Negli ultimi decenni, l’Europa si è trovata spesso a rincorrere gli eventi, senza una strategia chiara e univoca per affrontare le sfide globali. La soluzione non può essere una corsa individualistica agli armamenti, con ogni Stato che si muove in ordine sparso come una sorta di Armata Brancaleone. Al contrario, è fondamentale creare un’unica regia, un coordinamento efficace che consenta all’Unione Europea di agire con prontezza e lungimiranza.
Per troppi anni, i Paesi europei hanno evitato una reale integrazione della politica di difesa per paura di perdere prestigio e sovranità nazionale. Questo ha portato a un continuo inseguire le crisi, spesso spendendo in modo inefficace e frammentario. La mancanza di una visione comune ha indebolito la capacità dell’Europa di rispondere in modo deciso e autonomo alle sfide geopolitiche, relegandola a un ruolo di secondo piano rispetto ad altre potenze globali.
Non è la mancanza di risorse o competenze tecnologiche a frenare l’Europa: il continente vanta eccellenze industriali e scientifiche nel settore della difesa e della sicurezza. Ciò che manca è un utilizzo sinergico di queste capacità. Una vera strategia comune, fondata su un’industria della difesa europea integrata e su un comando centralizzato, permetterebbe di ottimizzare gli investimenti, sviluppare tecnologie avanzate e ridurre la dipendenza da attori esterni.
Una difesa efficace non si misura solo in armamenti, ma anche nella capacità di prevenire i conflitti attraverso la diplomazia e la stabilità economica e finanziaria. L’Europa deve essere un attore globale capace di garantire sicurezza non solo con la forza, ma anche con la promozione dei diritti, della cooperazione e dello sviluppo sostenibile.
Non si tratta di militarizzare l’Unione Europea, ma di renderla capace di proteggersi senza dover dipendere esclusivamente da alleanze esterne. Un’Europa unita nella difesa, nella strategia economica e nella politica estera può diventare un modello di sicurezza intelligente, capace di affrontare il futuro con decisione e coerenza. La sfida è abbandonare le logiche nazionalistiche del passato e costruire una visione comune che permetta di rispondere alle minacce con coordinazione, efficienza e, soprattutto, buon senso.
E’ sempre interessante vedere come gli altri vedono e presentano se stessi. Prendiamo la Turchia di Erdogan. A Istanbul dire Yeşilçam sokak è come qui dire Cinecittà e anche in Occidente c’è grande consumo di serie televisive turche (loro le chiamano dizi, cioè serie). Si tratta di prodotti commerciali con bei panorami sul Bosforo, ambienti di lusso e sofferte storie d’amore: Daydreamer – Le ali del sogno, Cherry Season – La stagione del cuore, Bittersweet – Ingredienti d’amore (1). Nulla a che vedere con quanto viene invece diffuso sul mercato turcomanno e musulmano, dove invece predomina la narrazione non solo di tensioni familiari e contrasti tra classi sociali differenti (ispirate al canone mediorientale tradizionale), ma sono frequenti anche i complotti diplomatici. E soprattutto viene esportata l’immagine dell’Impero Ottomano come supremo regolatore dei conflitti tribali e delle divisioni etniche, portatore di pace e benessere e di un’amministrazione rispettosa delle autonomie e delle culture locali. Il che è storicamente attendibile, ma questo tipo di sceneggiati ha preso piede solo da quando Erdogan ha smesso di cercare un’improbabile integrazione europea e si è orientato verso un nuovo imperialismo neo-ottomano, con forti conseguenze anche sul clima culturale del paese. I produttori locali smettono allora di inseguire modelli e format di Hollywood, ripartendo dalla messa in scena di epici sceneggiati basati sui grandi romanzi turchi del secolo precedente o su personaggi storici del periodo imperiale, seguendo una precisa ideologia. Da lì a passare all’esaltazione dell’Impero Ottomano il passo è breve.
Impero che ha salvato… gli Ungheresi. Non è uno scherzo: ho qui sottomano un articolo in inglese: Ottomans saved Hungarian PM Orban’s Ancestors; now he says Islam never part of Europe (2). Autore ne è Juan Cole, un accademico americano specializzato nello studio del Medio Oriente ma spesso accusato di imparzialità (3). La sua tesi è che l’Europa è una costruzione ideologica e che gli antenati degli Ungheresi sono venuti dopo gli Arabi in Spagna e che in fondo tutti hanno invaso l’Europa, anche i Cristiani (!), che Juan Cole considera respinti fino al tempo di Costantino. Morale: dunque l’espansione turca è legittima e l’Islam fa parte della civiltà europea, visto che gli unici indigeni sono i Baschi. Il che è falso: venivano dall’Africa via Gibilterra, quindi erano invasori pure loro. Sempre poi che esista il diritto di invasione e che i Lituani debbano ringraziare i Sovietici perché li hanno salvati dai Polacchi.
Che l’Europa sia una costruzione ideologica che trascende la sua realtà fisica e geografica è vero: non si parla di Europa prima del medioevo e su questo ho anche scritto in questa sede. Concordo con Juan Cole anche su un altro concetto: nella sua essenza l’Europa non è una realtà immutabile, ma dinamica: è il punto terminale delle migrazioni afroasiatiche e il processo è tuttora attuale. Chiamatele invasioni, ma la sostanza non cambia: provenendo dall’esterno, ogni nazione prima o poi si è imposta con la forza sovrapponendosi alle ondate precedenti e integrandosi con la popolazione locale. In questo modo tutte le ondate che hanno invaso l’Europa hanno poi contribuito a creare la massa critica che poi ha permesso l’espansione della civiltà europea in tutto il mondo, anche se ora certa storiografia americana ne parla come fosse un romanzo criminale. Il punto debole dell’analisi di Cole è non realizzare che tutte quelle ondate si sono poi espanse fuori Europa, tutte tranne una: quella islamica, storicamente espulsa sia dalla Spagna che dalla Sicilia e dai Balcani fino ai Carpazi, perlomeno nella misura in cui è stato militarmente possibile (l’ultimo, antistorico tentativo risale alla recente guerra civile jugoslava). L’islam è comunque rimasto nella fascia balcanica albanese, bosniaca, kossovara, macedone e forse anche montenegrina, sia a livello religioso e culturale che nel DNA e nei caratteri somatici delle varie popolazioni: è normale che persino i tentativi più radicali di espulsione sociale non penetrino mai in profondità. Un progetto politico e religioso deve sempre fare i conti con la realtà e ha successo dove un fattore esterno non è ancora penetrato in profondità ma resta superficiale. Il problema è che l’Islam è uno dei tanti apporti esterni alla cultura europea, ma non è mai riuscito a diventare Europa almeno per come l’abbiamo intesa fino a poco tempo fa. E non possiamo capire gli atteggiamenti dei governi slovacco e ungherese, polacco, greco e serbo facendo finta di non sapere che l’Europa orientale è stata soggetta per secoli alla dominazione ottomana, peraltro tollerante delle culture locali come qualsiasi grande impero (è una necessità funzionale) ma che non ha mai portato a un vero sviluppo moderno dell’area, mantenendo strutture sicuramente più adatte alle società mediorientali e ritardando l’ingresso di quelle nazioni nella rivoluzione industriale.
Art. 32 della Costituzione:La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
Già, ma quale legge? Bella domanda. Ma in Europa non va poi tanto meglio: in sostanza, se la pandemia ha giustificato ovunque interventi di emergenza e limitazioni della libertà individuale, resta il baluardo della vaccinazione obbligatoria.
In una lettera alla Commissione europea, il premier ellenico Kyriakos Mitsotakis chiede di creare un documento per identificare le persone immunizzate: in questo modo sarebbero libere di viaggiare, a beneficio dell’industria del turismo (1). Ungheria, Belgio, Danimarca, Spagna e Polonia sono a favore, mentre Francia, Belgio e Germania si oppongono. Nel mondo la situazione non è omogenea (2). Spostandoci sul privato, sono invece favorevoli le compagnie aeree internazionali, né c’è bisogno di spiegarne il motivo. In effetti, un documento sanitario unificato sarebbe pratico: garantisce uno standard di sicurezza certificato e abbrevia le operazioni di controllo alle frontiere. Si noti: nessun vaccino è obbligatorio; si spera piuttosto che così facendo la popolazione europea sia incentivata a immunizzarsi. Chi si è vaccinato e desidera viaggiare – la tesi di Mitsotakis – non dovrebbe più sottoporsi a quarantene e tamponi, vedendo quindi ripristinata la sua libertà di movimento, peraltro sancita dalla UE. Per la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è necessario trovare un “requisito medico che dimostri che le persone sono state vaccinate”. Ma guai a chiamarla tessera.
I motivi di tanta cautela? Elettorali. In Francia e Germania è diffusa sia la diffidenza e lo scetticismo verso il vaccino (è anche vero che si tratta di prodotti sperimentati da poco) che il fronte no-vax, quest’ultimo anche capace di manifestazioni violente. La questione intanto passa ai giuristi (3) e può essere così esemplificata: si mina il diritto alla privacy (parere del Garante europeo della protezione dei dati, il polacco Wojciech Wiewiórowski) e pone rischi molto alti in termini di coesione, discriminazione, esclusione e vulnerabilità. Ma se tutti avessero accesso al vaccino nello stesso periodo e con le stesse modalità sarebbe forse diverso? Chi non si vuole vaccinare sarebbe identificato per esclusione, e il Vaticano su questo non discute: il dipendente che rifiuta il vaccino rischia il licenziamento o comunque il declassamento di funzione. Il problema investe direttamente le prerogative dello Stato, che deve erogare lo stesso livello di servizi in tutto il territorio e nel contempo tutelare i cittadini senza discriminarli, anche se un medico o un infermiere che rifiutino il vaccino a mio parere sono solo degli asociali. In ogni caso, la mancanza di un passaporto vaccinale non impedisce ai singoli stati di bloccare l’accesso da singoli altri stati, lasciando quindi discrezionalità nella gestione delle frontiere e di fatto discriminando comunque chi non si è vaccinato.
La Brexit chiude le porte alla
manodopera non qualificata degli europei per aprire alla migrazione all’interno
del Commonwealth, magari per rifondare l’impero e vivere sulla finanza del riciclaggio
dei patrimoni arabi, russi e cinesi.
La Gran Bretagna si sta avviando a
scoprire se il suo malessere è dovuto all’Europa o alla tristezza di voler dare
la colpa agli altri.
C’è da domandarsi se con la fuga
britannica è opportuno lasciare l’inglese una delle lingue ufficiali della UE.
Ma soprattutto quale sarà lo status dei funzionari britannici che lavorano a
Bruxelles e a Strasburgo su progetti europei?
L’anacronismo dell’isolazionismo,
diminuirà le visite degli europei in Gran Bretagna, ma i britannici stanno
imboccando la strada dell’invisibilità nel contesto culturale, per godersi in
solitudine i fish and chips.
Con la Brexit è stato aperto il vaso di
Pandora degli attriti e delle rivendicazioni: dalla restituzione dei marmi del
Partenone ai greci alla sovranità di Gibilterra, dalle controversie
anglofrancesi sulla pesca alla volontà di quel 53% di britannici che hanno
sperperato il loro sentimento europeista su vari partiti.
Per la Gran Bretagna, i prossimi anni,
sarà l’occasione per scoprire se il malessere britannico sia dovuto ad una
contiguità all’Europa o alla tristezza di voler dare la colpa agli altri. Per
l’Unione europea sarà un’opportunità, come lucidamente spiega Enrico Letta in
una lettera a Repubblica (4 febbraio), di superare i veti britannici e
trasformarli in opportunità di crescita, fissando tre punti e una modifica
lessicale.
Sicuramente è l’armonizzazione fiscale,
il primo punto elencato da Letta, al superamento del sistema ibrido partorito
dal veto britannico, offrendo l’occasione di scardinare alcuni paradisi fiscali
all’interno della Ue, che ha creato una disparità di trattamento tra cittadini
europei con la medesima moneta.
Alcuni paesi praticano facilitazioni
fiscali a società che intendono investire, rendendo floride alcune economie a
discapito di altre, mentre altri praticano la “vendita” di passaporti europei,
previo esborso dalle 250mila ai 2milioni di euro. Una pratica mascherata da
investimenti, che apre le porte della Ue non solo a facoltosi russi, cinesi,
arabi etc., ma anche a infiltrazioni criminali ed a terroristi.
Scompaiono muri e confini, filo spinato
e polizia armata per chi ha a disposizione portafogli colmi di euro per
entrare, anche con cattive intenzioni, in Europa.
Non esiste una migrazione uguale
all’altra, come il sistema tributario o il sistema sociale o come anche
l’istruzione, un altro veto britannico, che la Ue è riuscita ad aggirare con il
progetto Erasmus e che Enrico Letta propone di aprirlo ai sedicenni, per essere
integrato nel corso di studi obbligatori a tutte le scuole europee. Un Erasmus
ampliato per facilitare non solo l’applicazione del principio comunitario della
“mobilità dei cittadini”, stimolando non solo la conoscenza delle
lingue, ma anche delle culture e dei differenti modelli di vita a carico del
bilancio europeo.
Il terzo ed ultimo veto preso in
considerazione è quello sullo stato sociale che rende l’Europa difforme nel
trattamento salariale, non solo una concorrenza sleale tra paese e paese nel
produrre a basso costo, ma anche uno sfruttamento della manodopera senza le
garanzie sindacali e con un welfare minimo unificato.
Il tema del salario minimo e del welfare
dovrebbe comprendere anche l’unificazione del trattamento pensionistico e
quello dei parlamentari.
Enrico Letta, con la sua lettera, prende
anche in considerazione una modifica lessicale, ponendo il problema di
percezione del cittadino rispetto al termine “Commissario” a quello
di “Ministro”, identificando il primo come prepotente, mentre il
secondo scelto come amministratore, scardinando la retorica sovranista e
anti-europea “di una Ue che, dall’alto, è prevaricatrice dei diritti e dei
comportamenti dei cittadini che stanno in basso”. Una scelta linguistica non di
poco conto.
La riflessione di Enrico Letta va ad
arricchire il piano di Ursula von der Leyen su una Green Deal europea per una
indipendenza non solo energetica, ma anche sulla produzione di qualsiasi
manufatto, per superare la dipendenza della delocalizzazione senza incorrere al
rallentamento economico come avviene durante i conflitti o per le epidemie, con
il blocco dei trasporti e dell’eterei benefici della globalizzazione.
Un’importante passo verso una coscienza
europea condivisa può rappresentare la formazione di una Forza armata europea,
per superare i bollori sovranisti.
La Brexit non è solo un’occasione per
ripensare all’Europa, è una riflessione sulla fragilità del sistema economico,
con l’interdipendenza della globalizzazione, messo in evidenza dal Covid-19 che
confini e muri non riescono ad argina questa vigorosa influenza.
Le società
“occidentali” sono indirizzate all’aiuto in “sede”, trasformando la solidarietà
in cooperazione e quindi in una occasione di stipulare contratti più con le
comunità che con i governi centrali che hanno dato dimostrazione d’inefficienza
e malafede nel gestire i cospicui fondi che organizzazioni internazionali e
singole nazioni hanno destinato allo sviluppo di certe aree fondamentalmente
ricche di risorse naturali.
Governi
corrotti impegnati ad impoverire le varie popolazioni per arricchire i propri
conti e che l’economista Dambisa Moyo mette sotto accusa, al pari degli stati
“donatori”, nel libro La carità che uccide (2011), sottolineando Come
gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo. Una spietata
analisi per sollecitare le nazioni a non distribuire soldi a pioggia, ma creare
delle partnership modello cinese.
In questo panorama di buone
azioni si inserisce la Cina che, avulsa dai sensi di colpa per decenni di
colonialismo, è ormai stabilmente presente in gran parte degli stati africani,
senza far differenza tra governi autoritari e dittatoriali, con la
realizzazione di infrastrutture ed industrie, raramente ecosostenibili, che con
un piano di investimenti da oltre 60 miliardi di dollari pongono una seria
ipoteca sul futuro sviluppo indipendente dell’Africa.
Un futuro dove la popolazione
si sente consigliata ad imparare il mandarino ed a cedere le loro terre per
coltivazioni gradite ai cinesi, ma senza i basilari diritti per i lavoratori.
Nel periodo
coloniale anglofrancese i nativi dovevano parlare in francese o in inglese e
coltivare cotone, caffè, tabacco, tè e così via, per ottenere la possibilità
d’istruirsi, vedere le prime ferrovie e fare i domestici nei comodi edifici
coloniali.
La Cina si
sta sostituendo all’Occidente nello sfruttamento africano e la differenza sta
nell’aver cancellato il debito ad una trentina di paesi, concedendo prestiti a
lungo termine a tassi bassi, ma in entrambi i colonialismi non si fanno
scrupoli nel procurarsi le materie prime a discapito dei diritti umani, della
rappresentanza sindacale e della difesa dell’ambiente.
Come un
pusher, la Cina, prima ti cancella il debito per poi prospettare altre forme di
collaborazione, allettando i Governi con il fantasmagorico progetto della
“Nuova via della seta” e fornendo infrastrutture in cambio di ricchezze
naturali, aprendo nuovi canali di credito pronti a lievitare e con un futuro
senza possibili di riduzioni.
Una politica
quella cinese, in questo nuovo sfruttamento dell’Africa, che ha aperto la via
ai paesi arabi, all’India e alla Turchia, nella cosiddetta strategia del soft
power, accattivandosi l’amicizia e magari la fiducia, attraverso la vendita di
tecnologie e formazione, illudendo i vari governi nell’astenersi ad
intromettersi nelle politiche dei singoli paesi.
Le trame cinesi si allungano
sul continente con l’adozione di 13 paesi della nuova valuta ‘ancorata’ allo
yuan cinese, decretando la fine del predominio francese con il franco CFA
(attuale acronimo di Comunità Finanziaria Africana), che porterà 350 milioni di
persone ad usarla nel 2020 e farà tanto felice Luigi Di Maio e Alessandro Di
Battista, allontanando il continente dall’Europa.
L’Occidente
continua a perdere e varie strutture private, fondazioni e Ong, sembrano aver
ispirato un nuovo modello di cooperazione allo sviluppo come strumento di
politica estera, magari con la Ue come capofila, con Exco (The International
Cooperation Expo) http://www.exco2019.com/
nel pensare e far conoscere “piccoli” prodotti che aiutano la vita in aree
sfavorite, rivolgendosi alle aziende ed alle istituzioni impegnate nella
ricerca scientifica, nell’innovazione tecnologica e nella formazione.
L’Italia, nel
suo piccolo, è il primo Paese europeo per investimenti, con complessivi 4
miliardi di dollari nel solo 2016 per un totale di 20 progetti, posizionandosi
al quarto posto dopo Cina, Emirati arabi uniti e Marocco.
La
collaborazione tra le diverse organizzazioni nel confrontarsi e mettere a
frutto le singole esperienze non è stata solo un’occasione di business, ma fa
capire che non è necessario varare grandi progetti per stimolare l’economia di
luoghi remoti. Coinvolgere l’infanzia nel rimboschimento o la costruzione di
una scuola è un passo per l’emancipazione delle comunità a costi irrisori.
Far conoscere
i lampioni mobili http://www.eland.org/
ideati da Matteo Ferroni per illuminare la vita delle comunità rurali del Mali,
paese attraversato da un conflitto, l’energia solare per i pannelli al liceo
Lwanga (Ciad) o il progetto Syria Solar, organizzato dall’Union of Medical Care
and Relief Organizations (UOSSM) https://www.uossm.org/who_we_are, per svincolare gli
ospedali siriani da una rete elettrica fatiscente e dall’utilizzo del diesel,
le cucine solari promosse da Magis https://magis.gesuiti.it/progetto/cucine-solari/,
la campagna “Più luce alla vita dei rifugiati” https://www.ikea.com/ms/it_CH/good-cause-campaign/brighter-lives-for-refugees/index.html
di Ikea Foundation e UNHCR per fornire illuminazione sostenibile alle famiglie
nei campi profughi, come anche le tende di ultima generazione http://www.abeerseikaly.com/weavinghome.php,
sono solo alcuni esempi per non lasciare il campo ai mega finanziamenti come
quello per la nave estrazione diamanti in Namibia o quello per il commercio del
gas in Mozambico che non aiutano la popolazione, come dimostra la ricchezza
petrolifera in Nigeria di esclusiva pertinenza di un ristretto gruppo
politico-affarista.
Progetti
ambiziosi come quello legato all’impianto idroelettrico della diga Gibe, sul
fiume Omo, che si è rivelato fallimentare e che doveva anche favorire la
coltivazione intensiva di canna da zucchero, ma che ha per l’ennesima volta
sfavorito le popolazioni indigene, obbligate ad abbandonare le loro terre e
costrette alla fame.
In questo
panorama di esclusione delle popolazioni all’accesso alle ricchezze si
inserisce l’elezione del vice ministro dell’agricoltura e degli affari rurali
cinese alla carica di Direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni
Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao) http://www.fao.org/news/story/it/item/1199205/icode/,
che rafforza a tutti i livelli la presenza cinese, non solo in Africa, per
indirizzare le economie dei paesi in cerca di uno sviluppo autoctono.
L’intervento
della Fao, sino ad ora, si è dimostrato timido e con grandi studi di settore,
ma forse il nuovo direttore sarà attento alle necessità delle comunità, facendo
tesoro dell’esperienza delle piccole realtà nella realizzazione di orti
comunitari e banche dei cereali, svincolando le comunità dai capricci dei
potenti e magari sostenere la formazione di ragazzi e ragazze alla coltivazione
del Pleurotus Ostreatus, un fungo che cresce in Africa occidentale, o nei
progetti di piscicoltura, per renderli economicamente indipendente.
Un direttore
che ha annunciato di far lavorare l’elefantiaca struttura, con la speranza che
scelga di sostenere quelle iniziative che non richiedano impegni
finanziari milionari e di non essere il cavallo di Troia della finanza
internazionale.
Uno sviluppo
che l’Occidente, ancorato al suo senso di colpa, continua a contribuire con
l’elargizione di soldi sino a quando trasformerà le sue “buone
azioni” in una fruttuosa cooperazione per entrambe le parti.
Partnership
difficilmente realizzabili in aree di conflitto come nella R.D. del Congo
sconvolto da scontri etnici, come in Etiopia e nella Repubblica
Centrafricana, come gli scontri separatisti anglo-francofoni in Camerun e in
Sudan con i militari che non mostrano di dare una svolta democratica alla
destituzione di Al Bashir e in Malì e in Burkina Faso dove i jadisti
fanno vivere la popolazione nella paura, come anche in Nigeria con i saccheggi
e i rapimenti di Boko Haram e la presenza di varie missioni militari nei
diversi stati riescono appena a contenere la violenza e sono ben lontani a
stabilizzare la situazione.
Conflitti
che alimentano le fughe e l’Occidente non potrà continuare ad erigere muri,
rinviando una scelta condivisa per attrezzarsi all’accoglienza e renderla una
ricchezza.
Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti