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I sauditi d’oro nella tempesta di bin Salman

Nella classifica dei ‘top fourteen’ sauditi che sfoggiano riserve di petrodollari e ingenti capitali, posti all’inferno dal focoso Mohammed bin Salman, la vetta spetta di diritto ad Al-Walid bin Tatal (17 miliardi di dollari) ben piazzato anche nella graduatoria mondiale dei Paperoni. Poi compaiono Bakr bin Ladin, magnate di un gruppo finanziario familiare che vanta 7 miliardi, e l’ex erede al trono, cugino di MbS e nipote di re Salman, Mohammed bin Nayef, a capo di un proprio network finanziario quotato 6 miliardi di dollari. Il suo gruppo viene citato anche nella famosa inchiesta sui ‘Panama Papers’. A pari merito, dunque ancora con 6 miliardi di dollari, c’è Waleed al-Ibrahim proprietario della MBC Company. Staccati Saleh Abdullah Kamel, il cui Dallah Albaraka Group vanta 2.2 miliardi. Segue Amr al-Dabbagh, con l’omonimo network stimato a un miliardo e mezzo di dollari, mentre staccati risultano due ex ministri: Adel Faqih, fino a qualche giorno fa responsabile di Economia e Pianificazione (470 milioni di dollari) e Ibrahim al-Assaf (390 milioni) alle Finanze. Quindi compare Mitaab bin Abdullah, figlio del defunto sovrano Abdullah e potentissimo capo della Guardia Nazionale, accreditato di un network di 110 milioni di dollari. Accusati di “corruzione” anche Khaled Al-Tuwaijri, capo della Corte Reale, Nasser bin Aqeel Al-Tayyar, fondatore di un omonimo gruppo finanziario, i boss della Saudi Air Force, Turki bin Nasser, e di Saudi Telecom Saud Al-Dawish, infine il Governatore della provincia di Riyadh, Turki bin Abdullah. Di quest’ultimi cinque, tutti coinvolti in affari privati e di governo, non si conosce l’entità delle fortune. Ma le fortune e gli arricchimenti personali era prassi consolidata fra i dignitari della monarchia Saud, perciò gli osservatori imputano al principe ereditario un disegno volto a una certa resa dei conti interna al Paese per attuare una radicale trasformazione della governance.

Due i blocchi da scardinare: il potere dei clan familiari e quello religioso. C’è chi sostiene che la divisione di ruoli durante il regno – prendiamo ad esempio quel che era accaduto nel 2015 con la salita al trono di Salman senior che aveva scelto per erede un nipote, mentre suo figlio s’occupava della Difesa e il figlio del defunto re Abdullah presiedeva un posto di gran potere (la direzione della Guardia Nazionale, il corpo armato che difende la monarchia) – avesse fatto il suo tempo. Un po’ come accade in certe “democrazie” occidentali e nelle autocrazie sparse ovunque nel mondo, il consolidato sistema dell’accentramento di potere diventa la carta giocata dal giovane e ambizioso principe. L’arresto seppur dorato, è il caso di dirlo, visto che i fermati sono guardati a vista nelle lussuose camere del Ritz-Carlton hotel di Riyadh, ha la funzione di strigliare capi e rampolli delle famiglie che contano, per far comprendere che la nuova via prevede una profonda trasformazione. Magari – ipotizziamo noi – si sorvolerà su affari e finanze private, purché queste non interferiscano con le strategie statali, sempre più proiettate verso partnership economiche che prevedono diversificazioni dall’unica fonte dei petrodollari, e non ostacolino l’interesse crescente di un’egemonia saudita nell’area mediorientale. Costi quel che costi, scontro compreso. Tale linea Salman junior l’ha già proposta nella questione yemenita, ora sembra allargarla al Libano, visto che in questi giorni diventa il nume tutelare di Hariri junior che, dimettendosi da premier, ha dichiarato di non voler fare la fine del genitore, morto in un attentato nel 2005. Mohammed bin le prova tutte, e per praticare una strategia che lo renda attraente non solo sulle piazze economico-finanziarie, rivolge l’attenzione anche all’Islam wahhabita, presente in Arabia dal periodo dell’ideologo-propugnatore (XVIII secolo) e ampiamente radicato nella tradizione socio-politica interna.

Eppure qualche sheikh aveva già manifestato l’idea di limitare la rigidità delle consuetudini che creano imbarazzo nei rapporti internazionali sul tema femminile: la repressione delle donne attraverso la pubblica fustigazione, la proibizione di frequentare determinati ambienti di svago, il divieto di condurre vetture, per non parlare della lapidazione quale condanna di adulterio. Le recenti riforme che cancellano alcuni divieti mirano a questo, come pure la perdita di autonomia subìta dalla ‘Polizia religiosa’ posta sotto la giurisdizione del ministero dell’Interno. L’idea che l’Islam moderato possa trovare pratica e seguito anche nella nazione che si ritiene depositaria del vero Islam e prima inter pares nella Umma musulmana sembra essere il viatico dell’azione di MbS, ormai sovrano in pectore. Ma certi conoscitori della cultura, dell’ambiente e anche della politica di quel mondo hanno pubblicamente affermato “Chi s’aspetta un approccio non religioso dalla politica dei Saud, sta sognando a occhi aperti”. Altri osservatori parlano di un passaggio verso posizioni meno radicali, non certo di una negazione delle radici. E non scompare il preconcetto di chi non si fida affatto. Di chi sostiene che tutta questa manovra sia una tattica rivolta ai principi-parenti, vicini e lontani, e ai religiosi solo per ottenere maggior potere per una persona: se stesso. Così in questa sorta di gioco dell’oca che avviene in questi mesi in Arabia Saudita, la costante confermata su più terreni è la nascita e il consolidamento di uno strapotere che trova in Mohammed bin l’uomo del presente e del futuro. Per un domani che si propone molto meno tranquillo del passato, sia all’interno, sia nell’area del Golfo, sia in Medioriente.

Pubblicato mercoledì 8 novembre 2017
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Omicido Regeni: il triangolo italo-egiziano-britannico

Chiedersi se la vicenda che ha portato all’assassinio di Giulio Regeni sia un caso criminale, politico o un intrigo internazionale può essere plausibile, ma limitante e forse superfluo. I valenti procuratori italiani (Pignatone e Colacicco) che da mesi indagano, per nulla aiutati dalla sponda egiziana e da quella britannica, sanno perfettamente svolgere il proprio mestiere e, ci auguriamo, potranno sciogliere nodi giudiziari della questione. Che però, come dimostrano le varie tappe sviluppatesi nei ventuno mesi successivi al fatidico 25 gennaio 2016, ha valenze geopolitiche non secondarie, con tutti gli interessi, gli intrecci e gli intrighi che questa branca si trascina dietro. E non da oggi. Da osservatori delle questioni di quel Paese sin dalla crisi del regime di Mubarak, alla rivolta di Tahrir e oltre, abbiamo toccato con mano come il susseguirsi di accadimenti vede all’opera soggetti interni (strati della popolazione, partiti e movimenti politici e sindacali, attivisti d’opposizione e di regime, Forze Armate, polizie e mukhabarat) ed esterni (media internazionali, giornalisti, ricercatori, intellettuali, Intelligence e politici stranieri). Un aspetto non nuovo, che ha avuto un crescendo nei quasi settant’anni dalla nascita dell’Egitto moderno.

L’omicidio Regeni coinvolge il nostro impegno d’informazione, oltreché la coscienza civile che ci appartiene ben oltre l’identità nazionale e lo sguardo rivolto anche ai palazzi della politica nostrana ha già evidenziato i comportamenti governativi (prima con Renzi, ora con Gentiloni) nell’agire con uno squilibrato bilancino dell’opportunità economica e geostrategica. Da qui: l’iniziale voce indignata verso il Cairo, il segnale del ritiro dell’ambasciatore Massari e l’acquietamento col rinvio dell’ambasciatore Cantini. Tutt’attorno interessi economici su commesse e partenariati di varia natura (forniture di armi, sfruttamento di giacimenti di gas, lancio e rilancio dell’affarismo turistico), con l’aggiunta di attuazioni di piani di sicurezza internazionale su scenari di conflitto, riguardanti anche il jihadismo dell’Isis, e l’annosa questione del traffico di profughi e migranti. Connessione diretta con la vita e la morte dello studioso friulano? Non del tutto, ma il palcoscenico egiziano degli ultimi anni offre una buona quantità di addentellati. Perché Giulio osservava e studiava aspetti della società su cui poggia, come su altri scenari, l’attenzione dell’establishment di quel Paese. E chi ha toccato, anche solo come narratore, la realtà di questi anni ha ricevuto e riceve dalle forze della sicurezza un trattamento draconiano.

I giornalisti di Al Jazeera Greste, Fahmy, Mohamed, fino all’attuale tuttora in galera Mahmoud Hussein, ne sono un esempio. Certo, trattati con autoritarismo brutale non giunto sino alla tortura e all’uccisione, che invece, ben prima di Giulio ha stroncato l’esistenza di oppositori, attivisti e blogger, egualmente rapiti, spariti e non più ritrovati. La sequela di atrocità rivolte all’apolitico Khaled Saeed, mese dopo mese, anno dopo anno, s’è abbattuta sul copto Mina Daniel e sullo sheik Emad Effat sino a stroncare la laica Shaima Al-Sabbagh, tutte vittime di quella repressione di strada che ha affiancato e preparato il sistema dell’omicidio di Stato più o meno occulto. Fra i primi ottocento morti della rivolta di Tahrir e lo strazio di Regeni, si contano – da qualche mese lo dicono in tanti, eppure se si torna al biennio 2011-2012 l’informazione mainstream raccontava altro – migliaia di vittime e di sparizioni, decine di migliaia di arresti, in gran parte immotivati. O motivati solo dall’essere oppositori, prima di Mubarak poi di Suleiman e del Consiglio Supremo delle Forze Armate, quindi del nuovo restauratore, il generale Al-Sisi, dipinto da liberali e dalla stessa sinistra egiziana come il liberatore dallo spettro della Fratellanza Musulmana.

Oggi, sulle pagine de la Repubblica, gli ottimi Bonini e Foschini, evidenziano i contorni omertosi della tutor di Regeni presso l’Università di Cambridge: Maha Mahfouz Adbel Raham. La docente che indirizzò il dottorando friulano verso la ricerca sul sindacalismo indipendente degli ambulanti (nel cui ambiente il giovane incrociò l’informatore della polizia che lo denunciò). Secondo i sospetti dello stesso Regeni la donna sarebbe stata un’attivista e nei contatti cairoti lo avrebbe indirizzato verso un’altra attivista (la professoressa dell’American University Rabab Al Mahdi) ben nota alla polizia locale. Da quest’ottica, pur confidando in un cambio di posizione della tutor anglo-egiziana che potrebbe offrire un contributo ai nostri magistrati, il mistero sulla morte di Regeni non muta. Anzi, viene a confermare quel che da tempo è evidente nei comportamenti di Al Sisi e dei collaboratori di governo, il ministro dell’Interno Ghaffar su tutti: mettere attivisti, ricercatori, giornalisti nella condizione di non nuocere, con ogni mezzo. Crediamo all’affermazione dei genitori di Giulio che lui fosse animato dal solo desiderio di studio. Bisognerà scoprire se gli intenti di Maha Mahfouz Adbel Raham si fermassero lì. Indubbiamente nella fobìa di regime questo poteva già bastare per stroncare ricerca e ricercatore.

In tal senso Giulio diventa doppiamente vittima, dei suoi aguzzini e di chi voleva trarne vantaggio, utilizzando la ricerca sul minatissimo campo diretto, per altri fini. Questa è comunque un’ipotesi, che fra l’altro ha bisogno di un riscontro di una sua vera utilità sulla politica egiziana. Chi vive in loco, e prova ad agire politicamente, conosce benissimo la realtà e ben pochi vantaggi può trarre da una simile indagine. Utile, invece, a una lettura dall’esterno dell’attuale fase. Nel controverso rapporto di ricerca-studio-lavoro che Regeni ha avuto in terra britannica c’è anche l’ormai nota  collaborazione di circa un anno (fra il 2013 e il 2014) con Oxford Analytica, una delle strutture di consulenza geostrategica mondiale. Organismo che sta nelle attenzioni dell’MI6 britannica, che in non pochi casi ha visto l’Intelligence scegliere dalle file dei ricercatori elementi a lei utili. E’ l’antefatto, indicato da alcuni cronisti anche italiani, d’un Regeni collaboratore dei Servizi, che tanto ha fatto arrabbiare i familiari dello scomparso. Se gli interessi di Giulio sono quelli ricordati dalla madre Paola, potrebbe anche qui risultare aggirato contro la sua volontà. E il suo distacco da quella collaborazione potrebbe essere scaturito dal rifiuto di prestarsi a simili scopi.

Come per il caso della tutor, potrebbe essere Graham Hutching, uomo più in vista della Oxford Analytica, a offrire agli inquirenti notizie. Sebbene si sa che se si lavora per taluni organismi difficilmente si è disposti a svelarne piani e progetti.  Eppure fra triangoli e misteri, nel martirio dello studioso di Fiumicello, resta una certezza finora non indagata: la responsabilità dei vertici politici, prima che polizieschi, del Cairo. Partire da lì o all’inverso arrivarci sarebbe la giusta strada per la “verità per Giulio” e per la sua “giustizia” che incredibilmente gli attuali cartelli di Amnesty International sembrano aver archiviato.

Pubblicato giovedì 2 novembre 2017
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Migrazione: Conflitti e insicurezza alimentare

Nell’estratto del recente rapporto The State of Food Security and Nutrition in the World 2017 (Lo Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo) redatto dall’Onu con la FAO, WFP (Programma alimentare mondiale) IFAD e al quale per la prima volta hanno collaborato anche Unicef e Oms, viene messa in risalto la correlazione tra insicurezza alimentare e migrazione. Un’insicurezza alimentare dovuta più ai conflitti che direttamente da situazioni di carestia.

Una correlazione che è stata al centro della Giornata mondiale dell’alimentazione dello scorso 16 ottobre, promossa dalla Fao, per investire nella sicurezza alimentare e nello sviluppo rurale dove Ifad (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo), la terza e più giovane delle agenzie Onu che si interessano di alimentazione, è impegnata nel trasformare l’agricoltura e le comunità rurali per porre entro il 2030 fine alla fame e garantire un accesso sicuro al cibo nutriente e sufficiente per tutto l’anno.

Una meta che sembra irraggiungibile se i conflitti e i cambiamenti climatici hanno aumentato, dopo una costante diminuzione, il numero delle persone che soffrono la fame, raggiungendo circa 815 milioni, pari all’11% della popolazione mondiale.

Sono 38 milioni di persone in più rispetto all’anno scorso vittime, come dimostrano i recenti appelli di aiuto dalle città siriane poste d’assedio, della proliferazione di conflitti o per quei migranti “trattenuti” sulle isole greche dell’Egeo, ma anche tutta quell’umanità bloccata in Turchia o nei campi libici che non ha accesso regolare ai generi alimentari e medicine.

Mentre nell’Occidente sono circa 41 milioni di bambini ad essere in sovrappeso nel Mondo sono circa 155 milioni di bambini di età inferiore ai cinque anni non hanno una crescita regolare (troppo bassi per la loro età) e 52 milioni soffrono di deperimento cronico, che significa che il loro peso non è adeguato rispetto alla loro altezza.

Da una parte i conflitti, con i cambiamenti climatici, ad opporsi alla vita serena di milioni di famiglie e dall’altra sono i mutamenti nelle abitudini alimentari a tracciare per gli “occidentali” un futuro di obesità e malattie cardiache condite con il diabete.

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Qualcosa di più:

Cibo: senza disuguaglianze e sprechi
Spreco Alimentare: iniquità tra opulenza e carestia
Cibo per molti ma non per tutti

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Qualcosa di più:

Migrazione: Un monopolio libico
Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Marocco: tra opere faraoniche e rivolte berbere

Il paese di re Mohammed VI, sempre più polarizzato, è il Paese degli squilibri socio-economici

di Ilaria De Bonis

Il Marocco di re Mohammed VI, sempre più polarizzato, è il Paese degli squilibri socio-economici. Architetti di fama internazionale e finanziatori cinesi fanno a gara per attribuirsi la paternità delle Grandi opere. Mentre nel Rif berbero non si placa la rabbia del movimento Hiraq. Come convivono baraccopoli e parchi industriali? Pescatori poveri e super lusso? Questo è un ‘grande salto’ dalle bidonville di Casablanca ai villaggi del Rif, dal Mall più grande d’Africa alle coste berbere.

Morocco mall a Casablanca

Col suo perimetro elicoidale, tre piani di megastore su 250mila m² di superficie, palme vere e un gigantesco acquario (40 specie di pesci), il Morocco mall di Casablanca è il secondo centro commerciale più grande d’Africa.

Un transatlantico Dubai style in pieno deserto. Sale ristorante da mille e una notte, più di 600 brand di gran lusso. Cinema multisala. Camere d’hotel, hall per i ricevimenti.

L’architetto che l’ha ideato è italiano e si chiama Davide Padoa. Ha firmato anche altre opere faraoniche con la Design International: è suo il Cleopatra Mall de il Cairo per i turisti del Golfo.

“Il sito per il Mall di Casablanca presentava già una forma allungata – racconta Padoa, ricordando di come dal deserto delle corniche marocchine ha avuto per la prima volta ‘la visione’ a forma di otto – Così ho immaginato qualcosa di cui si potesse vedere l’inizio ma non la fine. Mi è venuta l’idea di disegnare una facciata curva e lunga, dove il centro della curva è lontano dal mare, e camminando lungo l’edificio non vedi la fine”.

Lui la chiama ‘idea filosofica dell’infinito’. Ma di infinito questo transatlantico su terra ferma possiede soprattutto l’impronta ecologica.

Tuttavia le trovate dell’architetto dal gusto ‘emirico’ sono perfettamente in linea con gli sfarzi architettonici di un Marocco che vuole stordire i sensi.

Modificando anche la skyline delle città imperiali. I nuovi materiali vanno dal cemento ai marmi alle plastiche. “Conobbi Re Mohammed VI ad un evento privato – ci racconta Padoa in una intervista – organizzato da Madam Selwa Akhannouch, durante la fase conclusiva del progetto. Per il gruppo Aksal abbiamo in seguito progettato altri tre mall, uno a Rabat, uno a Marrakech e uno a Tangeri. Ma Aksal è tuttora alla ricerca di finanziamenti per poterli sviluppare”.

Padoa insiste sull’estetica: “Sono stato profondamente colpito dalla ricerca del bello della signora Selwa, e dalla sua sete di design di qualità”.

A fargli compagnia, nel firmamento delle archistar amiche, c’è Rachid Andaloussi, che firma CasArt, il nuovo Teatro a Casablanca, il più grande del Marocco. Sorge su una superficie di 25mila m2 e lo spazio all’aperto può contenere 35mila persone.

Le sale interne sono tre e quella degli spettacoli teatrali ospita 1800 persone. Niente a che vedere col Mall: il teatro di Casablanca si ispira comunque ad altri criteri.

Predominano il bianco, il legno, le terre. Gli architetti parlano di «un dispositivo scenografico urbano trasformabile”.

Eppure la città è completamente trasformata rispetto agli anni Novanta. Distrutte alcune icone architettoniche (come la villa Mokri e il teatro municipale). Costruiti hotel, parchi industriali e torri. A ribadire la grandezza del regno.

“L’organizzazione delle nostre città racconta quello che siamo, come condividiamo il nostro spazio. E che tipo di cittadini saremo un domani – spiega la scrittrice marocchina Leila Slimani – E’ evidente che la cultura popolare ha abbondonato le città in Marocco. I soldi, il consumo, l’ostentazione sono diventati i principali svaghi”.

A goderne sono soprattutto i molto ricchi e le classi medio-alte. Mentre nelle bidonville di Casablanca e Rabat le famiglie vivono ancora in cubetti di muratura e lamiera.

Largo ai sino-marocchini

Ma chi finanzia tutto lo sfarzo delle grandi opere? Mohammed VI ha stretto già da qualche anno un sodalizio finanziario abbastanza solido con banche e mecenati cinesi.

Il sito istituzionale di Morocco World News non manca di segnare la cronaca di ogni stretta di mano con il partner asiatico.

Come quella che ha portato a progettare, per un miliardo di dollari, ad est di Tangeri, una nuova città imperiale completamente high tech: “Il progetto si estende su 2mila ettari di terreno, oltre all’area residenziale collegata alla ferrovia e ad una rete di autostrade. Tra i primi progetti industriali previsti ci sarà quello dei bus elettrici e delle componenti aeronautiche”.

La mania dei mega-parchi industriali (ancora sulla carta però) sembra contagiare l’intero Nord Africa che si ‘golfizza’.

Ed appare anche la risposta più immediata del Re di Rabat alla povertà di zone a lungo trascurate come quella del Rif berbero.

“La Tangier Tech City di Mohammed VI sarà realizzata tramite un accordo con la Regione di Tangeri -Tetouan Al Hoceima, e il gruppo cinese Haite e la Bmce bank», afferma il ministro dell’industria e del commercio Moulay Hafid Elalamy.

In realtà queste opere hanno un dubbio impatto ambientale e un incerto effetto moltiplicatore del reddito.

Dalla povertà estrema e dal disagio dell’isolamento – come denunciano i pescatori poveri di al-Hoceima dopo la morte di Muchine Fikri – non se ne esce con i finanziamenti miliardari diretti all’industria e al turismo elitario.

Ma con la pazienza certosina delle cose ‘piccole’. Degli investimenti in scuole, ospedali, elettricità e piccole attività artigianali. Col microcredito, la promozione dei mercati e delle attività locali. E soprattutto con la formazione e l’istruzione dirette ai più giovani.

La strategia cinese invece punta ad altro. Sta ridisegnando le città africane (e anche i villaggi) con lo stesso criterio che ha adottato in patria. Ossia: trasferire la gente dalle campagne alle periferie.

“Negli ultimi nove anni – scrive l’Herald – la Cina ha pubblicato due documenti che spiegano la sua strategia in Africa. Pechino fa chiaramente sapere che non è interessata ad interferire con la politica interna degli Stati africani ma ha due priorità: la modernizzazione agricola e lo sviluppo industriale”.

Le grandi opere e il turismo d’elite si inseriscono in questo quadro.

In Marocco le periferie povere, come Sidi Moumen a Casablanca, restano grosso modo dove erano. Però tutto attorno crescono strade, autostrade e infrastrutture.

Questa modernità che costa, stride con la semplicità della vita rurale o periferica.

“Nei quartieri svantaggiati assistiamo ad una crescita folle, ad una vera follia speculativa e immobiliare”, spiega ancora Leila Slimani. “Gli edifici venuti su dalla terra, arrivano fino all’Oceano (il riferimento è appunto al Morocco Mall ndr.), la pianificazione territoriale de la corniche, la ferrovia e la ristrutturazione dei parchi, la creazione di tunnel e la riabilitazione della medina, lo sviluppo di enormi centri commerciali: la città cambia faccia ad un ritmo folle”.

Trappole per topi in bidonville

Molti altri mondi, quelli delle periferie dolenti, sono lasciati a se stessi, nascosti e invisibili agli occhi; sono le bidonville appena fuori città o ai suoi margini.

Come Al Manzah, tra le 500 baraccopoli di Casablanca. “Sovrastate da palazzi alti cinque piani, le famiglie vivono schiacciate dentro quelle che sembrano delle gabbie di legno per conigli ricoperte da lastre di metallo all’altezza delle loro teste. Il percorso, a tratti, è così stretto che siamo costret¬ti a camminare in fila indiana mentre ci facciamo largo tra i rampicanti sparsi un po’ ovunque”, scrive Andrew Connelly per Cafè babel.

“Nonostante il governo affermi che ci sia stato un ‘significativo progresso’ nella bonifica dei bassifondi – scrive Connelly – si stima che, solo a Casablanca, ci siano ancora più di 111mila famiglie stipate in oltre 500 baraccopoli. Se un giorno una rivoluzione prendesse piede nel paese, i distretti come Sidi Moumen sarebbero il focolaio della rivolta”.

Il 16 maggio 2003 Casablanca venne mutilata da un attentato kamikaze multiplo ad opera di cinque ragazzi tra i 20 e i 25 anni. Che ne feriscono la terra, le coscienze e i sogni. I protagonisti di quest’atto terroristico che uccide 41 persone è rivolto contro i simboli dell’Occidente.

I kamikaze vengono tutti da Sidi Moumen, agglomerato di baracche in lamiera e legno o muratura, a ridosso di un’enorme discarica. Fetidi effluvi e immondizie disseminate ovunque. Puoi non vederli se sei in città. E della città puoi non accorgerti se sei dentro Sidi Moumen.

“Potevi passeggiare per il nostro quartiere senza nemmeno accorgerti che esisteva. Un alto muro merlato in terra battuta lo separa dal boulevard dove un flusso ininterrotto di macchine fa un rumore infernale. In quel muro avevamo cavato fessure simili a feritoie dalle quali potevamo contemplare a piacere l’altro mondo”.

Inizia così Il grande salto, bellissimo romanzo di Mahi Binebine, ambientato per l’appunto a Sidi Moumen. Lo scrittore immagina di penetrare nelle vite e nei sogni dei protagonisti di quell’azzardo verso la morte. Che distruggerà alcune vite, oltre alle proprie.

E così si dipana la storia – a tratti commovente, lucida, intima – di Yashin (che racconta in prima persona), Nabil, Hamid e gli altri.

Sono le stelle di Sidi Moumen, un giorno reclutate dagli emiri (fondamentalisti islamici che li seducono e li spingono alla morte).

L’autore tradisce una conoscenza non solo dei luoghi, ma delle dinamiche sociali e psichiche: un preziosissimo indizio per interpretare tutti ‘i grandi salti’. Anche quelli delle città europee, tra giovani radicalizzati e in cerca di Paradiso. Istruiti a distanza tramite internet e i social.

In ogni bidonville che sia vicina o lontana dall’Europa, si fa l’abitudine alla barbarie. Alla bruttezza fisica, estetica e morale. E’ un’abitudine anche alla morte e alla violenza. Perché porta con sé la normalità della mancanza di dignità.

Però è anche un’occasione di condivisione e amicizia. Di destini comuni. Per i ragazzini, i giovani senza famiglia e quelli che hanno famiglie spezzate, la baraccopoli è destino collettivo. Su questo fanno perno i progetti di sviluppo rivolti alle periferie marocchine.

E su questo fanno perno pure i seminatori di morte. Sono due forze educative in concorrenza che puntano allo stesso obiettivo: i piccoli.

“Il miracolo di Sidi Moumen – dice il protagonista de Il Grande Salto – è la strana facilità con la quale ci si adattano i nuovi arrivati. Provenienti da campagne inaridite e da metropoli voraci, cacciati da un potere cieco e dai benestanti sanguisughe, scivolano nel calco di una rassegnata disfatta, si abituano al lerciume, si spogliano della loro dignità, imparano a cavarsela, tirano a campare”. Ma anche: «nonostante la fame dispieghi i suoi tentacoli, serrandogli il collo fino a soffocarli, a Sidi Moumen non uccide, perchè la gente divide ciò che possiede. Perché le persone misurano a vicenda la loro comune disperazione”.

Parola ai ribelli del Rif

E la disperazione più grande, oltre alle baraccopoli del Marocco più centrale, sta nel nord berbero. Da sempre trascurato.

Lo scorso 24 ottobre il re ha licenziato tre ministri per via dei ‘ritardi’ nello sviluppo dell’area del Rif, che da un anno esatto è in protesta permanente. Si tratta evidentemente di un capro espiatorio per placare gli animi dei rivoltosi. Ma non basta a fermare il movimento Hirak.

Nawal Ben Aissa è diventata un po’ la portavoce ufficiale del movimento sociale spontaneo hirak, da quando l’altro leader carismatico Nasser Zefzafi è stato arrestato con l’accusa di sobillare il popolo e dividere la comunità islamica.

Trentasei anni e quattro figli, capelli biondi e lisci, niente velo, Nawal è l’eroina del Rif. Sulla sua maglietta bianca è ritratta l’immagine dell’eroe degli anni ’20: Abdelkarim e-Khattabi.

Le forze dell’ordine al soldo di re Mohammed VI, che con l’arresto di Nasser e di molti altri pensavano d’aver interrotto il crescendo di contestazioni, si ritrovano tra le mani un osso ancora più duro.

Gli attivisti di hirak (sostanzialmente gli abitanti berberi dei villaggi, dagli studenti ai pescatori; dalle donne con figli ai blogger ai disoccupati) dal 28 ottobre scorso (giorno della morte del pescatore Mouhcine Fikri) riempiono le piazze con le loro rivendicazioni.

Chiedono “sanità, scuola e acqua. Cibo e case”. Il movimento nasce spontaneamente subito dopo la morte di Mouhcine, rimasto rimane stritolato dai meccanismi del veicolo della nettezza urbana.

Da quel momento in poi è stata guerra aperta nel Rif. Gli altri pescatori e poi tutti gli abitanti del villaggio ogni giorno manifestano contro un governo che chiamano ‘corrotto’. E’ come se si fosse aperta una voragine e data la stura al risentimento popolare.

Il re è nudo. L’imam pure

Sono due le parole forti che stavolta accendono gli animi delle fazioni in Marocco. Una è la parola fitna (che sta per dissenso, litigio o anche scontro teologico). E’ l’accusa rivolta dal re a Nasser Zefzafi e agli altri ribelli di hirak.

Vuol dire molte cose questa parola e soprattutto colora la rabbia di una sfumatura religiosa. I rivoltosi di hirak non risparmiano infatti le critiche agli imam. Sono molto religiosi anche i ribelli. Basti pensare allo stesso Nasser che per certi versi è di un tradizionalismo quasi talebano.

Ma il loro integralismo li porta a contestare in moschea gli imam che pensano che le moschee “siano più di Dio che dei poveri”, come ha gridato Nasser Zefzafi alla folla poco prima d’essere arrestato.

Contestano un’autorità, quella del re, che per statuto sarebbe discendente di Maometto ma che, dicono loro, fa solo i propri interessi.

Per i berberi del Rif un re che non guarda al bene dei suoi sudditi e un’autorità religiosa che predica senza tener presente le reali richieste della gente povera, non sono “rispettabili” da un punto di vista coranico.

Ed ecco che si tirano addosso l’accusa di fitna. Nasser Zefzafi critica il makhzen, l’amministrazione reale, e fa da stimolo all’identità rifaine attraverso video postati su facebook.

Il governo marocchino lo accusa di mettere «a repentaglio l’integrità territoriale del Paese e di ricevere fondi dall’estero per i suoi scopi». Questa loro rivendicazione è molto azzardata, rischiosa. E nuova.

Ma è anche un’arma a doppio taglio. Perché consente al governo di metterli più facilmente sotto accusa.

“Quando i manifestanti reclamano ospedali e scuole e attaccano la corruzione governativa, le autorità marocchine difficilmente possono fermarli. – spiega Pierre Vermeren, ricercatore dell’université Paris-I-Panthéon-Sorbonne – Ma l’accusa di fitna invece può consentire allo Stato di intervenire. Dice implicitamente che i rifaine sono dei cattivi musulmani, corrotti da un islam rigorista”.

Non lascia indifferente un credente islamico questa onta di dividere e sostanzialmente creare malumori e rotture all’interno della comunità dei credenti.

Imzouren: città fantasma dopo il terremoto

Ma c’è quell’altra specialissima parola che è hogra. Umiliazione. E i ribelli la usano assai spesso.

E’ l’umiliazione subita storicamente dal Rif prima negli anni di rivolta anticoloniale e poi subito dopo, con una monarchia (quella di Hassan II) che ha sempre marginalizzato e non amato questa regione del nord berbero.

Hogra che è andata avanti fino al 2004, quando un terremoto ha distrutto parte della cittadina di Imzouren, e ucciso 600 persone e però non ha mai visto una seria ricostruzione.

Hogra del 2011 con la primavera marocchina, messa a tacere da un re riformista che ha prontamente prodotto una Costituzione per certi versi più garantista della precedente.

E infine la hogra dei pescatori poveri del 2016. Il ribelle ventiduenne Nasser dice: “Noi abbiamo tre cose sacre: dhamwath, dhamghath, dhasghath», ossia la nostra terra, le nostre donne e i nostri diritti.

E questi ultimi sembrano proprio messi da parte. Ma l’umiliazione non è solo quella di Al Hoceima. C’è anche Imzouren che fa appello alla sua Storia e non è più disposta a subire.

Cittadina piccola e arida, che sorge a quindici chilometri da Al Hoceima. Negli ultimi mesi le proteste si sono estese anche qui, sebbene la stampa ne abbia parlato meno.

La foto simbolo di questo villaggio-fantasma è lo scheletro di un ospedale. Quello che dal 2004 avrebbe dovuto essere portato a termine e invece è rimasto fermo. Come un segno indelebile. Ne parla la stampa locale, tra gli altri il Courrier Picard e Desk, che dedicano dei reportage ai moti di giugno.

I giovani manifestanti si fanno ritrarre davanti alla carcassa del grande ospedale mai terminato: «è così da tantissimi anni», dice Mohammed, poco più che ventenne. I lavori sembrano essersi arenati. Fermi ad un punto morto. Il bianco della facciata nel frattempo è diventato grigio.

Ricordando la toponomastica di questo villaggio di 40mila persone i giornali scrivono che “è un aggregato di costruzioni cubiche disperse all’interno di un paesaggio roccioso ai piedi delle montagne”.

Ed in effetti guardando i video postati su youtube e le foto, Imzouren somiglia davvero ai martoriati centri abitati di certi Paesi arabi bombardati.

Una città fantasma, un po’ per via del terremoto di 13 anni fa che l’ha rasa al suolo, per vedere ricostruita in fretta e furia solo la periferia trasformata in bidonville; un po’ perché i suoi abitanti in effetti sono emigrati in gran parte nei Paesi Bassi decenni fa.

“Qui noi rifiutiamo l’umiliazione”, dice il militante Nabil. “Il sangue di Moulay Mohand scorre ancora nelle nostre vene”.

Eccolo di nuovo evocato Moulay Mohand, ossia Abdelkarim e-Khattabi, a capo dell’armata insurrezionale del Rif che nel 1920 sconfisse l’invasore spagnolo. Quest’uomo è ancora l’eroe dei berberi. Le magliette indossate dall’alter ego donna di Nasser, lo dimostrano.

E’ vivo e vegeto nei loro discorsi e negli slogan di piazza. E’ l’uomo che sconfisse l’umiliazione e che riscattò un popolo. Anche se poi quel popolo subì un’atra sconfitta.

Vittoria ed eredità delle Primavere

Il timore numero uno di Mohammed VI è che questi moti siano manipolati dall’esterno.

L’ossessione dei re (e dei dittatori) infine è sempre la stessa: colpo di Stato, rivoluzione, e nel caso di quelli del Nord Africa, complotto internazionale. Deposizione. Sovvertimento dell’ordine. Cambio di regime.

Ma ci sono ragazzi accusati anche di altri reati come Ilyas Moutaoukil. La cui storia è raccontata da Liberation che intervista l’avvocato Rachid Belaali, 54 anni.

“L’avvocato punta il faldone rosa più voluminoso. E’ il dossier di Ilyas Moutaoukil. Perché lui? E’ un’artista di 32 anni, vicino a Zefzafi, fa teatro, si occupa di fotografia. Non ce ne sono molti come lui ad Al Hoceima”.

È perseguito per “incitamento a commettere crimini”. Tra gli arrestati infatti ci sono persone comuni. Ci sono blogger. Artisti. Semplici studenti. Disoccupati. E li si spaventa in ogni modo. Ma loro resistono e soprattutto non cedono alla tentazione della violenza. Questa è un’eredità delle Primavere.

Forse è anche la certezza che se reagissero a rimetterci sarebbero i primi.

La ribellione del Rif è anche la dimostrazione del salto di qualità compiuto da un popolo insoddisfatto: nel 2003 Sidi Moumen aveva reagito all’umiliazione producendo kamikaze. Nel 2016 e 2017 Al Hoceima reagisce alla hogra producendo ribellione. Senza violenza e senza esplosioni.

Certamente i giovani di Al Hoceima, pescatori poveri come Mouhcine Fikri, conducono vite meno disperate di quelle delle Stelle di Sidi Moumen.

Strette dentro confini angusti che non lasciano spazio alla redenzione. Però hanno anche fatto una scelta consapevole di civiltà. Coraggio che non può non essere messo in continuità con il significato epocale delle Primavere arabe.

Quei moti di piazza, con l’epilogo che sappiamo, sono tutt’ora uno spartiacque eccezionale. Dalla paura alla redenzione.

Dalla rabbia cieca alla richiesta lucida. Dalla visione di un futuro nero al coraggio di dire no per un futuro più sfumato. E di rivendicare con le parole.

I giovanissimi di Sidi Moumen non avevano alternative che gli emiri (i fondamentalisti che li iniziarono al suicidio terrorista) per uscire dalla fogna. Oggi, quelli delle regioni berbere e anche delle bidonville cittadine, hanno un orizzonte meno oscuro davanti.

E’ l’eredità più grande e vincente lasciata dai compagni tunisini, egiziani, yemeniti, siriani.

Oggi i ragazzi che hanno fatto quest’altro salto, assaggiando il gusto della sana rivolta di piazza, sanno che dall’altra parte non li aspetta il vuoto.

Spesso c’è la morte (non voluta e non ricercata però). Ma ancora più spesso li attende la visione del “re nudo”. Che toglie sacralità al monarca e rende tutta la bellezza del reclamare a pieno diritto la giustizia a lungo desiderata.

tratto da Q CODE Magazine
del 04/11/2017

Catalogna, appunti per un nuovo (dis)ordine mondiale

Fatidico Ottobre 2017: cent’anni dopo la Rivoluzione Russa, a Barcellona si profila la Rivoluzione Catalana. Un nuovo modello rivoluzionario, non fondato sulle ideologie politiche conosciute nel XX secolo, ma su un nuovo nazionalismo che si potrebbe chiamare anti-sistema: avverso al sistema degli Stati nazionali che, definiti nella loro forma attuale generalmente nell’800, dopo le due grandi guerre mondiali hanno dato luogo agli organismi internazionali incentrati nell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Col voto del 27 ottobre 2017 il Parlamento catalano, una volta usciti per protesta tutti i partiti di opposizione (Ciudadanos, Partito Socialista di Catalogna e Partito Popolare) tranne Podemos, ha stabilito: “Oggi la Catalogna restaura la sua piena sovranità”. L’affermazione è priva di senso: la Catalogna non ha mai avuto sovranità — infatti prima della costituzione dello stato unitario spagnolo faceva parte della contea, poi regno di Aragona — quindi semmai il proclama avrebbe dovuto dire non “restaurare”, ma “conquistare” la sovranità. Comunque, sono stati settanta coloro che hanno detto “Sì” a tale risoluzione, tramite voto segreto: i membri del gruppo parlamentare Junta pel Sí e di Candidatura de Unidad Popular (CUP)-Llamada Costituyente. Il primo è erede del partito principe del movimento indipendentista catalano, Convergencia i Unió (CiU) del famigerato Jordi Pujol (che primeggia tra i grandi esportatori illegali di capitale dal territorio ispanico nonché tra i bustarellari taglieggiatori delle attività pubbliche) e di Esquerra Republicana de Catalunya (partito che ebbe tra i suoi leader storici Josep Tarradellas, fautore della rinascita della Generalitat catalana dopo la guerra civile spagnola, e Luis Companys, leader di Esquerra all’epoca della guerra civile, vittima del franchismo). Esquerra Republicana per tradizione era catalanista ma non necessariamente indipendentista: lo è divenuta in questi ultimi anni, in particolare sotto l’impulso del suo dirigente attuale, Oriol Junqueras, anche per via degli accordi da questi stabiliti col successore di Pujol al fronte di CiU, Artur Mas.

Dunque settanta parlamentari su un totale di 135 rappresentati nel Parlamento catalano, dei quali solo 92 hanno partecipato al voto. Una maggioranza non certo schiacciante, che tuttavia s’è arrogata il diritto di prendere una decisione di rilevanza tale da scuotere tutto il sistema politico istituzionale spagnolo.

Parlamento catalano, 27 ottobre 2017, i banchi dell’opposizione sono vuoti, dopo l’uscita dei parlamentari contrari alla dichiarazione di indipendenza.

Il voto è stato segreto come misura cautelativa, volta a cercare di evitare che i singoli parlamentari possano esser assoggettati ai rigori della legge: trattandosi di voto anticostituzionale possono essere accusati dalla magistratura di sedizione e ribellione. La segretezza è stata complementata da due voti in bianco e da dieci degli undici deputati di Catalunya Sí Que Es Pot (la sezione locale di Podemos) che hanno scelto di partecipare al voto, ma mostrando che votavano “No” alla risoluzione.

Subito dopo la votazione, il Presidente del governo spagnolo, Mariano Rajoy, sulla base dell’articolo 155 della Costituzione spagnola ha dichiarato decaduto il governo catalano avocandone le funzioni e ha contestualmente indetto nuove elezioni per il 21 dicembre 2017.

Intanto nelle strade antistanti alla Generalitat si son viste persone abbracciarsi in lacrime, felici che finalmente si fosse raggiunta l’agognata libertà. Anna Gabriel, portavoce del partito CUP (ritenuto l’erede del movimento anarchico catalano) ha annunciato che nel giorno stabilito da Rajoy per le elezioni, promuoveranno una grande “paellata” nelle città catalane, in ciò evidenziando la vocazione al paradosso della situazione generatasi. La Gabriel nei suoi discorsi pubblici usa solo il femminile: non vi sono deputati, ma solo deputate. A manifestare la sua rivolta contro quanto è stata usanza dominante sinora, generalizza il genere femminile di contro alla sinora dominante generalizzazione del genere grammaticale maschile: fa parte anche questo (lei direbbe questa) della marcia per la rivolta contro l’esistente.

Va evidenziato che quella del 27 ottobre non è stata una vera a propria dichiarazione di indipendenza, ma una dichiarazione di intendere dichiarare l’indipendenza, secondo la strategia seguita da Carles Puigdemont, il presidente della Generalitat (destituito da Rajoy): dire e non dire, fare e non fare, affermare e assieme negare.

Tali eventi potrebbero portare un osservatore esterno a perdersi nei meandri di questo neo bizantinismo catalano, e a ritenere i fatti che hanno commosso la Spagna nell’ottobre 2017 una specie di evento folklorico.

La questione è complicata in realtà, e ha dimensioni e potenzialità maggiori, nell’ambito dell’attuale mondo in subbuglio.

Si consideri ad esempio l’intervento svolto da Marta Rovira, segretaria generale di Esquerra Republicana, durante il dibattito al Parlament previo alla votazione della risoluzione indipendentista: tra l’altro la Rovira ha accusato la leader del principale partito di opposizione, Ines Arrimada (Ciudadanos), di mandare la polizia a minacciare mamme con bambini che si recavano a votare il 1 ottobre nel referendum anticostituzionale per l’indipendenza catalana: affermazione singolare che rivela la condizione psicologica entro la quale si muovono gli indipendentisti. Si sentono oppressi da una Spagna nella quale ravvisano la continuazione del franchismo, come se non vi fosse in realtà una democrazia parlamentare: loro ci credono davvero.

Tale atteggiamento paranoide alimenta e giustifica la pretesa di indipendenza come ideale ambizione a un nuovo Eden. Il circuito di televisioni, radio, organi di stampa, ambiti di discussione, siti Internet entro il quale il verbo indipendentista si è andato rafforzando negli anni mentre il resto della Spagna, a partire dal governo nazionale, sembrava non veder nulla, ha generato una vera e propria cultura che si è radicata nelle coscienze.

Per questo si son viste persone piangere di gioia per le strade di Barcellona dopo la dichiarazione di indipendenza; per questo i deputati indipendentisti dopo aver votato il 27 ottobre 2017 si son messi a cantare assieme con commossa devozione, a voce spiegata, l’inno catalano, Els Segadors, col sicuro fanatismo della massa che domina l’individuo. Sono sinceramente convinti di aver compiuto un gesto storico, e si preparano a portare avanti la loro battaglia.

La cosa non finirà nell’evento folklorico. Volontà dichiarata di tutte le parti in causa è di muoversi secondo i principi democratici, ma il fatto di sentirsi oppressi da potenze ostili – la condizione di paranoia autoindotta – rende gli indipendentisti disposti al sacrificio.

Per parte loro gli indipendentisti sono spaventati dall’invadenza dello stato spagnolo che sulla base della Costituzione del 1978 si muove per far rispettare la legge. Mentre invece gli spagnoli si sentono minacciati dall’indipendentismo e dal modo in cui questo si è mosso, imponendo il volere di una minoranza, per quanto cospicua, sulla maggioranza dei cittadini catalani (in virtù del sistema elettorale i partiti che formano la coalizione che ha governato la Generalitat sino alla sua destituzione hanno bensì vinto le elezioni, ma senza rappresentare la maggioranza). Anche a causa di questo, in molti in Spagna ritengono che la dichiarazione di indipendenza catalana sia assimilabile al tentativo di colpo di stato portato avanti nel 1981 dal generale Armada con il colonnello Tejero e il generale Milans del Bosch contro la democrazia parlamentare ancora giovane dopo la morte di Franco.

Vi sono altri fatti da considerare. Se il tentativo di colpo di stato del 1981, esauritosi nel giro di una giornata, fu un fatto eminentemente interno spagnolo, malgrado la Comunità Europea e una pluralità di Stati nel mondo abbiano reagito agli eventi dell’ottobre 2017 ritenendo anche questi un fatto interno spagnolo, in realtà si tratta di un fenomeno inquadrabile entro il più vasto contesto di imbarbarimento diffusosi in tutto il mondo occidentale e può avere conseguenze più ampie.

Innanzi tutto i secessionisti dispongono di un programma di lungo termine e da tempo hanno preso in considerazione che sarebbe potuto accadere quanto accaduto (che lo Stato spagnolo attivasse le misure volte a ristabilire la legalità costituzionale in Catalogna) e hanno preparato quel che la stampa spagnola ha presentato come una “hoja de ruta”, una tabella di marcia che prevede organismi in grado di funzionare in condizioni di illegalità e di segretezza cospirativa.

Da tempo esiste una rete internazionale non solo istituzionalizzata ma rappresentata nel Parlamento europeo, di partiti localisti, la Alianza Libre Euopea, o European Free Alliance, o
Alliance libre européenne o Partido Democrático de los Pueblos de Europa (PDPE) che, costituitasi nel 1981, raccoglie partiti da diversi paesi europei (Germania, Belgio, Bulgaria, Austria, Danimarca, Repubblica Ceca, Francia, Croazia, Finlandia, Grecia, Spagna, Italia, Estonia, Regno Unito, Slovacchia, Polonia, Paesi Bassi), in cui particolarmente forte è l’Alleanza Neo-flamenca che ambisce separare le Fiandre dal Belgio, e in Spagna conta su indipendentisti anche nei Paesi Baschi, in Aragona, nella Comunità Valenziana, nelle isole Baleari, nelle Canarie, in Navarra, in Galizia. Sono movimenti che spesso si rifanno a momenti storici di effettiva oppressione subita da minoranze a opera di Stati invadenti. Un movimento occitano ha offerto di ospitare in Francia, in rifugi protetti, i membri dell’ipotetico nuovo governo indipendentista catalano qualora questi dovessero andare in clandestinità.

Nel suo impegno a ricostruire l’impero russo ex sovietico, Vladimir Putin sostiene questi movimenti, soprattutto in funzione anti Unione Europea: si tratta di un supporto il cui valore in ambiente Internet è stato messo in rilievo da quanto accaduto con l’elezione di Trump negli USA.

L’ondata di rivolta anti globalizzazione, ben giustificata dal fatto che questa abbia assunto in gran parte il volto dei grandi potentati finanziari (i pochi ricchi contro i tanti, se non poveri, almeno impoveriti, ovvero le classi medie che più hanno subito le conseguenze della crisi del 2008) ovviamente gioca a favore di tali movimenti.

Ecco che la rivoluzione catalana del 2017 potrebbe benissimo finire come tutti gli altri momenti di fermento indipendentista catalano del passato, ma potrebbe, proprio grazie alla globalizzazione, divenire il germe di un nuovo fenomeno politico.

Un fenomeno “glocale”, in cui il rischio maggiore è dato dall’incontro tra la finanziarizzazione ingiusta da un lato e le condizioni paranoidi che, dall’altro, spingono gli indipendentisti verso la chiusura entro ristetti limiti locali, rifiutando il sistema di legalità internazionale che ha preso piede col movimento storico che portò alla costituzione delle Nazioni Unite.

Pubblicato il 28 ottobre 2017
su Frontiere
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