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DECIFRARE LE SCRITTURE ANTICHE

E’ ufficiale: la scrittura lineare Elamita è stata parzialmente decifrata. A farlo è stato un archeologo professionista francese e i risultati sono stati presentati ufficialmente all’Università degli studi di Padova, in attesa di essere discussi sulle riviste scientifiche specializzate. Lo scrivo perché troppe volte avventurieri dell’archeologia si sono svegliati una mattina con la chiave per decifrare lingue e scritture antiche, fosse l’etrusco o il disco di Festo. L’archeologo francese François Desset è invece uno specialista ancora giovane (38 anni), ha un incarico all’Università di Lione; il problema lo studiava dal 2008, ed è il primo a dire che ci vorranno almeno altri quattro anni per decifrare in parte la quarantina di iscrizioni “elamite” (il nome è convenzionale) a noi rimaste. Si tratta di una civiltà della penisola iranica parallela al mondo assiro-babilonese ma linguisticamente ed etnicamente diversa e isolata, fiorita 3-4000 anni fa. Le iscrizioni studiate risalgono al 1950 a.C. circa e hanno l’insolita caratteristica di essere stilate in una scrittura completamente fonetica: a ogni segno grafico cioè corrisponde un suono (meglio: un fonema) e i segni sono un centinaio, quindi molti sono sillabici (come nell’alfabeto etiope). Una stranezza, visto che le scritture antiche, come il geroglifico egiziano e il cuneiforme assiro, sono inizialmente logografiche (ai segni corrisponde un oggetto o un concetto) e solo più tardi si evolvono in senso fonetico. Tanto per fare un esempio, il disegno di una nave significa appunto “nave”, ma più tardi può indicare il fonema “na” o la lettera “n”. Quanto al sistema pensato da Desset, è analogo a quello usato a suo tempo da da Champollion – un altro francese – per decifrare i geroglifici egiziani al tempo di Napoleone: identificare il nome del Re. Lo stesso fece il tedesco Grotefend,  il  quale identificò  i  nomi  degli  imperatori  persiani  Dario  I  e Serse nelle iscrizioni cuneiformi di Persepoli e Bisitun. Solo che nell’elamitico questi nomi non erano racchiusi in un cartiglio come nella Pietra di Rosetta, quindi l’operazione ha richiesto più tempo. Ma una volta raggiunto questo primo obiettivo, è stato più facile decifrare il resto, tenendo presente che nei documenti antichi la scrittura era destinata alle operazioni amministrative (come nella Lineare B cretese, su cui torneremo) o alle dediche formali. In questo caso le frasi ricorrenti sono del tipo “io XY, figlio del re XZ..”, “questo tempio è stato dedicato da…” “offerta in onore del dio YZ…”, quindi alla fine sono anche ripetitive, come certe iscrizioni funerarie etrusche che alla fine dicono sempre le stesse cose. Solo più tardi viene messa per iscritto la letteratura, ma dopo secoli di trasmissione orale; esempio classico: i poemi omerici.

Decifrare le scritture antiche è sicuramente una sfida appassionante, ma richiede metodo scientifico. La Lineare B cretese fu decifrata da Michael Ventris insieme a John Chadwick. nel 1952 e ancora c’è chi pensa trattarsi di due archeologi dilettanti, complice una certa stampa divulgativa. In realtà Chadwick era un glottologo e Ventris un giovane matematico e crittografo. Quindi non un dilettante, ma un geniale professionista prestato all’archeologia. E anche in questo caso c’erano anni di studio sistematico della documentazione, in questo caso composta da centinaia di tavolette di terracotta incise, contenenti atti amministrativi del potere miceneo. La lingua fu dimostrata essere un greco arcaico, una lingua cinquecento anni più antica di quella di Omero e spesso trascritta in forma abbreviata, ma comprensibile. Resta però ancora da decifrare la Lineare A, più antica, scritta in una lingua diversa ma con segni talvolta simili. Ma sicuramente anche qui si tratta di documenti amministrativi.

Una volta stabilito il verso della scrittura e sempre che un testo sia leggibile (non solo lo stato di conservazione spesso è un problema, ma troppe volte le parole sono scritte una attaccate all’altra), un problema è costituito dal numero e lunghezza dei testi: più i testi sono numerosi e lunghi, più facile è affrontarli. L’etrusco p.es. ci ha lasciato tanti testi leggibili (l’alfabeto è noto) ma quasi sempre brevi e ripetitivi, essendo dediche funerarie. L’analisi linguistica è basata in sostanza su due parametri: l’occorrenza statistica di alcuni segni o gruppi di segni (che identifica parole o anche formule fisse) e la posizione di questi blocchi all’interno della serie di segni, ovvero quello che in linguistica si chiama sintassi. Nel primo caso possiamo anche andare oltre: se un blocco ricorrente ABC si lega spesso a suffissi o prefissi DF o GH, possiamo suggerire che queste particelle aggiungano senso alla parola centrale: potrebbero marcare aggettivi (p.es., matre-ma, “mia madre” in siciliano) o flessione (come nelle declinazioni latine: matri-bus, “alle madri”). La sintassi si occupa invece della distribuzione degli elementi all’interno del testo. Tenendo presente che tutte le lingue servono per comunicare e quindi sono macchine logiche, è altrettanto logico che stabiliscano il rapporto tra chi parla e il mondo esterno. Quindi, avremo un Soggetto che compie l’azione, un Oggetto con cui entrare in relazione e un verbo (magari sottinteso) che specifica che tipo di azione intendo fare: esprimere un possesso (verbo avere), un’identità (verbo essere) o un’azione (p.es., verbo fare, donare, etc.). Le disposizioni sono sempre quelle: Soggetto + Verbo + Oggetto (SVO) o Soggetto + Oggetto + Verbo (SOV). Il resto sono funzioni di valore aggiunto per indicare dove, come, quando. Ma ora c’è il computer.

L’idea alla base è quella di individuare le relazioni tra le parole mappando una lingua specifica. Serve un database di testo che permette al software di calcolare, per esempio, per ogni parola, quanto spesso essa si ripete accanto a determinati termini. Lo studio statistico di ogni singola parola permette di creare uno spazio multidimensionale con dei parametri che descrivono la sintassi della lingua in base a quel termine specifico. Il sistema non capisce il significato, per lui ogni frase è solo un insieme di vettori nello spazio che occupano gli stessi punti e ripetono il loro comportamento. Sovrapponendo le mappe “spaziali” di una lingua rispetto a una sconosciuta si possono individuare “pattern” simili e quindi tentare una traduzione.

Con i computer dunque ora è tutto più facile: anche i geroglifici sono stati codificati in codici alfanumerici per poter essere letti dalle macchine, e sono stati sviluppati algoritmi, usati ora nelle perizie di tribunali, capaci di scartare il testo di un contratto falso se divergente nella distribuzione di alcuni elementi o persino nella ricorrenza di gruppi ternari di lettere. Da notare che l’archeologia ormai si vale di tecnologie pensate per altri fini: l’analisi dei metalli era stata sviluppata per le perizie balistiche, ma ora anche l’archeologo per stabilire l’autenticità di un monile si appoggia ai laboratori della Polizia Scientifica.

I casi impossibili? Documenti scarsi di numero, brevi e scritti nell’alfabeto sconosciuto di una lingua sconosciuta. Stiamo parlando di una serie di iscrizioni e sigilli del’antica valle dell’Indo, miste pittografiche; del Meroitico (alta Nubia al confine col Sudan); di alcuni linguaggi precolombiani che sopravvivono nei dialetti locali; alcune iscrizioni c.d. “Rongo-Rongo” dell’Isola di Pasqua, affini per lingua alla locale parlata Rapanui. E in più un reperto che appassiona da anni studiosi e dilettanti: il Disco di Festo (o Festos), nell’isola di Creta. Su questo reperto esprimo i miei dubbi: è un documento unico, isolato e inciso su terracotta con punzoni metallici. Ufficialmente ha precorso i tempi di Gutemberg, ma trovo più logico che il falsario (l’archeologo Luigi Pernier?) abbia ingenuamente proiettato nei tempi arcaici la propria mentalità. E poi, se i punzoni servivano per produrre documenti in serie, dove sono finiti tutti gli altri? Sarebbe ora di rileggersi con cura il giornale di scavo della Missione italiana a Creta nel 1908 e cogliere le incongruenze del caso. Il falso non ha storia, esce sempre dalla nebbia e mescola allegramente elementi presi da altri modelli; ebbene, qui non manca niente per rientrare nella categoria, visto che molti simboli sembrano presi da altre culture e documenti. Ma passiamo al dettaglio di questo strano documento isolato: è una sorta di DVD di argilla cotta, fin troppo pulito e intonso, inciso su due lati con 241 simboli, spesso assiepati o mal allineati. I punzoni erano 45, probabilmente metallici. La distribuzione dei simboli fra le due facce è molto diseguale e solo questo mi fa pensare a un grossolano falso: tale divario non è coerente con la normalità di un testo. Se sono in sequenza, due pagine di un libro di preghiera o di un testo amministrativo non possono essere troppo diverse: è normale aspettarsi la continuità testuale e stilistica del testo unico.

E qui mi voglio divertire esponendo alcuni tentativi di decifrazione del disco di Festo, opera sia di noti archeologi che di fantasiosi dilettanti. Chi ha interpretato i segni come geroglifici, chi ha dato loro un valore fonetico sillabico, ma l’insieme è un autentico delirio:

  1. “Alla grande signora dei Keftiti, alla grande Atena dominatrice degli animali, sbaragliatrice egli Irafioti, Ronte, figlio di Danao asperse, Ronte nel tempio dei Keftiti, Ronte, figlio di Danao, asperse l’albero. Menafite, l’esperto sommo sacerdote, eliminò gli animali infetti e il giusto Radamante rese grazie alla dea Era”.
  2. “E’ stato decodificato di recente il disco di Festo,un disco di pietra di origine Atlantidea risalente al 1700 A.C in cui vi sono scolpiti in entrambi i lati dei simboli che fino ad oggi non si sapeva cosa significassero e si è scoperto che indicano la causa delle malattie genetiche per prevenirle e curarle. La decodifica è stata possibile con un antico testo etiope”.
  3. “Sei parole parlano di luce ed altri sei di luce del tramonto; tre parole parlano della Dea incinta mentre altre dieci attribuiscono vari epiteti alla Dea”.
  4. “Altri credono che contenga una storia di narrativa o d’avventura, oppure che si tratti di un gioco da tavolo o di un teorema geometrico”.
  5. “Fu  fatto  realizzare,  per  suo  uso  esclusivo,  da  una  sacerdotessa  cretese,  dedita  ai  rituali  sessuali,  appartenente   alla   comunità   sacerdotale   di   Malia. Il  Disco  veniva  utilizzato  una  volta  all’anno  insieme  alla  Pietra  di  Kernos,  oggetto  circolare  di  circa  90  cm  di  diametro,  con  34  vaschette  lungo  il  perimetro:  trentatrè  della  medesima  dimensione  e  una  più  grande.  Oggi  si  trova  all’interno  del  sito  archeologico  di  Malia,  ovvero  dove  venne  realizzata nel 2560 a.C. – Non di semi venivano riempiti gli incavi della Pietra di Kernos, ma di sperma: lo sperma di 34 giovani uomini appartenenti alla sopraccitata comunità di Malia”.
  6. “Partendo proprio dalla margherita al centro di una faccia del disco (…) è facile tradurre il disco di Festo che racconta una bellissima storia d’amore che si svolge sulle sponde del Mar Nero e lungo il percorso del fiume Istros, oggi Danubio. Un giovane principe del popolo dei Traci si innamora di una principessa lontana, la nobile Pellicana figlia del re dei Pelagi. Ad aiutarlo nell’intento di impalmare la giovane e bellissima principessa è lo stesso padre del principe. Con l’aiuto del nobile genitore e delle tribù dei Daci, raffigurati nel disco col simbolo dei lupi, e degli Apuli raffigurati col simbolo delle api, il giovane principe dopo varie peripezie riesce a sposare l’innamorata. Dalla coppia regale nasce un bellissimo figlio che dona letizia a tutta la nazione.
  7. “Analizzandone  il  testo,  prende forma la consapevolezza che il cerchio voglia esprimere, rappresentare in maniera immediata e simbolica, conoscenze geo-matematiche che attengono alla figura. l Disco di Festo altro non è che un “normalissimo” calendario-diario ad uso e consumo, forse, dei  giovani”
  8. “Beata dea del labirinto. Beata  Isonoia,  dea del destino e custode della casa che protegge il passaggio (all’al di là). La Creontide Daphne vi consacra a te – la Creontide, nell’inaccessibile del labirinto – la Creontide Daphne vi consacra a te la mummia di Maniaporte, esperta delle leggi e delle consuetudini  nazionali dei popoli. Ti è stato massacrato dai reparti di Tideo, perciò è stato sposato alla forte Deione il celebrato Radamanto”.

Che dire? Il mondo è bello perché vario.

COVID- ECONOMY

Avevo immaginato un racconto in cui una giovane coppia di disoccupati reclusi come tutti noi altri per tre mesi nel loro appartamento, per campare s’inventano una videochat erotica a pagamento, vincendo le proprie inibizioni pur di poter fare la spesa guadagnando la percentuale sulle loro prodezze sessuali. Mi accorgo invece di esser arrivato tardi: in una simpatica intervista su Youtube una giovane coppia siciliana che vive però a Tenerife (Canarie) spiega come fa da mesi a guadagnare un sacco di soldi in rete rivendendo ai fan e agli abbonati il loro “recitar scopando”. Mamma all’inizio non era d’accordo, ma ora ha capito… l’intervista è un capolavoro di ottimismo, morale liquida e spontaneità: a sentir loro, è un lavoro molto creativo, proficuo e naturale, e i video più visti non sono quelli più “penetranti”, ma quelli dove la coppia esprime amore e passione. Romantico! Visti i tempi che corrono, manca solo la benedizione di papa Francesco per sdoganare questo modo di vivere candido, sincero e naturale. Quei due sono arrivati a mettere su Pornhub (una piattaforma specializzata in linea) anche 14 video al mese, il che non è poco, visto che la postproduzione include sfraso, editing e montaggio. Non solo: all’impresa si sono associate altre coppie, unite dall’utile e il dilettevole. Certo, se diventa un lavoro non è sempre un divertimento, visto i limiti fisiologici maschili, ma evidentemente il lavoro di gruppo ridistribuisce meglio le energie e le risorse. E devono saperci proprio fare, visto che sono censiti fra i primi venti “performer” o “model” più gettonati in rete, ora che la disintermediazione del web ha distrutto quello che prima era un mondo chiuso, ovvero il porno industriale. Se andate a curiosare in certi siti o piattaforme, vi accorgerete che basta una telecamera HD, un buon collegamento di rete, uno spazio privato da usare come set e quel tanto di fantasia e faccia tosta che ti permettono di esibirti davanti agli altri, magari dopo un buon bicchiere di cognac. Per i pagamenti si ricorre a carte di credito o trasferimenti di valuta simili a Western Union, basati all’estero e al di fuori delle leggi nazionali che regolano certi ambiti: vendersi pur virtualmente, in Italia rientra nel reato di sfruttamento della prostituzione. Ma ora la pacchia è finita: i grandi circuiti come Mastercard hanno bloccato i pagamenti verso Pornhub e altre piattaforme simili, in seguito a una serie di denunce penali. Il problema è il solito: in rete nessuno controlla i contenuti e i provider si ritengono esenti dal farlo, anche se è impossibile passare al setaccio milioni di documenti. E’ successo con Youtube,  Facebook e Istagram, e in genere a propugnare azioni legali sono i detentori di copyright più che le associazioni civiche. Nel porno però la questione è delicata: dalle denunce penali dei privati si evince che non sempre attori e attrici sono consenzienti e maggiorenni e che la documentazione allegata è spesso falsa. In effetti, almeno a scorrere i filmati postati gratis (su quelli riservati a chi paga non posso pronunciarmi) qualche sospetto può anche affiorare: a parte l’età degli attori e delle modelle, non sono rare scene di sesso violento, né è inverosimile l’uso di droghe. In più, le modalità di certi gruppi porno colombiani e venezuelani, vere e proprie paranze del sesso, suggeriscono una certa prossimità con ambienti criminali. Fatto sta che Pornhub ha eliminato di corsa centinaia di video non certificati, ma non per questo ha evitato il blocco dei pagamenti deciso dai grandi circuiti delle carte di credito. Questo ha dimezzato in poche ore i proventi dei “sex workers”, come gli americani chiamano pragmaticamente tutti quelli che usano per ferro del mestiere i loro organi sessuali. Crisi del settore? Disoccupazione per migliaia di lavoratori e lavoratrici, oneste o meno? Scioperi? Quello che era  finora visibile era solo la punta dell’iceberg.

Un Codice politicamente arcobaleno

Hollywood non cessa di stupirci: a partire dall’edizione 2024, per poter essere candidati al titolo di Miglior Film (Best Picture), le pellicole dovranno presentare nella storia e/o nel team di produzione una quota variabile di persone provenienti da categorie sottorappresentate: donne, Lgbtq, etnie minoritarie negli Stati Uniti, disabili. Più che Miglior film, meglio chiamarlo Equilibrista: per ottemperare a tutti i criteri di giustizia sociale richiesti, i produttori, gli sceneggiatori e i registi dovranno dar prova di straordinarie capacità di adattamento all’ambiente.

Intanto ecco le regole contro le discriminazioni. Il film dovrà soddisfare almeno due di quattro standard diversi. Il primo (standard A), riguarda la «rappresentazione sullo schermo, i temi e la narrazione». Un film può venire candidato se almeno uno dei protagonisti, o uno dei comprimari di peso, appartiene a una minoranza razziale tra quelle di seguito elencate: «Asiatico, ispanico/latino, nero/afroamericano, indigeno/nativo, nativo dell’Alaska, mediorientale/nordafricano, nativo delle Hawaii o di altre isole del Pacifico, altro». Male che vada,  «almeno il 30% degli attori in ruoli secondari o minori dovrà provenire da almeno due dei seguenti gruppi sottorappresentati», cioè «donne, minoranze razziali, Lgbtq, persone con disabilità cognitive o fisiche, o che sono sordi o con problemi di udito». Perché mai i sordi sono considerati disabili a parte? Mistero. Terza possibilità, «la storia principale»: almeno quella dovrà vertere su uno dei gruppi sottorappresentati ma succitati. Insomma, basta che parli di donne, di minoranze, di disabili, di omosessuali. Facile, no?

Il secondo standard, il B, considera invece la direzione artistica e la produzione e non riguarda il pubblico pagante. Criterio B1: «Almeno due delle seguenti posizioni devono essere affidate a persone provenienti da gruppi sottorappresentati: direttore del casting, direttore della fotografia, compositore, designer dei costumi, regista, tecnico del montaggio, parrucchiere, truccatore, producer, designer della produzione, set decorator, tecnico del suono, supervisore agli effetti visivi, autore». E almeno una di queste deve appartenere a un gruppo razziale (sempre di quelli elencati prima) minoritario. Il B2 chiede soltanto che almeno «sei» posizioni di quelle non elencate (tranne gli assistenti alla produzione) siano affidate a gruppi sottorappresentati o di etnie minoritarie. E il B3 vuole che «almeno il 30%» della troupe del film appartenga alle ormai note categorie sottorappresentate.

Lo standard C parla di soldi e opportunità di carriera, e per ottenerlo bisogna soddisfare entrambi i criteri presentati: «L’azienda che si occupa del finanziamento o della distribuzione del film deve prevedere stage e apprendistati pagati per i gruppi sottorappresentati». Per la precisione, gli studios più importanti o le aziende di distribuzione più grandi «devono avere in essere apprendistati o stage pagati per i gruppi sottorappresentati» e «soprattutto nel settore della produzione, della produzione fiscale, della post-produzione, della musica, degli effetti visuali, delle acquisizioni, della distribuzione, del marketing e della pubblicità». Per gli indipendenti basta che ci sia almeno un minimo di due posizioni affidate a chi proviene dai gruppi sottorappresentati (ma almeno uno deve essere di una etnia minoritaria), negli stessi settori. Il secondo criterio prevede che chi si occupa della produzione o del finanziamento del film offra opportunità di lavoro o di sviluppo delle competenze fuori dal capitolo di spesa per persone dei gruppi sottorappresentati.

Infine lo standard D: prevede un criterio solo: «La rappresentazione nel marketing, nella pubblicità e nella distribuzione». In questi settori «più posizioni dirigenziali interne dovranno essere coperte da persone provenienti dai gruppi sottorappresentati ».

Questo il testo, che ho voluto riportare quasi per intero. E’ evidente che gli impegni più gravosi riguardano lo standard A, artistico ed espressivo, mentre gli altri rimodulano questioni diciamo pure sindacali. Ma è impressionante notare che, mentre il codice Hays (la vecchia censura cinematografica americana, esterna allo Stato ma efficacemente gestita dai produttori, come adesso queste nuove regole) dava un elenco di quello che non si doveva mostrare, questo nuovo codice prescrive quello che si deve rappresentare e in che modo. In questo ricorda più la nostra Controriforma cattolica. Ma c’è davvero tanta differenza con la censura sovietica imposta dal GosKino ai registi, quasi mai liberi di parlare di certi argomenti in modo che non fosse simbolico e vagamente allusivo? E non spingerà tanti artisti all’autocensura, pur di far carriera o campare?

Tanto per cominciare, inclusione e maggiore diversità da sole non significano qualità. Ce lo ricordava (con un ragionamento inverso) il protagonista di Mephisto (1981) di Istvàn Szabò, stupendamente interpretato da Klaus Maria Brandauer: l’artista si vende al Nazismo, ma è costretto ad assumere attori mediocri solo perché alti biondi con gli occhi azzurri. Era la Berlino degli anni Trenta, ma non è invertendo i poli che si cambia la corrente. Quello che è peggio, nella balcanizzazione sindacale a rimetterci è l’umanità fuori schema o figlia di matrimoni misti: penso a chi nell’ex Jugoslavia morente era costretto a scegliere l’etnia, o chi a Bolzano deve decidere per legge se il figlio è tedesco o italiano. In sostanza, per proteggere le minoranze finisci nella trappola delle “quote” ed escludi chi non vuol saperne di tessere, etichette, clan e tribù.

Secondo: i controlli. Come verifichi la razza e la sessualità di chi lavora a un film? Il documento parla di «ispezioni sul set». Stupendo: con che coraggio chiedi a un attore se è ebreo? ? E con quale diritto mi chiedi con chi vado a letto? Ancora : devo portarti il DNA per dimostrare che ho sangue polinesiano? E Barak Obama che alle Hawaii c’è nato, devo assumerlo in quota ai neri o agli hawaiani? Alla faccia della privacy e con la speranza che i miei dati non finiscano nello schedario delle Milizie di Cristo o dei gruppi paramilitari del Nebraska.

Terzo, il tipo di prodotto. In un film storico non posso rischiare l’anacronismo solo per far piacere ai nativi dell’Alaska o ai portoricani. In un film sulla Serenissima posso includere mori, turchi, schiavoni, stradiotti, greci, panduri e morlacchi, ma nel deserto di El Alamein devo attenermi alla cruda realtà storica. In una serie ispirata all’Iliade (Troy) Achille è nero, ma solo per solleticare il pubblico dello stesso colore. Io invece avrei suggerito Elena: la bellezza sottratta al popolo africano dagli Europei colonialisti. Purtroppo Brecht non è più di moda.

Quarto: i film stranieri, dovranno rispondere agli stessi criteri? Ci sto: noi italiani ci risparmieremo le spese per proporre film che tanto nessuno si fila. Nessun film italiano è stato mai prodotto seguendo quelle regole: ne uscirebbe una sgangherata commedia sociale piuttosto che un dramma. E’ vero che gli sceneggiati televisivi son sempre più attenti a includere gay, immigrati buoni e famiglie ricostruite, incluso il fidanzatino “bangla” per la figlia adolescente, ma chi paga il biglietto in sala in genere è più esigente.

Infine: come se ne esce? Come il cinema ha sempre fatto: aiutando la minoranze a studiare e ottenere quella maturità culturale che poi permetterà loro di esprimersi da protagonisti. Francis Ford Coppola, Robert De Niro, Martin Scorzese hanno riscattato dal basso l’immagine degli italo-americani, ma non perché protetti da quote etniche: talento a parte,  si sono affermati grazie al loro lento, sistematico impegno nel mestiere. Pensavo stamattina ad Assandira, il film del regista sardo Salvatore Mereu presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Nessuna quota era riservata ai film sardi, eppure Mereu ce l’ha fatta. Mentre provo a immaginare un film fatto con i nuovi criteri: è ambientato in Alto Adige, deve tener conto non solo della minoranza (?) di lingua tedesca, ma anche delle subminoranze incastrate nelle valli: ladini, mocheni, cimbri. E se il protagonista italiano offende il comprimario sudtirolese, a metà film rotolerà giù per un burrone.

Una tomba dimenticata

All’interno del grande cimitero Flaminio, più noto come Prima Porta, si trova un piccolo settore recintato con un accesso pedonale dalla via Flaminia; è quanto resta dell’antico cimitero Montebello inglobato nel dopoguerra nel Flaminio. Tra vecchie tombe spicca un singolare sarcofago in tufo di stile vagamente etrusco con incisa sul frontale la scritta Ten. Pil. Paolo Badoglio di Addis Abeba . Si tratta di un giovane ufficiale pilota di complemento figlio del più famoso Maresciallo . Di lui poco si sa, anche per la brevità della vita: laureato e coniugato senza figli prese parte alla guerra contro l’Etiopia in una squadriglia da bombardamento meritando una medaglia d’argento, richiamato a domanda allo scoppio della II Guerra Mondiale fu assegnato ad un reparto da ricognizione nel sud della Libia con lo scopo di controllare i Francesi del Ciad che, dopo aver aderito a Francia Libera, sotto la guida del generale Leclerc attaccavano i nostri presidi nel Fezzan. E a Sebha morì nel ribaltamento di un automezzo militare. Un piccolo mistero si origina dalla localizzazione della tomba in quanto il defunto non è seppellito nel sepolcro di famiglia a Grazzano, comune piemontese di origine dei Badoglio, ma in un piccolo cimitero rurale situato allora in zona isolata e distante 15 chilometri dal centro di Roma; aveva forse una villa nella zona? Il sarcofago per il suo inconfondibile stile littorio sembra essere stato predisposto poco dopo la morte del Badoglio, sul fianco molte aquile e scritte poco distinguibili perché incise nel tufo, tra loro spiccano i motti del ducato di Addis Abeba che il Maresciallo ottenne dopo la vittoriosa conclusione della guerra d’Etiopia “ come falco giunse “ e quello del marchesato del Sabotino, nella 1° Guerra Mondiale, “per dritto segno”. Ma le domande e le curiosità sono destinate a rimanere tali; l’unica cosa  certa è l’epigrafe:” Ten. Pil. Paolo Badoglio di Addis Abeba  Roma 6/1/1912, Sebha  30/4/1941. Caduto per la Patria”. Una motivazione che lo accomuna al milione e più di italiani, militari e civili, morti in cinque guerre in poco più di trenta anni.

Migrazione: I profughi non sono pinguini

da una illustrazione di Sergio Capparucci

Agli inizi di quest’anno Liliana Segre veniva applaudita, con il suo discorso sulla solidarietà e la convivenza, al parlamento Europeo. Un discorso della senatrice novantenne, che ha vissuto tanti tragici momenti, proteso alla comprensione e messo in discussione dagli scontri sul confine greco turco e dal respingimento dei profughi.

A Malta, nel 2019, si era aperto uno spiraglio sulla revisione del Regolamento Dublino, coniugando solidarietà con una equa ripartizione della responsabilità tra i membri dell’Unione europea, cercando di superare il concetto dei pesi mediterranei come “campo profughi d’Europa”. Tanti buoni propositi che si sono infranti contro il muro innalzato dai problemi pandemici del Covid-19 e la riluttanza dei paesi del nord-est a partecipare alla redistribuzione dell’umanità in fuga ed offrire un luogo per vivere.

L’Europa si è nuovamente eclissata, mentre la pandemia non ha frenato i flussi migratori, dimenticando la disperazione sui volti di un’infanzia che ha solo conosciuto la fuga e la reclusione in campi stipati e con una carenza di servizi, sperando di non avere degli aguzzini come tenutari.

Migrazioni che non si sono interrotte e alle quali una destra continua a gridare di chiudere i porti, di non far attraccare  navi che hanno raccolto in mare degli sventurati o addirittura di organizzare dei blocchi navali costosi e inefficaci per fermare dei gommoni o barchette ed anche se venissero intercettate le “minacciose” imbarcazioni quali azioni dissuasive potrebbero intraprendere verso delle carette che a malapena rimangono a galla?

Minacce incomprensibili se non si ha una soluzione, perché fare muro non serve a niente se non si indica quale comportamento avere. Forse si circonda il natante e si aspetta che le persone muoiano di fame o si possono spingere le barchette verso le coste di provenienza, senza entrare con i mezzi militari nelle acque territoriali, chiedendo magari l’intervento dei libici in divisa.

Non è necessario essere una persona religiosa per aiutare il prossimo, ma sicuramente è bizzarra la propaganda xenofoba di chi si dichiara un credente.

La sinistra, mentre cerca di accogliere i fuggiaschi, confida nella condivisione europea, sperando in una dura presa di posizione dell’Unione europea verso quei paesi che si rifiutano all’accoglienza, approvando sanzioni e tagli ai contributi.

In questo marasma di grida, le cui vittime continuano ad essere donne, bambini e uomini che fuggono dai soprusi e dalle stragi, viene varata una iniziativa a garantire la presenza nel Mediterraneo centrale di una nuova nave, tutta italiana, per soccorrere i naufraghi e testimoniare quanto accade a poche miglia dalle nostre coste.

Un’imbarcazione voluta da ResQ – People Saving People https://www.resq.it/, per essere attiva nel giro di pochi mesi, con un equipaggio di circa 10 persone per il funzionamento e 9 tra medici e infermieri, soccorritori, mediatori giornalisti e fotografi. Due gommoni veloci che  assicureranno gli avvicinamenti alle imbarcazioni in difficoltà e il salvataggio dei passeggeri.

Attendendo la nave di ResQ – People Saving People è Banksy che vara la Louise Michel, una nave per il salvataggio dei migranti in difficoltà, finanziata con il ricavato delle opere che lo street artist ha dedicato al dramma della migrazione.

La Louise Michel battente bandiera tedesca ed è un atto d’accusa all’immobilismo dell’Unione europea che Banksy spiega su Instagram https://www.instagram.com/p/CEehZUzJVds/

I migranti commuovono meno dei pinguini relegati in spazzi ghiacciati sempre più ridotti, sono entrambi il termometro del cambiamento non solo climatico, ma anche sociale che spesso trovano nel mare la loro ultima dimora.

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Qualcosa di più:

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