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Meglio soli che…

Trovi un romanzo intitolato “La solitudine del ghiaccio” e pensi di leggere un libro ambientato in luoghi come la Groenlandia, o l’Alaska magari. Invece no, l’ambientazione spazia ampiamente, partendo da Vancouver, per poi andare in montagna tra la neve, in una riserva naturale e perfino in mare, nell’oceano; di ghiaccio insomma, molto ma molto poco.
Al che torni al titolo e ti chiedi: “Ma quindi dove sta questa fredda solitudine?”.
La risposta, o le risposte, stanno tutte nella protagonista di questa storia che è anche la narratrice, Nora Watts, quarantenne, receptionist e assistente di un giornalista e di un investigatore privato che condividono lo stesso studio. Segni particolari: lineamenti da nativa americana il cui aspetto insignificante la rende invisibile agli occhi della gente, o almeno lei lo crede.
Per come si racconta fin dall’inizio si capisce da subito che la protagonista è l’emblema della solitudine, tale status le appartiene completamente salvo la strana compagnia del suo cane, altro personaggio molto interessante. Pagina dopo pagina diviene sempre più evidente che passato e presente si fondono in questa condizione che sempre ha afflitto Nora, abbandonata dalla madre, con un padre defunto e rifiutata dalla sorella. Non dimentichiamoci però della figlia data in affidamento subito dopo la nascita, anche perchè quest’ultimo fattore è quello intorno a cui gira tutto il romanzo, del resto si sa, il passato torna sempre a bussare alla tua porta e quando lo fa per dirti che tua figlia è scomparsa la questione diventa seria, soprattutto se a farlo sono i genitori che l’hanno adottata e cresciuta.
Da quel che inizialmente può sembrare un caso di scomparsa per problemi in famiglia, la situazione inizia a ingigantirsi quando saltano fuori società di sicurezza e investigazione privata, industrie di estrazione mineraria e, peggio di tutto, giornalisti assassinati.
La storia di Nora è triste e lei non risparmia i dettagli nel raccontarla e il più importante di questi, lo stupro subito da giovane, è il filo conduttore di tutta la storia, è la genesi di una ricerca che ha riportato i genitori adottivi a lei, i rapitori alla figlia e i mandanti a entrambe. Il romanzo è talmente ben scritto che sarebbe un peccato anticipare qui tutti i motivi che hanno portato la protagonista ad adottare quel suo stile di vita, così come i punti di forza su cui l’autrice ha costruito la trama.
Eh già c’è anche un autrice, ma è stata talmente convincente nel raccontare la storia che alla fine Nora sembra reale, rendendo il romanzo quasi autobiografico.
L’autrice si chiama Sheena Kamal ed è al suo debutto editoriale. Nata ai Caraibi e cresciuta in Canada la scrittrice ha lavorato come giornalista investigativa, il che rende chiare le tematiche scelte nel suo romanzo così come è evidente tra le righe il suo attivismo in favore dei senzatetto. Ebbene sì, nel passato della protagonista c’è anche quello.
Come vedete di cose da leggere ce ne sono tante nelle pagine di questo romanzo dall’aspetto noir e avvolto in una cupa atmosfera che riesce comunque a strappare anche qualche sorriso. Il carattere della protagonista è tutto fuorché amorevole, eppure riesce a suo modo a farsi apprezzare, complice forse la narrazione in prima persona.
Ci sono ovviamente anche altri personaggi che accompagnano Nora nella sua vicenda ma elencarli qua non ha senso. Meglio scoprire pagina per pagina chi sono i suoi datori di lavoro, il suo sponsor, sua figlia, i buoni e i cattivi.
Rimane da capire dove collocare la parola “ghiaccio” che tanto colpisce nel titolo… Buona lettura.

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Titolo: La solitudine del ghiaccio
Titolo originale: The lost ones
Autrice: Sheena Kamal
Traduttore: S. Arieti

Editore: HarperCollins Italia, 2017, pp. 379

ISBN-10: 8869052648
ISBN-13: 9788869052644

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Campo de’ Fiori: La Movida (2)

Una sera a casa di amici, ormai quasi tutti in età di pensione. Ognuno di noi abita all’altro capo di Roma – ma è ancora Roma? – e ogni tanto si organizza una rimpatriata; ormai i figli son grandi e vanno per conto loro. Stasera anche gente nuova, un paio di amiche di un’amica di mia moglie. Si chiacchiera, si commenta la cronaca. Si parla anche dei due carabinieri coglioni che a Firenze si sono approfittati delle due studentesse americane ubriache. Questa signora si ricorda pure di aver sentito da un’amica la storia di due ragazze canadesi che trent’anni anni prima si erano fatte sbattere a una festa da qualche parte a Campo de’ Fiori. E qui drizzo le orecchie: al Campo ci ho vissuto per anni prima di sposarmi. In più, sapendo bene l’inglese, ho spesso lavorato proprio con studenti americani. Brutta storia: le avevano fatte bere o molto probabilmente quelle avevano alzato il gomito da sole, ma c’era pure qualche canna di mezzo. La voce narrante quella serata se la ricordava benissimo: sul tardi era sconfinata in un “mezzo” stupro. Anche lei aveva bevuto, ma certo meno delle due straniere. Tanto per capirci, in genere sono brave ragazze, spesso figlie di professionisti, ma quando arrivano in Italia scoprono che possono bere tutto l’alcool che vogliono a qualsiasi ora e in qualsiasi quantità, col risultato di mettersi spesso nei guai.

E quella sera da Jane si era bevuto: sangrìa per la precisione, ma fatta in casa sul momento, quindi mescolando senza controllo. Jane era una brava giornalista inglese che viveva dietro ai Giubbonari, in un appartamento a stanzoni dove transitava di tutto: ospiti, amanti, più i colleghi della stampa estera. Di quella sera ricordo anche un paio di canne: se le passava un gruppo sbracato sul divano, mentre uno di noi cambiava i dischi. Quanto alle due canadesi, una delle due di certo si era già appartata con il fico di turno, li avevamo visti andare verso un’altra stanza. Ma l’amico non aveva perso tempo: afferrata per un braccio l’altra ragazza mentre era seduta a chiacchierare con uno studente italiano, la invitava a seguirlo. Quella non oppose resistenza, sia perché mezza ubriaca, sia per non lasciare l’amica da sola. Sparirono quindi nella stanza di cui sopra e chiusero la porta. Si sentivano voci e rumori, ma nessuno ci badava, complice anche un disco dei Led Zeppelin a volume alto. Chi raccontava questa storia ancora ricordava la faccia dell’italiano rimasto di merda quando gli avevano soffiato la “sua” canadese. Si ricordava persino i nomi. Anne era quella salita per prima, Juliette era invece quella sfilata sotto il naso allo studente. I due compari erano rimorchiatori navigati, lui sapeva parlar francese ma era troppo timido per farcela. Ovvero, forse gli poteva pure andar bene se non fosse salita altra gente, il che era improbabile: all’epoca gli stranieri residenti al Campo e a Trastevere – soprattutto americani, inglesi e australiani – il dollaro era alto – ma anche tedeschi, olandesi e qualche sudamericano – avevano casa sempre aperta, era normale sentir suonare alla porta alle ore più disparate: amici di passaggio, italiani in caccia, cinematografari, mezzi giornalisti e scrittori, gente che andava a cena con gli amici o ne ritornava. A questa fauna si aggiungevano mezzi artisti e morti di fame vari, spesso fidanzati con straniere, chi per un mese, chi da anni. Quelli che avevano suonato alla porta erano i classici italiani che piacciono alle straniere: belli (per loro), simpatici e un po’ mascalzoni. Né sfuggiva a un osservatore esterno la profonda attrazione che certe ragazze provavano per quel tipo di uomini.

Quella storia e soprattutto i dettagli non li avevo mai raccontati a nessuno: il timido studente rimasto in bianco ovviamente ero io. Ormai non lego più con le americane, forse proprio perché ci ho lavorato per anni: sono superficiali e trovo insopportabile il loro modo di parlare sguaiato e tanto simile ai cartoni animati. Ma all’epoca stavo dietro alle straniere mie coetanee, senza badare al passaporto: erano più libere delle compagne di scuola, non è come adesso. Ma torniamo indietro: una volta sentite le urla al piano di sopra e il trambusto che ne seguiva – più che altro una gran piazzata – me la filai all’inglese, temendo che un vicino chiamasse la polizia o che le due ragazze denunciassero tutti quanti. Ricordo ancora la frase idiota di una che stava in salotto: “che vai via?”. Che se la vedessero tra di loro: ero più deluso che incazzato e ormai la cosa non mi riguardava. La mia uscita di scena non la notò nessuno: nel frattempo chi si era accoppiato, chi sentiva la musica, chi fumava. Del resto a quei tempi era normale che i gruppi fossero molto mobili, stavo per dire liquidi, anche se poi qualcuno metteva pure su famiglia, come un calabrese che tenacemente otteneva dal governo danese l’ennesima borsa di studio. Era regolarmente fidanzato con una ragazzona bionda e anche simpatica e so che in seguito hanno avuto due figli. Ma da quel giorno divenni prudente: evitai per qualche tempo quella casa né parlai mai con alcuno di quella serata. Juliette poi che andasse aff.. : con me faceva la sostenuta e poi si era fatta sbattere da un altro. Neanche mi venne in mente che quella sera era stata violentata. Per tanti anni ho anche cercato di immaginare il giorno in cui qualcuno avrebbe rievocato quella storia, e quella persona ora stava davanti a me. Quella notte dunque era presente pure lei ma ora non mi aveva riconosciuto: col tempo un uomo perde i capelli e si veste in modo diverso. Ma neanche lei era riconoscibile, salvo far caso al tono della voce e a certe sue movenze ormai fuori moda, ma tipiche dei nostri bei tempi. Delle due canadesi aveva perso anche lei le tracce: erano poi ripartite, si erano scritte un paio di lettere e poi basta, nessun contatto.

A questo punto incrocio lo sguardo di mia moglie: capisce che le avevo nascosto qualcosa. A casa faremo i conti, anzi già in macchina.

Il pittore che dipingeva con frutta, fiori, animali

Giuseppe Arcimboldi, più noto come Arcimboldo, nacque a Milano nel 1526, figlio del pittore Biagio che gli insegnò i primi rudimenti dell’arte e che poi con lui collaborò nel disegnare i cartoni di alcune vetrate del Duomo di Milano; nel 1558 preparò il cartone per un arazzo con la Dormizio Virginis nel Duomo di Como e l’anno successivo eseguì un affresco per il Duomo di Monza.

Nel 1562 entrò in contatto con alcuni membri della famiglia Asburgo che governava il Sacro Romano Impero e su sollecitazione di Massimiliano II si trasferì a Vienna; in breve raggiunse una tale fama da essere ben presto nominato pittore di corte. Questa qualifica comportava non solo dipingere per la famiglia imperiale e la corte ma anche interessarsi di altre incombenze quali occuparsi come regista, sceneggiatore e scenografo dei numerosi eventi, matrimoni, battesimi, funerali ed altre occasioni, molto frequenti nelle Corti Europee. Erano spettacoli allestiti con materiali effimeri ma dovevamo mostrare con esposizione di lusso e grandiosità la potenza e la ricchezza della famiglia committente. Pur con qualche soggiorno a Milano l’Arcimboldo restò sempre legato alla Corte di Vienna ed ancora di più quando divenne imperatore Rodofo II che spostò la sua capitale a Praga. Rodolfo era un intellettuale con grandi curiosità, si dilettava di alchimia e di negromanzia e si era circondato da sapienti di ogni tipo tra cui spiccava il nostro Arcimboldo.

Una moda dell’epoca presso molte corti e famiglie ricche era  adattare degli ambienti a WunderKammer (Camera delle Meraviglie) dove venivano raccolte opere d’ogni genere, dipinti e statue simboliche, bronzetti antichi, monete, reperti provenienti dalle Americhe e dalle Indie, animali esotici, denti di narvalo, spade di pesci spada nonché numerosi oggetti di lusso creati da valenti artigiani utilizzando in parte metalli preziosi e in parte uova di struzzo, carapaci di tartaruga, marmi e pietre rare unendoli in complessi dall’aspetto strano, ricercato, suggestivo. In questo mondo Arcimboldo si trovò a suo agio ed essendo pittore si diede a dipingere quadri costituiti da fiori, frutta, animali, assemblati in modo da rendere l’immagine di una sorta di figura umana. Per gli Asburgo dipinse la serie delle Quattro Stagioni composte da verdure attinenti ad ogni singolo periodo e gli Elementi anch’essi variamenti costituiti. Le serie ebbero un grande successo e furono più volte ripetute e distribuite a vari committenti e spesso imitate da altri pittori.

Nel 1587 Arcimboldo tornò a Milano pur rimanendo pittore imperiale e a Rodolfo II fece pervenire due interessanti dipinti, la Flora e il Vertunno, questo quadro dovrebbe rappresentare, con frutta e verdura, l’Imperatore Massimiliano. Arcimboldo morì a Milano nel 1593.

La sua fama fu per alcuni anni grandissima poi, con l’apparire di nuove mode e scuole di pittura, fu dimenticato o ricordato solo per gli aspetti curiosi della sua arte. Fu riscoperto negli anni Trenta del ‘900 da Dadaisti e Surrealisti e da allora negli ultimi anni si sono susseguite mostre e studi per meglio far conoscere l’opera dell’artista. L’ultima è stata organizzata dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo Barberini nei suoi locali al piano terreno; ospita un centinaio di pezzi, tra cui pochi dell’Arcimboldo, suddivisi in sei sezioni introdotte da un autoritratto dell’artista. “L’Ambiente Milanese, e “A corte tra Vienna e Praga” esaminano sia con opere dell’autore che di suoi contemporanei e imitatori l’attività dell’Arcimboldo in questi periodi importanti della sua vita.

La terza sezione si rivolge al mondo fantastico e magico delle Wunderkammer esponendo numerosi oggetti curiosi e meravigliosi sia per qualità della materia che per la splendida lavorazione. “Le Teste Reversibili” sono nature morte visivamente ambigue; “Il bel composto” e “Pitture ridicole” mostrano alcune opere dell’artista che si diverte ad ingannare il visitatore con i suoi dipinti di fiori, frutti, animali, oggetti che presentano immagini che possono essere variamente interpretate. Una mostra inconsueta di un artista anomalo ed unico.

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Arcimboldo
Dal 20 ottobre 2017 all’11 febbraio 2018

Roma
Palazzo Barberini
via delle Quattro Fontane, 13

Informazioni:
tel. 06/4824184

Orario:
da martedì a domenica
dalle 9.00 alle 19.00

catalogo:
Skira editore

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Bentornato Gian Lorenzo

Per festeggiare il restauro, durato parecchi anni, della Galleria Borghese vi fu organizzata, nel 1998, una mostra dal titolo “Bernini scultore. La nascita del barocco in casa Borghese” che esaminava l’opera del grande artista nei primi decenni del ‘600 e i rapporti con Papa Paolo V e la sua famiglia. Ora per ricordare il ventennale della riapertura della Galleria il Cavalier Bernino è di nuovo ospite del Cardinale Scipione nella sua splendida villa ed è presente con quasi ottanta opere, sculture, dipinti, bozzetti, modelli lignei architettonici.

Nonostante il Bernini sia uno degli artisti più conosciuti e studiati le mostre sono occasione di nuove conoscenze e scoperte; nel nostro caso si sono avute due nuove attribuzioni, accanto al busto del “Salvator Mundi” ora in un museo di Norfolk è stata identificata un’altra scultura praticamente identica  nella chiesa di San Sebastiano fuori le Mura, i critici, pur attribuendole ambedue al Bernini in quanto risulta nelle fonti una sua scultura per la Regina Cristina di Svezia, sono divisi nell’indicare quale sia la prima stesura; più chiara la situazione del “Cristo Crocefisso”, in bronzo dorato, commissionato dal Re di Spagna Filippo IV per il Palazzo dell’Escorial al quale fa riscontro un quasi identico, poco più grande, “Cristo Crocefisso” pervenuto ad un museo di Toronto ed identificato come berniniano.

La lunga vita dell’artista e la sua attività si dispiegano nella mostra con una pressoché completa riunione delle sue opere mobili; sono presenti sculture della sua giovinezza quando lavorò, spesso in maniera quasi indistinguibile, con il padre Pietro, suo grande maestro, fino agli ultimi lavori dei tardi anni settanta del ‘600. È presente una raccolta dei suoi quadri, praticamente quasi tutti quelli a lui attribuiti, superstiti dei 48 che le fonti storiche sostengono abbia dipinto.

La mostra attraverso otto sezioni esamina l’opera dell’artista come scultore, pittore, uomo di teatro e scenografo e l’evolversi della sua arte attraverso il pontificato di ben nove papi che seppero utilizzarlo al meglio per arricchire la città di Roma, le sue chiese, i suoi palazzi; in particolare ebbe ottimi rapporti con Urbano VIII Barberini e con Alessandro VII Chigi.

La prima sezione “L’apprendistato con Pietro” esamina lo stretto rapporto con il padre attraverso varie statue lavorate in collaborazione; “La giovinezza e la nascita di un genere: i putti” mostra opere di un Bernini giovane che in maturità quasi rinnegò. La terza “I gruppi borghesiani” espone i grandi gruppi scultorei da secoli conservati nella Galleria, la quarta “Restauro dell’antico” prende in considerazione l’intervento dell’artista su statue romane più o meno mutile che i due Bernini restaurarono con grande abilità: il “Marco Curzio”, l’”Ermafrodito” e l’”Ares Ludovisi”.

Al primo piano su un grande bancone sono sistemati numerosi busti, gran parte in marmo e qualcuno in bronzo, scaglionati in un arco di più di quaranta anni, su una parete sono esposti dei ritratti, alcuni di Papi, e due autoritratti, uno giovanile ed uno maturo. La settima sezione è relativa alla grande statua equestre di Luigi XIV che Bernini scolpì ed inviò in Francia; non piacque al re che la fece modificare dallo scultore francese Girardon, attualmente si trova a Versailles: in mostra sono esposti il bozzetto in terracotta della statua ed un suo studio ad inchiostro ed acquarello.

L’ultima infine raccoglie un gran numero di bozzetti che mostrano la cura con la quale il Bernini preparava e formava i suoi capolavori. Particolarmente interessante all’ingresso la statua di Santa Bibiana, proveniente dall’omonima chiesa in Roma, che è stata restaurata in un mese a cantiere aperto con la collaborazione del Museum of the Bible di Washington.

La mostra è stata possibile grazie al contributo di Fendi che ha stipulato un accordo con la Galleria Borghese per una serie di iniziative culturali.

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Bernini scultore
La nascita del barocco in casa Borghese

Dal 1 novembre 12017 al 4 febbraio 2018

Galleria Borghese
piazzale Scipione Borghese 5
Roma

Orario:
da martedì a domenica
dalle 9 alle 19
ultimo ingresso ore 17

prenotazione obbligatoria
Euro 2,00

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La Valletta: migliaia in piazza contro la politica dell’omertà

Rispondendo agli allarmati quesiti della stampa internazionale, a ridosso dell’assassinio di Caruana Galizia, il premier maltese Muscat aveva promesso solennemente di far luce sull’efferato delitto. Quindi invitava i familiari ad aver fiducia nella giustizia. Sdegnata e ferma era giunta la risposta dei figli Mattew, Andrew e Paul. In un comunicato diffuso tramite i social media chiedevano le dimissioni del primo ministro e del suo staff, chiosando: “Chi per tanto tempo ha cercato il silenzio di nostra madre non può ora offrire giustizia”. E ancora: “Non siamo interessati a una giustizia senza cambiamenti. Il governo pensa solo a una cosa: la sua reputazione e ha bisogno di nascondere il buco dove son finite le istituzioni. Non è questo il nostro interesse, né era quello di nostra madre. Un governo e una polizia che hanno fallito nella difesa della vita di nostra madre, falliranno anche nell’indagare sulla sua morte”. Ieri una parte della società maltese ha ribadito il concetto manifestando in strada, come avevano già fatto venerdì scorso i colleghi di Daphne. Un corteo composto, ma determinatissimo s’è diretto sotto il quartier generale della polizia a La Valletta. Ha richiesto a gran voce e, poi leggendo un comunicato, le dimissioni dell’attuale capo della polizia, Lawrence Cutajar, e l’elezione di un nuovo rappresentante per dirigere le indagini assieme alla magistratura.

Fra la folla c’era anche la presidente maltese Marie-Louise Coleiro Preca, in carica dal 2014, anche lei, come il premier, aderente al partito laburista. In una dichiarazione aveva bollato l’omicidio della giornalista come un attacco codardo e osceno allo stesso Stato maltese. Ieri ha fatto richiamo a forza, coraggio e solidarietà popolari per rintuzzare un disegno che punta a impaurire le persone e a destabilizzare i rapporti civili. In realtà una parte della società locale è destabilizzata proprio dalla sequela di affari oscuri e criminali su cui Caruana Galizia indagava; su tali questioni le Istituzioni che vogliono difendere la propria credibilità e la solidità della storica nazione devono attuare quel cambiamento di rotta auspicato dai figli della giornalista. Il cui assassinio, come nella peggiore tradizione terroristica e mafiosa, rappresenta la risposta malavitosa a chi richiama legalità e rispetto delle leggi. Considerazioni fatte ieri anche dal segretario generale di Reporter senza frontiere Christophe Deloire che concordava con l’intervento d’un collega di Daphne, James Debono. Quest’ultimo, oltre a piangere la scomparsa d’una cronista d’indagine considerata una grave perdita per il Paese, ne rammentava anche il grande cuore: “Abbiamo bisogno di riflettere. Abbiamo bisogno di risposte politiche perché la questione morale strangola Malta”. Lo dice esplicitamente chi sa che una parte di quella società è avida e pensa solo agli affari.

E’ il risaputo comune: il piccolo Stato è assediato da traffici illeciti, corruzione, lavaggio di denaro sporco di tanta criminalità globale. Tutto è reso possibile dalla compiacenza che scivola nella collusione di alcuni uomini della politica presenti nelle Istituzioni, della polizia e finanche della magistratura. Una vera piovra mafiosa, con legami internazionali più vari. Per ora le piste potrebbero seguire gli affari legati alle tangenti versate dalla famiglia del presidente azero Aliyev sul conto della Pilatus Bank, aperto a nome della moglie del premier maltese, o la questione del contrabbando del petrolio libico che, tramite petroliere russe, giunge proprio in Italia. E ancora la miriade di società (ne sono state calcolate oltre cinquantamila) che per evadere il fisco nel proprio Paese s’iscrivono alla Camera di commercio dell’isola mediterranea, che ha funzione di paradiso fiscale dietro l’angolo, con buona pace del presidente Juncker e di tutta la prosopopea di rigore e regolamenti trasparenti del Parlamento di Bruxelles che ha voluto Malta, e non solo, nella grande famiglia. In un’Unione Europea per ora ben poco attenta alla vicenda, come del resto diverse sue nazioni cardine, a muoversi è proprio il Belpaese che con Rosi Bindi porta oggi la Commissione antimafia a discorrere con rappresentanti e magistrati della nazione assediata da criminali e dai metodi criminali che hanno tacitato la giornalista scomoda. Magari salta fuori anche una pista italiana.

Articolo originale
lunedì 23 ottobre 2017