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Turchia: Il Sultano senza freni

turchia-erdogan-146026_600Senza alcun timore Erdogan sta rendendo le carceri un’industria redditizia, affollate come sono di magistrati e giornalisti, d’intellettuali e politici, ma anche di artisti e militari. Parte dell’intellighenzia turca soggiorna nelle galere, essendo stati liberati 38mila posti dai detenuti comuni con l’indulto del post tentato golpe, in gran parte nelle 118 strutture penitenziarie più grandi, collocate nelle periferie delle grandi città, con ospedali, moschee, supermercati, campi sportivi e alloggi per le guardie, oltre ai tribunali che sono andati a sostituire i 187 carceri chiusi negli ultimi dieci anni.

La chiusura dei carceri, come quello di Bakırköy, hanno l’obbiettivo di una riqualificazione urbana, liberando i terreni occupati dalla prigione per far spazio a progetti immobiliari proposti da imprenditori vicini al governo, ma anche per portare la popolazione carceraria a 250mila detenuti entro la fine del 2017.

Un modello carcerario ispirato dagli Stati Uniti, delle città penitenziarie dove raggruppare diverse strutture detentive e tutto il necessario per la vita delle guardie e delle loro famiglie, sradicando il detenuto dal suo contesto, rendendo per le famiglie meno ambienti o addirittura povere difficile far visita al loro congiunto detenuto in un luogo lontano dalle città.

Un’ulteriore pena inflitta anche alle guardie che si vedono costrette ad una vita inglobata nel solo ed unico ruolo professionale, lontano da ogni dialogo e confronto con la società e le sue differenti persone che la compongono, ma in compenso queste strutture si avvicineranno agli standard internazionali e la loro realizzazione arricchirà le aziende che operano nel settore dell’edilizia pubblica.

Inoltre dal 2015 oltre 40mila detenuti sono stati impiegati in diverse attività, anche questo preso in prestito dal modello carcerario statunitense, dalla confezione di uniformi all’allevamento di bovini, alla stampa di documenti amministrativi.

Manodopera a buon mercato, con tutele inesistenti, contribuendo alla crescita del Pil turco e aprendo all’inserimento di un liberalismo selvaggio, dove il lavoratore può anche essere affittato ad aziende private per capi di sartoria o lenzuola, trasformando il penitenziario da soggiorno ozioso in luogo di produzione forse non tanto dissimile dalla visione chapliniana del lavoro frenetico e continuo di  “Tempi Moderni”.

L’Unione europea, nonostante il rinnovamento delle strutture penitenziarie e di queste fabbriche che contribuiscono alla crescita turca, sembra preoccupata per incarcerazioni troppo disinvolte praticate da Erdogan nei confronti di ogni possibile sospettato di non pensare al bene della Turchia che fino ad ora si erano “limitate” a giornalisti e curdi, oltre che ai sedicenti golpisti, ma con l’arresto di alcuni parlamentari del partito filo-curdo HDP l’Unione si è sentita in dovere di stigmatizzare in un comunicato che gli arresti “compromettono la democrazia parlamentare in Turchia”.

turchia-erdogan-stampa-vignettaTra le vittime dell’arroganza paranoica e protesa verso un presidenzialismo esasperato di Erdogan c’è anche la scrittrice Ash Erdogan, arrestata nella sua casa la notte del 16 agosto al 17, accusata di terrorismo solo per la sua collaborazione al giornale Guden Ozgun, per dar voce alle rivendicazioni dei curdi.

Giro di vite dopo giro, ritornando alle assonanze di carcere come fabbrica, le libertà continuano ad essere ulteriormente ridotte e il sultano Erdogan sta trasformando un governo autoritario, ma democraticamente eletto, in una forma di dittatura elettiva, mentre l’Occidente non può andare oltre generici comunicati di protesta, perché la Turchia, comunque sia, è importante per l’Europa come per Stati uniti nello scacchiere internazionale.

La Nato ha delle basi in Turchia e l’Unione europea conta su Erdogan per bloccare e filtrare la migrazione e finché l’Occidente non troverà un nuovo assetto geopolitico, e si riappacificherà con la Russia, potrà solo fare dei generici comunicati di disapprovazione sul rispetto dei Diritti umani o tutta al più del sarcasmo verso le sollecitazioni “poetiche” di un ministro del Sultano alle madri turche di cantare delle ninne nanne per celebrare le gesta di Erdogan impegnato a portare, entro il 2071, il paese della mezza luna alla grandezza pari, se non superiore, a quella conquistata con la battaglia di Manzikert, tra gli ottomani e l’occidente, per la terra che un giorno sarebbe diventata la moderna Turchia.

turchia-erdogan-1469094288589-jpg-vauro__la_vignetta_ferocissima_su_merkel_ed_erdogan_-550x370Erdogan, tra incarcerazioni e nenie, si prepara a cancellare la repubblica turca, mentre l’Ue rimane ostaggio dell’accordo sui profughi, confidando sulla possibilità di trovare i voti necessari per fare approvare una riforma in senso presidenzialista da sottoporre a referendum popolare.

Madri che intonano epiche nenie sulla traccia dell’Ariosto “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto, / che furo al tempo che passaro i Mori….” (Orlando Furioso), per trasformare un nazionalismo laico in islamico, per preparare la Turchia ad un governare dittatorialmente eletto.

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Un Mondo iniquo

siria-aleppo-14670831_10154591393324808_3675277897794890283_nIn Yemen 370mila bambini soffrono, mentre in Colombia sono stati 220mila le vittime della guerra civile, in 10 anni in Messico sono scomparse 30mila persone, in 5 anni di guerra in Siria i morti sono 270mila, in Iraq e Afghanistan, nonostante i tentativi di “normalizzazione” dell’Occidente, si continua a morire per attentati terroristici, come anche in Pakistan, mentre il Africa si soffre per carestia e conflitti.

Nel Mediterraneo, secondo l’International Organization for Migration (Iom) e confermato dal portavoce dell’agenzia per i rifugiati Unhcr William Spindler, sono circa 3mila le persone che hanno perso la vita, nel tentativo di fuggire da guerre e povertà nel sud del mondo.

Tante, troppe sono le persone torturate e assassinate, per poter dare giustizia a tutti, ma una cosa si potrebbe fare: non cadere nella banalità di additare l’assassinio e la tortura come “brutale”. È lapalissiano che tali azioni sono brutali. Come può esistere una tortura amorevole? E’ come affermare che un indigente soffre della mancanza del minimo indispensabile. È brutale rifiutare protezione a donne e bambini.

Usare un vocabolo come “brutale” solo per catturare l’attenzione dell’ascoltatore, o lettore, sminuisce le molte altre azioni violente che gli umani sono capaci di pensare e realizzare.

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#Aleppo #Syria 2016: è una foto di prima mano postate su una chat whazup #nofilter

I crimini che si sono perpetrati contro l’umanità non sono solo “circoscritti” ai genocidi del ‘900 degli Armeni o degli Ebrei, dei Curdi o dei Ruandesi, ma anche il crimine quotidiano degli attentati e della prevaricazione delle potenti multinazionali nei confronti delle piccole comunità, per sorvolare sulle stragi in varie forme dei nativi delle Americhe, dell’Africa e dell’Asia per colonizzare e civilizzare.

Un’umanità in gran parte vittima di un’omologazione forzata che nega la possibilità di vivere in tranquillità nelle differenze, pregando come e dove si vuole, se lo si desidera, e nella lingua che si conosce.

Un’omologazione indotta da una globalizzazione a senso unico che evita gli scambi e le contaminazioni, per una crescita delle varie società, dando precedenza alla prevaricazione.

L’arroganza dell’Occidente nell’imporre i propri docmi, sino a voler esportare la sua pretesa Democrazia.

La strumentalizzazione delle religioni per interesse e predominio di alcune persone su altre, sbandierando la Guerra di Religioni solo per esacerbare gli animi.

Mai come in questi ultimi anni nei conflitti non si fa alcuna distinzione, colpendo scuole, ospedali e edifici di culto. Prima erano danni collaterali, ora sono degli obbiettivi per snidare i terroristi.

In questi ultimi anni si è superato ogni limite, non esistono più aree esenti dall’odio, rendendo qualunque luogo un obbiettivo, un target dei conflitti.

Durante l’assedio di Sarajevo i suoi abitanti riuscivano a condurre una vita quasi “normale”, cosa impossibile per Aleppo dove all’assedio si aggiunge a un martellante bombardamento. Una guerriglia urbana trasformata in un distaccato rilascio, notte dopo notte, di bombe dal cielo che non solo nega un’infanzia ai bambini, ma li terrorizza se non riesce ad ucciderli.

Le vittime prescelte sono sempre le donne e i bambini, non solo nei conflitti, ma soprattutto negando loro un futuro, riducendoli in schiavitù. Un destino riservato anche agli uomini di quell’umanità oppressa, spinta alla competizione che esclude i timidi.

Non solo in Sudafrica, in India, e nel Sudamerica si fa scempio della donna e di minori che riescono ad arrivare in Occidente. Secondo l’ultimo rapporto di Oxfam Italia  i minori che giungono in Italia dopo viaggi perigliosi, spariscono dalle strutture di accoglienza, probabilmente fuggono per raggiungere i parenti nelle diverse città europee, ma c’è anche chi finirà negli ambiti delinquenziali, perché gli adulti invece di proteggerli li utilizzano nello sfruttamento minorile.

Nel Mondo regna la diseguaglianza tra generi e popoli, tra nazioni e continenti, tra i pochi che hanno il 99% della ricchezza mondiale e la moltitudine  spesso sopraffatta  per avere una fetta di quell’uno percento disponibile.

Il grido «#NiUnaMenos» («Non una di meno») che echeggia per le strade di Buenos Aires per chiedere giustizia per l’ennesima donna, ragazza, violentata e uccisa, comprende e abbraccia i bambini e tutte le vittime di una vita prepotente.

migrazione-580f17294Tra le strategie dell’Unione europea contro la povertà e l’emarginazione, per non lasciare indietro nessuna persona, ha attivato una piattaforma, nell’ambito delle sette iniziative prioritarie dell’Europa 2020, per una crescita intelligente, sostenibile e solidale.

Una piattaforma che potrebbe rimanere al palo di un semplice studio statistico o di un’indagine demografica, mentre 4milioni di italiani conoscono la fame, soffrendo l’inutilità di un “aiuto” virtuale, per appoggiare concretamente le strutture economico-finanziarie.

I propositi dell’Unione sono nobili nell’intervenire nel mercato del lavoro, per un reddito minimo, garantendo l’assistenza sanitaria, l’istruzione, gli alloggi e l’accesso a conti bancari di base.

L’ISIS e i gatti

olo-isis-e-i-gatti-gatto-islamMai più gatti in casa. La notizia di una fatwa – sentenza religiosa – emessa dallo Stato islamico a Mosul, roccaforte irachena del Califfato ora sotto assedio, arriva dal giornale inglese Daily Mail, che cita la tv satellitare Al Sumaria, che la riprende a sua volta da Iraqi News. Andiamo dunque alla fonte.

Testo: (IraqiNews.com) Nineveh – Al Sumaria News reported on Tuesday that ISIS issued a fatwa in Monsul <sic> to forbid indoor cat breeding. Al Sumaria News stated, “The so-called Islamic State’s Central Fatwa Committee issued a fatwa (Islamic legal decree) prohibiting the breeding of cats inside houses in Mosul.” “ISIS called on the residents of Mosul to obey the fatwa and not violate it,” Al Sumaria explained. “ISIS issued dozens of fatwas in Mosul based on its vision, ideology and beliefs,” Al Sumaria added. The Islamic State group (ISIS) relies on a central committee to issue fatwas; it is comprised of influential clerics and figures from the terrorist group.

Dunque la notizia l’ha data per prima la rete televisiva Al Sumaria, la quale ha un sito ufficiale in arabo e in inglese.

Questa rete televisiva è molto professionale e relativamente liberale:

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le speaker p.es. non sono velate, e solo a scorrere i titoli scopriamo che il mondo islamico è molto meno schematico e rigorista di quanto siamo abituati a pensare. Inoltre, il sito è pieno di servizi giornalistici trasmessi da zone dove noi occidentali abbiamo pochi corrispondenti, quindi anche in futuro vale la pena di seguire questa rete simile ad Al-Jazeera. Non sono riuscito però a trovare la notizia sui gatti, anche se è registrata una buffa fatwa dell’Arabia Saudita che vieta dal 2015 i pupazzi di neve perché simili a idoli antropomorfi. Dove trovano la neve per farli non lo spiega. Questo però dà l’idea dello spirito che anima la rete televisiva: rispetto della religione islamica ma spirito liberale. Per saperne di più sulla proprietà, sulla redazione e sui paesi coperti c’è Wikipedia (voce solo in inglese e arabo)

E a rileggere il comunicato riportato da IraqiNews si dice che di fatwe l’Isis ne ha sfornate a dozzine e che a deciderle è un ristretto gruppo di chierici e capi terroristi.

Le principali testate italiane hanno quindi amplificato la notizia, parlando di caccia e sterminio felino dopo la direttiva impartita dagli uomini del califfo Abu Bakr al Baghdadi. In realtà Mosul è sotto assedio e a pochi giorni dalla battaglia finale gli uomini dell’Isis hanno ben altro da pensare che andar per gatti.

olo-isis-e-i-gatti-schermata-2014-08-26-alle-14-15-13-770x721-copiaAllora è una bufala? Visto che nessuno può andare oggi a Mosul a controllare, proviamo a ragionare. Intanto si parla di divieto ma non di strage felina. Strano: il gatto non è per l’Islam un animale impuro, come il cane o il maiale. Il presidente afghano Karzai si lamentava con i soldati americani perché entravano a rastrellare le case introducendo i cani, un’offesa grave per loro ma incomprensibile per noi. Purtroppo non m’intendo di teologia o diritto islamici e quindi non posso dire nulla sui gatti, ma è anche vero che l’Isis ha p.es. trasformato quest’anno il ramadan, mese della preghiera, del digiuno, della meditazione e della purificazione in un mese di guerra santa agli infedeli. E’ una radicale innovazione – eretica o fondamentalista – che dovrebbe aver suscitato anche discussioni all’interno dell’Islam stesso. E i gatti? Non è rara all’interno dell’islam la tendenza a smorzare quei tratti culturali che possono essere sentiti come identità altra rispetto alla loro. E qui più che il Corano conta la stratificata tradizione del diritto consuetudinario islamico, fatto di migliaia se non milioni di sentenze, detti, prese di posizione dei saggi e leggi tribali.

Ma il problema è che l’informazione da noi si è fatta subito propaganda: delle vittime civili nello Yemen o ad Aleppo o a Mosul infatti poco ce ne cale, ma guai a toccare gli animali. E qui voglio aprire una parentesi forse sgradita.

“Poche idee, primitive, ma ripetute di continuo e amplificate dai moderni mezzi di comunicazione”. Non è la descrizione dell’ISIS ma del nazismo, fatta a suo tempo da George Mosse, il maggiore storico della moderna storia politica tedesca. Mentre verso il nazismo la gente normale prova una repulsione istintiva (perlomeno dopo aver visto le immagini dei campi di sterminio o di altri crimini di guerra), lo stesso non si può dire delle violenze perpetrate dal c.d. Califfato nelle zone occupate. C’è da parte della gente comune un atteggiamento misto d’indifferenza, rassegnazione e paura, ma non odio o rigetto. Eppure in televisione e in rete abbiamo visto di tutto, dagli sgozzamenti degli infedeli alla distruzione dei villaggi, dai proclami violenti alla guerra santa, dall’addestramento dei bambini alle bandiere nere. Forse che una parata della Hitlerjugend era diversa? Eppure le reazioni non sono le stesse, anche se è vero che il nostro odio verso il nazismo è maturato dopo una guerra europea e settant’anni di educazione scolastica e civile. Si direbbe invece che l’islamismo radicale non sia stato ancora metabolizzato al punto di creare anticorpi.

Uno dei motivi è sicuramente la distanza culturale. L’Islam è l’ultima grande religione monoteistica e si pone come superamento dell’ebraismo e del cristianesimo, ma delle tre è in realtà la più arcaizzante, e il tentativo dell’ISIS di riportare l’Islam alle sue origini – in realtà è un mito politico – peggiora le cose, visto che la modernità non può essere governata con le leggi che si erano dati gli allevatori nomadi mille se non duemila anni fa.

L’altra osservazione è che il dissenso non ha la reale possibilità di esprimersi in modo corretto. Partiamo dall’espressione “islamofobia”. Perché mai un atteggiamento politico dev’essere ascritto a categorie legate alla psichiatria? Chi dissente è forse un instabile mentale o un “asozielle Element”, come dicevano i nazisti? Nessuno ha mai definito Togliatti e Pertini “fasciofobi”. Come si vede, etichettare il dissenso non porta molto lontano ma fa comodo. Ma nel momento in cui i vari governi occidentali mantengono una sostanziale ambiguità verso chi finanzia il terrorismo internazionale o temono per l’incolumità dei depositi bancari prima ancora che di quella dei cittadini, mantenere basso il livello della polemica è strategico.

Terzo elemento, l’ambiguità di una certa “intelligencija”. I movimenti islamisti sono nati come anticoloniali, a cominciare dai Fratelli Musulmani, che in Egitto sono attivi e ben strutturati almeno dagli anni ’30 del secolo scorso, quindi hanno avuto la benedizione delle forze democratiche internazionali. La rivolta antioccidentale usa la religione in realtà da pochi anni, ma qualcuno sembra essersi dimenticato del laico marxismo-leninismo e sottovaluta l’estraneità della strumentalizzazione religiosa nella costruzione della modernità. In più, l’Islam tutto è meno che una cultura subalterna da proteggere. E’ una contraddizione dalla quale non si è ancora usciti.

Infine, i sensi di colpa per gli errori culturali e strategici recenti: cosa vuole dire “Islam moderato”? E in Siria chi sono realmente i guerrieri finanziati dagli USA? Tutti sappiamo che i Talebani sono stati creati proprio da loro per combattere i sovietici, salvo poi pentirsene amaramente. Se dalla Siria all’Iraq è saltato l’equilibrio raggiunto negli anni ’20 del secolo scorso – equilibrio fissato dalle potenze europee – questo si deve anche all’invasione dell’Iraq e l’incapacità di governarlo realmente o di renderlo autogovernabile. Anche le primavere arabe hanno visto troppi attori esterni entrati in massa e male. Quindi per ora nessuno sembra legittimato a dire l’ultima parola.

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Africa: le Donne del quotidiano

Le donne africane rappresentano, visto il ruolo bellicoso o apatico del maschio, la locomotiva della società, infatti, come viene evidenziato nel recente studio del World Farmers Organisation, il 43% dei contadini sono donne, anche se in alcuni Paesi la percentuale sale al 70%, e sono ancora le donne, secondo la Fao (agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura), a farsi carico dell’approvvigionamento del 90% della fornitura d’acqua domestica e tra il 60% e l’80% della produzione di cibo consumato e venduto dalle famiglie.

Sono sempre le donne ad essere coinvolte nell’80% delle attività di immagazzinamento del cibo e trasporto e nel 90% del lavoro richiesto nella preparazione della terra prima della semina.

Sono numeri che ben tratteggiano il ruolo cruciale della donna, nonostante che il 50% delle donne dell’Africa subsahariana non sa leggere né scrivere, nel contesto africano dove molte di esse, soprattutto le vedove, vivono in miseria.

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Foto del missionario gesuita padre Franco Martellozzo

Nel Ciad il Magis (Movimento e azione dei gesuiti italiani per lo sviluppo) sostiene i cosiddetti Orti comunitari, inseriti nel progetto “Le donne per l’agricoltura sostenibile Ciad”, rappresentano per alcune comunità la possibilità di dare un’istruzione ai figli, mentre per altre e’ la conversione dell’economia basata sulla produzione di birra di miglio (Bili Bili), e quindi uno stato cronico di alcolismo degli uomini, in riscatto sociale per svegliare il maschio dalla commiserazione.

Gli orti comunitari delle donne ciadiane non godono del sostegno finanziario della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus e dell’Unione europea, ma usufruiscono delle donazioni di persone per aiutare altre persone, senza gli ambiziosi obbiettivi di realizzare 10.000 orti, definiti dalla Fondazione: “buoni, puliti e giusti nelle scuole e nei villaggi africani significa garantire alle comunità cibo fresco e sano, ma anche formare una rete di leader consapevoli del valore della propria terra e della propria cultura; protagonisti del cambiamento e del futuro di questo continente.”

Una campagna dal grande battage pubblicitario che fa risplendere il blasone di Slow Food e offre un’occasione di riflessione sul futuro alimentare del Mondo.

Il Ciad non ha delle terre talmente fertili da far gola alla Cina e a tutti quei paesi impegnati nell’accaparramento e forse è per questo che viene ignorata sia la situazione politica che economica. E’ un luogo dove l’impegno delle donne non è solo uno stimolo ad una dignitosa vita, ma anche l’occasione di fronteggiare la desertificazione.

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Le Repiquage Opera dell’artista ciadiano Idriss Bakay

Qualcosa di più:

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Africa: i sensi di colpa del nostro consumismo

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Cellulari per delle cucine solari

Africa: Speciali visite a domicilio

SAalute in bicicletta

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Missione e Cooperazione

olo-missioni-e-cooperazioneIn una recente serie di documenti ufficiali risalta la differenza tra le spese italiane per la Difesa e quelle per la Cooperazione, fortemente sbilanciate: 9 contro 1 (fonte: Rapporto Sbilanciamoci! 2016). In dettaglio, nel confronto con la spesa militare, negli anni l’investimento nella cooperazione è passato dal 14% all’11%. Mettendo insieme i due settori, l’Italia ha diminuito i fondi del 16,6%. E’ vero che, nel corso degli anni, attraverso il Decreto Missioni, la percentuale delle risorse destinate alla cooperazione è aumentata. Dobbiamo però ricordare che i fondi stanziati con l’atto rappresentano appena il 4% del bilancio totale per difesa e l’aiuto allo sviluppo. Per le missioni militari con il provvedimento si eroga all’incirca 1,3 miliardi di euro all’anno, la spesa militare totale dell’Italia è invece di 23 miliardi. Stesso discorso vale per la cooperazione: per una spesa totale poco sotto i 3 miliardi, con il Decreto Missioni se ne stanzia solamente il 4,57% (136 mln). Un’analisi complessiva rileva dunque la tendenza a diminuire la parte dedicata alla cooperazione, in dieci anni passata dal 14% all’11%. Nel 2005 la spesa totale era di 4,5 miliardi, passata poi nel 2014 ad appena sotto 3 miliardi di euro. Una contrazione del 34%, quasi tre volte quella della spesa per la difesa, che nello stesso periodo di tempo è diminuita del 13%. Quindi, in 10 anni la spesa complessiva è diminuita del 16,6%. L’investimento militare invece è passato dai quasi 27 miliardi del 2005, ai 23,3 del 2104. Ma perché nel frattempo la percentuale programmata per la cooperazione è scesa nel corso degli anni? E come opera nel mondo? Questo almeno è facile vederlo da questo sito specializzato sulla Cooperazione italiana.

Ma se fuori dei confini nazionali spendiamo molto per la componente militare e poco per quella civile, questo rivela un difetto di politica. Da oltre due secoli è assodato che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, mentre il primato della politica già lo aveva preconizzato Machiavelli. Ma è con la teorizzazione del generale prussiano Karl von Klausevitz (1780-1831) che lo strumento militare viene ricondotto sotto l’egida della politica, sorta di ‘ultima ratio’ – visto il suo costo economico e umano – per costringere l’avversario ad accettare le proprie condizioni. Nel caso poi, oggi frequente, di guerre civili e turbolenze esterne al proprio stato nazionale, si mandano i soldati per congelare la situazione sul campo, separando i contendenti o evitando che una parte violenti l’altra. Tutto questo finché non si trova una soluzione politica, altrimenti il presidio militare diventa costoso e indefinito: esattamente quanto avviene in Kosovo, in Afghanistan e in Libano. Sono passati 15 anni dalla nostra presenza in Afghanistan, dove abbiamo perso 53 uomini (di cui 31 militari), speso 6 miliardi di euro, impegnato fino a 4000 soldati per volta (ora sono meno di 1000), con scarsi risultati.  Quando c’erano gli Imperi i conflitti etnici erano una questione interna, oggi gli stati nazionali sono costretti quasi ogni giorno a intromettersi nelle guerre civili altrui per evitare massacri e soprattutto l’alluvione dei profughi alle proprie frontiere. E se l’Impero spostava i propri soldati da una provincia all’altra, gli stati nazionali sono invece costretti a chiedere ai propri cittadini il conto di operazioni militari che nessuno sente come proprie, tant’è vero che vengono sempre presentate come operazioni umanitarie. E se si rientra nelle spese, guai a dirlo! Quando si è saputo che dopo la seconda guerra del Golfo l’ENI aveva ottenuto concessioni petrolifere in Iraq, si è gridato allo scandalo, anche se non sta scritto da nessuna parte che una guerra umanitaria deve essere sempre in perdita, quando nessuno si scandalizza se la Cina cerca di occupare le isole ricche di petrolio del Mar Cinese meridionale in base a teorie simili a quelle dello spazio vitale teorizzato da Hitler in Mein Kampf.

Ho alluso prima alle carenze della politica. Oltre il 70% dei fondi per la cooperazione va ad organizzazioni internazionali e non direttamente ai paesi in via di sviluppo. E il 20% dei fondi per la cooperazione è devoluto a organismi internazionali o bilaterali, il resto viene gestito in proprio dall’Italia per vie dirette con i paesi destinatari. Sono 694 milioni euro. Albania, Afghanistan ed Etiopia sono stati i beneficiari maggiori degli accordi bilaterali, seguiti da Mozambico e Vietnam (dati del 2013). E’ interessante notare che sempre nel 2013 l’Italia ha promosso progetti in 113 paesi nel mondo, ma oltre il 40% delle risorse è stato impegnato entro i confini nazionali per far fronte all’emergenza rifugiati. Come dire che l’idea di aiutarli a casa loro per non doverne andare a prendere troppi davanti alle coste libiche è rimasta una bella idea.