetismo sono alcune delle tecniche con cui il corpo supera i suoi limiti e si fonde come forma tra le forme. tre le sculture presentate sono state progettate per la mostra: organismi desideranti ed erotici che trasformano con la loro presenza lo spazio che occupano. Come spesso accade, una volta ricollocati nel laboratorio assumono una funzione scenografica per una performance dell’artista filmata da Ismaïl Bahri.

Séverine Ballon, musicista e compositrice, ha frequentato negli ultimi mesi il mercato di Piazza Vittorio, registrando le voci di chi lo anima e restituendo la loro presenza sotto forma di installazioni sonore e performance. Suoni casuali che incontrato i suoi per essere raccolti in una sorta di diario di voci canti parole che le ha raccolto durante un anno di frequentazione del mercato, incontrando la vivacità di un’ora prima del momento della chiusura, quando le associazioni di volontariato si occupano della distribuire il cibo e rimasto invenduto.

Laure Cadot presenta un calco in 3D del proprio cranio, per una sorta di test effettuato sulla propria persona, mettendo in discussione l’opportunità di presentare dei resti umani in un contesto espositivo, grazie anche a una serie di materiali di studio sul dibattito.

Il percorso si completa con le riflessioni di due scrittori. Justinien Tribillon con la sua riflessione sul rimpossessarsi del tempo nel ritagliarsi dei frammenti di pausa, all’interno dell’orario lavorativo, e dei materiali che trovano attorno a loro per dare forma alla propria creatività.

Mentre Pierre Adrian intervista Julie Hascoët, autrice delle fotografe capaci di raccontare i cambiamenti del paesaggio delle cave di marmo di Carrara: i luoghi raccontano la storia, l’economia, la politica di un paese; e, oggi, queste montagne rappresentano, più che un ricordo della Resistenza, il simbolo di un’abdicazione alle multinazionali straniere che acquistano terreni fino ad allora considerati bene pubblico e patrimonio dell’umanità.


A più voci
Mostra dei borsisti di Villa Medici
Dall’8 giugno all’8 settembre 2024

Accademia di Francia (Villa Medici)
viale della Trinità dei Monti, 1
Roma

A cura di: Cecilia Canziani e Ilaria Gianni, con Giulia Gaibisso (collettivo IUNO)

Con i 16 borsisti in residenza a Villa Medici:
Pierre Adrian, Mali Arun, Ismaïl Bahri, Séverine Ballon, Hélène Bertin, Alix Boillot, Madison Bycroft, Laure Cadot, Céline Curiol, Ophélie Dozat, Hamedine Kane, Kapwani Kiwanga, Laure Limongi, Morad Montazami, Jean-Charles de Quillacq, Justinien Tribillon

Informazioni:
tel. +39 06 67611


Quando in Libia entravamo come clandestini

Nelle mie ricerche di archivio nell’Ufficio Storico della Marina ho trovato alcuni documenti che riguardano le sorti della comunità italiana in Libia nel 1946 (1). In Libia era presente almeno lungo la costa una significativa comunità italiana formata soprattutto da agricoltori, artigiani, operai, pescatori e piccoli commercianti, più i militari e i funzionari dell’amministrazione coloniale. Erano circa 120.000, concentrati soprattutto intorno a Tripoli e Bengasi. Mussolini incoraggiò la creazione di grandi aziende agricole affidate a coloni veneti e meridionali e Balbo avrebbe voluto portare la colonia italiana – già il 13% della popolazione libica – a 500.000 unità, e forse ci sarebbe anche riuscito se non fosse finita come sappiamo: lui abbattuto dal fuoco amico (?), la Libia persa con la guerra. Gli Inglesi in un primo tempo lasciarono la situazione come era, visto che solo i coloni italiani potevano far funzionare quelle aziende agricole, ma gli sfollamenti di guerra e l’ostilità dei locali spinse molti a tornare in Italia. Così un altro rapporto riservato descrive la situazione a Roma (2) :

“La posizione dei profughi italiani d’Africa (ex colonie, Etiopia, Tunisia) è accuratamente seguita dal P.C.I.  – E’ da tener presente che questi profughi, malgrado la loro indigenza e la loro classe sociale (si tratta in genere di contadini, operai e piccoli artigiani, accolti nei campi profughi di Cinecittà a Roma e altrove nel Mezzogiorno) non sono in genere favorevoli alle ideologie dei partiti di sinistra, per l’atteggiamento anticolonialista di questi movimenti. Inoltre sono ancora troppo radicati in questi ex-coloni d’Africa i benefici ricevuti durante l’ex-regime fascista e il passato ricordo del prestigio degli italiani in Africa”.

Il documento prosegue descrivendo l’infiltrazione degli attivisti del P.C.I. tra quelli che, pur definiti “fascisti” e “colonialisti”, potevano comunque convertirsi alla causa. Nel documento si fa anche cenno al tentativo di togliere all’ex-Ministero delle Colonie l’assistenza ai profughi d’Africa per trasferirla al Ministero dell’Assistenza Post-bellica, diretto dal comunista Sereni, “onde eliminare dalla scena sociale una massa di individui, fatalmente portati a giustificare il colonialismo (o “imperialismo”) e a sostenere il ritorno italiano in Africa”. Analisi fredda ma storicamente corretta.

Ma molti italiani cercavano invece di ritornare in Libia per ricongiungersi con la loro comunità e tornare al lavoro nelle piccole industrie e nelle aziende agricole, che il rapporto definisce produttive:

“Alcune industrie si sono avvantaggiate della interruzione delle importazioni dato che, per compensare sul mercato la mancanza di merce di produzione italiana, lavorano a pieno ritmo. Nelle campagne, i cui raccolti delle ultime tre annate sono stati buoni, i coloni proseguono il loro lavoro malgrado la crisi dei prezzi dovuta a sovra produzione”.

Quello che oggi suona paradossale è l’ingresso clandestino dei nostri coloni:

“L’immigrazione degli italiani è un argomento che sta particolarmente a cuore alla nostra comunità, giacché molti sperano di riavere famigliari e parenti a suo tempo rimpatriati. L’ostilità degli arabi verso questi ritorni è alimentata dai partiti di ispirazione straniera, e3 specie dal Fronte di Unità Nazionale. L’Amministrazione ha largamente immesso nei reparti di polizia guardacoste personale arabo per controllare l’immigrazione clandestina. Secondo voci correnti, gli italiani che approdano clandestinamente, se sorpresi da arabi vengono anche derubati e malmenati. Il periodo di punta degli sbarchi clandestini in Tripolitania fu lo scorso agosto: in tal mese si calcola che siano entrati centinaia di italiani. Si ebbero proteste dei capi di partito arabi, ma non ci furono manifestazioni di ostilità da parte dell’opinione pubblica. Fino ad oggi gli immigrati clandestini sono stati circa 2.200, dei quali circa 300 rinviati in Italia. Le autorità hanno però dichiarato che in avvenire tutti quelli che tenteranno illegalmente lo sbarco saranno respinti”.

Situazione delicata: nel Trattato di Pace del 1947 l’Italia dovette lasciare libere dalla sua occupazione coloniale tutte le sue colonie, ma nel 1946 era stato un vano tentativo di mantenere la Tripolitania come colonia italiana assegnando la Cirenaica alla Gran Bretagna ed il Fezzan alla Francia; fino al 1951 la Gran Bretagna amministrò Tripolitania e Cirenaica, e la Francia il Fezzan, in gestione fiduciaria delle Nazioni Unite, mentre la Striscia di Aozou (ottenuta da Mussolini nel 1935) venne riconsegnata alla colonia francese del Ciad. Il finale della storia lo scrisse Gheddafi nel 1969, spodestando il vecchio re Idris, messo su nel 1951 dagli inglesi per via del petrolio, e fondando un regime durato fino al 2011. La colonia italiana – ormai circa 35.000 persone – fu cacciata nel 1970 e i loro beni confiscati.

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Note

  1. Fondo Santoni, Ufficio Trattati, Notizie sulla situazione in Tripolitania, copia del promemoria C3/H n. 230 del 14 novembre 1946.
  2. Fondo Santoni, Ufficio Trattati, La posizione dei profughi italiani d’Africa e il P.C.I., copia del promemoria C3/H n. 236 del 13 dicembre 1946.

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Saverio Ungheri: Il pulsante respiro dell’Arte

Non esiste solo la militanza politica o la critica militante modello anni ‘70 – ‘90, ma anche la militanza artistica, non solo basata su di un messaggio sociale o politico, ma quella aperta ad altri artisti, capace di andare oltre una individuale elaborazione, per una discussione comunitaria, rimanendo sospettosa verso gli altri artisti.

La militanza artistica vera, quella aperta agli altri, è quella che Saverio Ungheri ha portato avanti per anni, offrendo il suo spazio, il suo “Polmone Pulsante”, ad altri artisti la possibilità di mostrare i propri lavori in uno spazio espositivo avulso da burocratismi.

Il “Polmone Pulsante” era l’antro dell’artista-archimista Saverio Ungheri, salotto per disquisire di arte e di altro, passando dal tenebroso luogo dell’inventore di macchine, alla luminosità del palazzo per acquisire una nuova visione delle opere, non tanto di quelle pittoriche, ma soprattutto quelle robatiche.

Uno spazio, quello di via Merulana, dove la selezione di opere pittoriche, con una frammentazione a bande orizzontali o verticali per un’idea di finestre, si aprono a nuova vita e possono godere di un ampio confronto con i marchingegni robotici, con la sensibilità verso l’ambiente, individuando molti anni orsono la plastica come un pericolo, con la pittura Metapsitica e l’Astralismo di forme e colori.

Il “Polmone Pulsante”, grazie al figlio Andrea, ritornerà ad essere luogo di confronto artistico, dove ammirare le opere nello strano mondo del “protoscienziato” Saverio Ungheri e scoprire la Roma antica della salita del Grillo, dove un tempo sorgeva la chiesa di San Salvatore delle Milizie.


Saverio Ungheri
Visioni Metapsichiche
Dal 12 giugno al 25 agosto 2024

Palazzo Merulana
Roma

A cura di Andrea Romoli Barberini
In sinergia con Fondazione Elena e Claudio Cerasi e CoopCulture


Alla ricerca degli artisti perduti 9

LUIGI CRISCONIO (1893 – 1946)

Iscritto nel 1913 all’Accademia di Belle Arti di Napoli, se pure per temperamento fu avverso alla pittura accademica, fu grande ammiratore di Michele Cammarano, usufruendo del suo prezioso insegnamento.
Continuatore del tradizionale “Vedutismo” meridionale, se ne discosta per una vena tutta sua di disincantata malinconia in cui la tecnica eminentemente impressionista assume valenze di sintesi che saranno più tardi di un Sironi, di un Carrà.
Fu presente poi in importanti esposizioni in Italia e all’estero.
Non molto amato dalla critica ufficiale per la sua visione di un paesaggio che allude a venature crepuscolari e più introspettive, come solitamente accade, dopo la sua morte fu ampiamente rivalutato come addirittura il più grande pittore napoletano del XX secolo!

EGON SCHIELE (1890 – 1918)

Schiele è stato un “caso” a sé: intelligenza creativa e visione originalissima della realtà figurativa in modi precocissimi e già risolutivi fin dall’inizio del suo breve percorso artistico.
Espressionista fin dal profondo di sé, provenendo dai preziosi languori del Decadentismo europeo (Klimt ), ha subito preconizzato gli sviluppi della nuova figuratività nella drammatica interiorizzazione di un eros non felice né compiuto, come slancio disperato che ha in sé le conseguenze del “cupio dissolvi” della musica di Mahler, intuizione del germe mortale che già si insinua nei pallori, nei lividi verdi dei suoi adolescenti colti nella muta stupefazione del proprio esistere già contaminato dalla consapevolezza della propria fragilità.
Tutti esiti figurativi di altissima qualità che fanno di Schiele la promessa mantenuta dell’enfant prodige del neonato espressionismo, e per gli sviluppi imprevedibili che purtroppo non furono realizzati per la sua giovane vita recisa ad appena 28 anni dalla terribile “Spagnola”, la peste europea che tante vite distrusse nei primi venti anni del ‘900!

MARIO SIRONI (1885 – 1961)

La pittura di Sironi che tanto amo, forte, densa,quasi sbalzata dalla tela, con le sue stesure di terre corpose e calde, nella solitudine sospesa di una città in attesa di un evento surreale che pure non verrà; una solitudine che sa di silenzi e antiche malinconie.

Markus Yakovlevich Rothkowitz detto MARK ROTHKO (1903 – 1970)

…E’ INCREDIBILE COME IN ROTHKO STESURE APPARENTEMENTE PIATTE EVOCHINO INVECE PROFONDITA’,PIANI E PROSPETTIVE INSONDABILI E SORPRENDENTI: E’ LA STESSA MISTERIOSA PROFONDITA’ DELL’ANIMA CHE SI MANIFESTA…Non c’è la figura,né uno spazio determinato da coordinate prospettiche, ma c’è lo spazio dell’interiorità animica: il mistero più antico e arcano dell’Universo…..ed è sepolto in noi!