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Il Primo Re: Realtà e leggenda

“Il primo re” di Matteo Rovere si misura nella ardua difficoltà di illustrare, immaginare, realizzare creativamente, la arcaica favola del Mito, della leggenda, nella concretezza degli ipotetici eventi accaduti. Si sà che nei primordi della civiltà non era concepito il compito della cronaca né tantomeno la visione “storica” della realtà: ogni avvenimento veniva tradotto e travisato nella veste del Mito, della Favola, perché nella visione dell’homo sapiens tutto era fenomeno magico, fatale, derivante dalla presenza invisibile ma concreta della Divinità.

Nel “Primo re” è concepita, nella spietata e sanguinaria durezza della primitiva sopravvivenza, naturalmente una “presenza” divina altrettanto crudele e sanguinaria. In altri tempi, nell’evolversi della civiltà, sarà poi concepito un Divino amoroso e caritatevole, ma nella quotidianità primordiale laddove imperava necessariamente la legge del più forte, là incombeva la fatalità di uno Spirito altrettanto spietato e sanguinario.

La leggenda dei fatali gemelli, Romolo e Remo, sguarnita dei suoi orpelli gentili e favolosi, si dipana in un labirinto di crudeltà e di violenza ossessiva, la Natura stessa è estranea ed ostile. Eppure in tanta oscurità emerge tuttavia l’amoroso sentimento dei due fratelli, affiora la viscerale necessità di appartenenza ad un unico destino, destino che pure condurrà, come tramanda la leggenda, alla terribile soluzione del fratricidio, fatalità imposta da oscure e spietate Divinità.

Tutto questo Matteo Rovere e i suoi attori hanno saputo realizzare, pur nell’orgia di sangue e di orrore, in una specie di poesia pur rozza e brutale che ha rievocato moventi e sentimenti di uomini e donne ancora immersi nella orribile e affascinante visione di una vitalità perduta in tempi pur remotissimi, ma che profonda radici oscure e invisibili fino al nostro quotidiano di apparente, civilissimo esistere.

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IL PRIMO RE
di Matteo Rovere
con Alessandro Borghi, Alessio Lapice, Fabrizio Rongione, Massimiliano Rossi, Tania Garribba

Distribuzione 01 Distribution.

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Navigatores

Qui a Roma, per trovare una segnaletica razionale bisogna andare all’Ikea. Almeno questa è l’opinione di chi guida. Ormai se non mi perdo più o non imbocco l’uscita sbagliata della tangenziale, del raccordo anulare, della galleria Giovanni XXIII o del sottopasso di piazza Fiume, è solo perché alla fine ti fai le ossa con le stesse strade. Non importa che i cartelli stradali siano messi nei punti sbagliati o non ci siano dove servono, né è considerato criminale mettere in galleria cartelli leggibili solo a due metri dal bivio, sempre che tu riesca a scalare le marce: alla fine conta solo l’esperienza. Ma torniamo all’Ikea. Prima ne ho lodato la segnaletica, ma parlavo di quella interna, realmente da manuale. All’esterno è diverso: i parcheggi del centro commerciale di Porta di Roma sono degni di Doom, quel videogioco pieno di passaggi.

Uscire dai parcheggi per tornare verso il centro significa poi quasi sempre ritrovarsi a Settebagni. E soprattutto, bisogna ricordarsi di dove abbiamo parcheggiato la macchina. Per farla breve, ho comprato da Ikea della merce voluminosa (scatole di cartone per imballaggio, codice Jaettene (jatevenne? Sui codici Ikea c’è da scriverci un libro, anzi l’hanno già fatto: si chiama La casa di cartone, di Alberto Moliterni) e mi sono ritrovato a duecento metri dalla macchina, da solo, senza possibilità di portare il carrello fuori della zona di scarico merce. Che fare? Come nella Roma antica, subito appare il “cliens” nella figura di un giovane immigrato.

Mi chiede dove ho la macchina. K12 rosso. La sua mente ormai ha la mappatura completa della zona e va sicuro della sua strada. Mi aiuta anche a caricare e ovviamente si merita una mancia. Come ti chiami? “Esperanza”. Bene, la prossima volta ti cerco io.

 

 

 

Follie planetarie, ieri oggi domani!

Scava scava nella nostra cineteca, che ti trovo? Obiettivo mortale di Richard Brooks, un film di quasi vent’anni fa (già così tanti?), un curioso film di qualche pregio e parecchi difetti, una specie di buffo apologo sullo strapotere, disumano fino al grottesco, degli ascolti (dicesi audience”) televisivi: c’è un demenziale direttore di rete che praticamente vive ancorato agli “studios”, una specie di ridicola marionetta che gongola e sbava ai rialzi di temperatura televisiva durante disastri e catastrofi.
Individui simili me l’immagino il giorno dell’Apocalisse: bruceranno ridendo degli incredibili “ascolti”! Ma tutti i personaggi della storia più che veri individui sono divertenti paradigmi, pupazzi maniaci ed eccessivi come dev’essere in un “grottesco”. A cominciare dalla video-star (Sean Connery) che è l’eroe e la vittima della crudele realtà televisiva; mi vengono i brividi a sentir dire: “qualsiasi cosa accada non è accaduta se non è accaduta per televisione!” Vi piace? A me no, fin quando potremo vivere altrove, in fuga dal filo spinato del tirannico riquadro elettronico. Ma c’è dell’altro; è zeppo di terroristi islamici, attentati a Manhattan, “kamikaze” folli che si fanno esplodere sul Campidoglio di Washington e di bombe sui grattacieli.
La storia paradossale dell’altro ieri, autentica demenziale fantascienza, suona oggi lugubre profezia sulle rovine newyorchesi ancora fumanti. Così le immagini catastrofiche, ponti e torri in fiamme, i monumenti presidiati, le strade deserte in un clima di guerra nucleare incombente, hanno perso oggi per noi la loro carica di spasso paradossale per farci dolorosamente riflettere sulla odierna follia che ci ha trascinati quasi alle soglie del conflitto “totale”. L’Apocalisse, appunto.
Tornando al film constatiamo che il terrorista con il “plastico” in corpo, il presidente degli Stati Uniti incatenato ai sondaggi elettorali, il generale guerrafondaio maniaco della rappresaglia, il politico reazionario (Leslie Nielsen), sono tutte ancora figurine da fumetto di un antiamericanismo fatto dagli americani, ammiccante ed affettuoso, in un clima di catastrofe gustata come una festa assurda e pirotecnica.
Insomma una specie di Dottor Stranamore senza però la solida ossatura, il gelo ironico e rabbrividente del geniale Kubrick. Il film è invece tutto un saltellare disordinato e sconnesso, un gioco confuso di richiami comici e semiseri, una traballante parodia senza autentico nerbo espressivo; una balbuziente opera dei pupi, tra fantatecnologie alla James Bond, ricatti planetari, bombe esplose ed inesplose che dice, dice, dice, ma non “racconta” veramente mai niente, forse per l’eccessivo, intricato materiale di una sceneggiatura gonfia di trovate ma povera di autentica struttura filmica.
Una storia già vecchia fatta per riflettere sull’odierno orrore planetario. Attenti a ridere dei nostri incubi: potremmo ritrovarceli al risveglio sul comodino. Non perdetevi il terribile proclama dell’apocalittico generale (non è lo stesso generale impazzito e bombarolo di Kubrick’?): “Terrorismo nelle strade, nel cielo, terrorismo di ragazzi, di gang e di governi: se le blatte prevalgono si ricorre a chi le stermina e si preme il bottone!” Che il cielo ci aiuti da simili arcangeli della vendetta.
L’ultimo sorriso del film è geniale e incoraggiante: Sean Connery si lancia col paracadute gettando via il suo parrucchino, gesto buffo e virile di chi non rinuncia in fondo (siamo quel che siamo) alla sua vera umanità.

da ORIZZONTI 2002
La Cineteca Dimenticata

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Obiettivo mortale
Wrong is Right
USA, 1982
Genere: Spionaggio
durata 118′

Regia di Richard Brooks

Con Sean Connery, George Grizzard, Robert Conrad, Katharine Ross, Leslie Nielsen, Hardy Krüger, Henry Silva, Ron Moody, Cherie Michan…

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8 anni fa la Rivoluzione egiziana

Il 25 gennaio del 2011 iniziava la più grande Rivoluzione di questo secolo. 8 anni fa 25’000 manifestanti scesero in piazza per protestare contro un nemico che affamava la propria gente, zittendola appena reagiva. Quell’anno nessun criminale riuscì più a far tacere il popolo, unito e compatto per la libertà.

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Prima della Rivoluzione

La Rivoluzione egiziana scoppiò a seguito di altre sommosse in paesi arabi, nate principalmente per le condizioni insopportabili a cui i vari regimi sottoponevano i loro cittadini. Le proteste che sfociarono a Tahrir sono legate filo doppio con quelle della Tunisia, scatenate dall’auto-immolazione Mohamed Bouazizi, un’ambulante al quale venne tolto persino il carretto. Questo portò a contestazioni sempre più accese da parte della popolazione, che il 14 gennaio riuscì a cacciare il dittatore Ben Ali dal paese dopo ben 24 anni di regime.

Ciò spinse sempre più egiziani a protestare, anche loro costretti a subire corruzione, tortura e mancanza di futuro. L’atmosfera di quei giorni è resa benissimo nel film Omicidio al Cairo, che si svolge proprio in quel momento storico, mostrandoci l’Egitto dagli occhi di un poliziotto. Proprio la violenza si era fatta protagonista di quegli anni, una miccia che non aspettava altro che la scintilla giusta.

25 gennaio

I gruppi dell’opposizione scelsero come data il 25 gennaio, proclamato dal 2009 “Festa nazionale della polizia”. Il piano era quello di organizzare una dimostrazione davanti al ministero dell’interno, affinché vi fosse finalmente rispetto per il popolo e per la democrazia. In brave tempo il sostegno a questa manifestazione fu immenso, riunendo partiti di idee ed aspirazioni  diverse e raccogliendo in breve tempo 20’000 adesioni. Non solo politici però, alla protesta aderirono fin da subito anche scrittori e uomini di spettacolo quali ‘Ala al Aswani e Khaled Aboul Naga.

Rivoluzione egiziana

Quel giorno, al Cairo e nell’intero Egitto, migliaia di persone si radunarono in piazza, decise più che mai ad aver giustizia contro chi troppo a lungo l’aveva tolta. Non avevano colore politico e avevano una sola bandiera, quella dell’Egitto.

Rivoluzione storica

La Rivoluzione ci colpì profondamente fin da subito e crediamo sia necessario dargli lo spazio che merita. Abbiamo deciso allora di celebrarla con una programmazione ad hoc da qui al 11 febbraio, giorno della vittoria del popolo egiziano. Nei prossimi giorni vi faremo sapere di più ma non temete: sul sito continueranno ad uscire anche tematiche diverse. Questa domenica, ad esempio, vi parliamo di Uiguri e Cina.

Rivoluzione egiziana

Pubblicato 25 gennaio 2019
Articolo originale
da Medio Oriente e Dintorni

Verità e giustizia per Giulio Regeni, anno terzo

Per quanto tempo ancora si parlerà dell’omicidio di Giulio Regeni? Sicuramente fino a quando i caparbi genitori saranno in vita. Finché gli amici e il movimento spontaneo formatosi in questi anni sul suo orrendo caso ne sventoleranno ancora gli striscioni gialli, che anche amministrazioni pubbliche determinate hanno esposto davanti a sedi istituzionali. Uno striscione magari ritoccato, perché aveva nel tempo smarrito uno dei due princìpi che si rivendica per quello strazio: giustizia. Chiedere giustizia è un atto profondamente politico. Domanda allo Stato egiziano quell’approccio che non ha mai manifestato davanti all’oscura vicenda. Non saranno i comuni d’Italia, né Amnesty International fattasi promotrice della campagna, a riuscire a inchiodare il presidente al Sisi di fronte a responsabilità dei suoi apparati di sicurezza che risultano implicati nel rapimento, nell’efferata tortura, nell’assassinio del ricercatore friulano.  Direttamente neppure i governi italiani che in questi tre anni si sono succeduti possono a imporre alcunché agli omologhi d’oltre Mediterraneo. Chiedere giustizia sì. Possono, anzi debbono.

Lo potevano i premier Renzi e Gentiloni che, invece, dopo un inziale azione chiarificatrice hanno abbandonato ogni volontà di difesa anche della memoria d’un cittadino che ha finito i suoi giorni seviziato da sgherri di Stato. Lo può l’attuale presidente del Consiglio Conte che, invece, non s’occupa affatto della questione, al più delegando alla terza carica dello Stato, Roberto Fico, un appello ai Parlamenti d’Europa “per trovare la verità”. Meglio di niente, ma praticamente niente. Perché non è su questo terreno che l’Egitto risponde. Anche l’interruzione dei rapporti fra il Parlamento italiano ed egiziano (il dittatore Sisi conserva ancora il simulacro della democrazia rappresentativa) serve a poco. Diverso sarebbe l’interruzione dei rapporti diplomatici, durata un batter di ciglia nel 2016, e ovviamente ancor più il blocco di quelli commerciali. Ma tutto questo i governi italiani di prima, col Pd, e d’ora, con Cinquestelle e Lega, non lo fanno, perché Confindustria preme e gli interessi dei giganti dell’economia come l’Eni ancor più. Forse non si tratta neppure di don Abbondio della politica nostrana, che “il coraggio non se lo posson dare”.

I nostri politici sono cinici, di tante questioni se ne fregano. Valutano esclusivamente quelle che hanno un ritorno: elettorale, d’immagine, d’interesse, per quanto sull’interesse privato confezionano abitini  pubblici, lo mostrano i favori fra i leghisti ladroni della prim’ora (il clan Bossi) e l’attuale leadership d’un Carroccio che dalla Padania viaggia per tutta la penisola. E guarda ovviamente all’estero. A quelle terre dove imprese grandi e piccine della cosiddetta ‘Italia del fare’ fanno i propri affari. E’ qui che i legami fra Italia ed Egitto si saldano ancor più, anziché fermarsi per chiarire ragioni di Stato sull’omicidio d’un italiano nella capitale d’un Paese sedicente amico, da parte di poliziotti e agenti segreti egiziani che eseguivano ordini provenienti da apparati nazionali. Non solo le Istituzioni, i politici d’Egitto stanno impedendo da tre anni lo sviluppo d’indagini, la stessa magistratura locale non collabora con quella italiana e la ostacola come denunciato dai procuratori romani. Questo è il regime di al Sisi, che i Regeni d’Egitto li ha iniziati a far sparire, incarcerare, uccidere da molto tempo prima del nostro concittadino. E prosegue nell’opera. Se questo è un governo amico, chiediamo ai nostri governanti quale verità, quale giustizia si potranno ottenere.