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Boicottare può essere più efficace di alzare i dazi

Boicottare i prodotti statunitensi – e non genericamente “americani” – è una scelta consapevole e mirata, capace di tradurre piccoli gesti quotidiani in una forma efficace di pressione contro una governance aggressiva e regressiva. Così come il boicottaggio contro le aziende inquinanti o che praticano la sperimentazione sugli animali ha indotto cambiamenti reali nel mondo farmaceutico e cosmetico, anche evitare prodotti USA può mandare un messaggio chiaro: il portafoglio è il vero punto debole del potere.

I consumatori non sono più spettatori passivi. In un’epoca di iper-consumo e sovrabbondanza, scegliere consapevolmente cosa acquistare – o decidere di non acquistare – è diventato un atto politico. La Coca-Cola può tranquillamente lasciare il posto al più autentico Chinotto. Gli hamburger, nati in Germania, si reinventano nella nostra piadina. Le Harley-Davidson trovano valide alternative nelle Triumph, come fece già Marlon Brando ne Il selvaggio (1953), salendo in sella a una Triumph Thunderbird 6T. Lo spirito britannico non ha mai smesso di affascinare le leggende del cinema, anche se fu la Harley-Davidson Chopper, in Easy Rider (1969), a diventare il simbolo per eccellenza della libertà.

Lo Scotch può rimpiazzare il bourbon, la birra europea ha poco da invidiare a quella americana, e i dolci casalinghi superano browning e cookie. Perfino la musica può fermarsi gloriosamente agli anni ’80-’90. Quanto ai fumetti, Linus ci ha già regalato il meglio dagli anni ’70.

Il vero scoglio? Amazon. La comodità di Prime è difficile da abbandonare, ma le alternative esistono e stanno crescendo. Anche nel cinema, l’eredità culturale trasmessa dal dopoguerra a oggi è così vasta da non rendere necessario il continuo apporto USA.

Un Boicottaggio che Parla alla Democrazia

Non si tratta solo di prodotti, ma di una linea politica che va respinta. Le recenti politiche dell’amministrazione Trump – come la proposta di smantellamento del Dipartimento dell’Educazione, la sospensione di Voice of America, il blocco dell’accesso alla biblioteca transfrontaliera Haskell, la vendita della cittadinanza statunitense – non sono episodi isolati. Sono tasselli di un disegno autoritario che colpisce cultura, istruzione e libertà d’informazione.

Trump affida la politica economica a Peter Navarro, economista noto anche per citarsi attraverso un curioso alter ego: “Ron Vara”, un nome fittizio ottenuto anagrammando il proprio cognome. Presentato spesso come un autorevole collega, questo personaggio immaginario diventa uno strumento utile a legittimare le sue stesse teorie.

I dazi, promossi come strumenti di difesa dell’economia nazionale, finiscono per destabilizzare interi mercati. Le Borse reagiscono con volatilità, l’economia globale si irrigidisce, mentre le élite vicine al potere continuano ad arricchirsi. Strategie economiche che si affidano persino a figure inventate, come il fantomatico Ron Vara, rivelano un uso tanto ingegnoso quanto rischioso della propaganda e della manipolazione finanziaria.

L’app Trumptax.eu, sviluppata da Alleanza Verdi e Sinistra, consente ai cittadini europei di distinguere i prodotti realmente statunitensi da quelli solo apparentemente “locali” ma prodotti da multinazionali USA. La delocalizzazione, infatti, consente a molti brand americani di mascherarsi dietro etichette italiane o europee. Boicottarli senza consapevolezza può persino danneggiare l’economia nazionale.

Solidarietà e Protezione: Il Ruolo dell’Europa

In Francia e nei Paesi nordici è già in atto un boicottaggio di massa contro Coca-Cola, McDonald’s, junk food e tecnologia made in USA. In Italia, invece, si fa ancora fatica a parlare apertamente di questi temi senza essere tacciati di anti-americanismo. Eppure la solidarietà verso le istituzioni culturali ed educative, oggi sotto tagli e minacce, passa anche dal rifiuto del modello economico statunitense, spesso impacchettato come inevitabile.

I fondi del PNRR non possono essere usati per supportare aziende soggette a dazi USA o per acquistare armamenti: una scelta che va rispettata e rafforzata, promuovendo invece un’economia europea più autonoma, solidale e sostenibile.

Conclusione: Boicottaggi 2.0

In un mondo iperconnesso, il boicottaggio non è più un atto solitario ma condiviso, intelligente, tecnologico. Dalle app che svelano l’origine dei prodotti, ai social network che amplificano la portata di ogni scelta, il consumatore del nuovo millennio può diventare protagonista del cambiamento. La democrazia si protegge anche attraverso il carrello della spesa.

Boicottare oggi non è solo rifiutare un prodotto, ma affermare un’idea: un’economia giusta, un’informazione libera, una cultura accessibile. In fondo, anche con una piadina al posto di un Big Mac, si può difendere il diritto di scegliere il proprio futuro.

Ucraina tra Sparta e Atene

Tutti mi chiedono che faranno ora i Russi, che nel frattempo hanno ampliato la loro offensiva militare in Ucraina e puntano alle grandi città. Se lo sapessi non starei qui ma al NATO College o consulente ben pagato di qualche istituto di ricerca, anche se va detto che proprio molti analisti di professione hanno sottovalutato la situazione e non certo da ora. Per il resto ho le stesse informazioni che hanno gli altri: frammentarie, parziali e partigiane, mentre i giorni precedenti all’attacco sapevamo tutto sullo schieramento di terra e di mare, ripreso dai satelliti e divulgato in rete. Davamo per scontato che i Russi avrebbero occupato e annesso il Donbass e forse qualcos’altro in Crimea, ma lasciando l’armata ai confini come deterrente e strumento di pressione politica, con reali risultati sul medio e lungo periodo. Ha sconcertato tutti dunque la decisione di scatenare un’invasione su larga scala di un paese che gravita da sempre fra due culture diverse ma che è fondamentalmente europeo. Il problema è culturale: nella nostra mentalità non ritenevamo più praticabile una guerra su larga scala; al massimo era prevedibile l’annessione delle due zone dove la minoranza russa aveva proclamato l’indipendenza dall’Ucraina, superando gli Accordi di Minsk in realtà mai applicati per la resistenza anche proprio del governo ucraino, restio a concedere un’autonomia alle zone del Donbass. Governo che si direbbe difficile da inquadrare in uno schema preciso: per Putin l’Ucraina non esiste, va liberata e denazificata, mentre per noi è un paese sovrano libero di scegliere da che parte stare, anche se non è chiaro quanto abbiano pesato nel 2014 le offerte e le pressioni statunitensi ed europee per quello che ancora oggi viene descritto più come un colpo di stato che un vero processo democratico. Tutto infatti parte da qui: dal momento in cui l’Ucraina non ha firmato l’accordo doganale con la Russia e si è invece orientata verso l’Unione Europea, sganciandosi dunque dalla tradizionale area di influenza russa, ma senza immaginare che gli statunitensi non erano disposti a impegnarsi in profondità. Biden poi come presidente si è visto di che pasta è fatto: Afghanistan docet.

E parliamo della NATO. Una volta caduto il Muro di Berlino (novembre 1989) i paesi prima aderenti al Patto di Varsavia si sono man mano smarcati con la fine dell’Unione Sovietica (1991) e all’inizio del nuovo secolo sono entrati nella NATO. C’era un accordo non scritto per evitare l’espansione a Est di un’alleanza nata proprio per contenere l’URSS, ma questo non è stato rispettato, col risultato di frustrare i Russi e proiettarli nella classica sindrome di accerchiamento. Fino all’ascesa di Putin la Russia e il suo esercito stavano comunque a pezzi e il presidente Eltsin era debole. Da parte statunitense si è quindi fatto l’errore di confondere l’Unione Sovietica con la Russia e non prevedere la futura rinascita di una nazione fortemente coesa, Ora, si dirà: ma un paese che occupa undici meridiani può sentirsi accerchiato solo perché la terra è tonda?  Ebbene, chi ritiene Putin un uomo misterioso e la politica estera russa ambigua, bene farebbe a studiare storia moderna. Dai tempi di Pietro il Grande (regnò dal 1682 al 1725) la strategia russa è sempre la stessa: sbocco al mare (Baltico e Mar Nero), colonizzazione e sfruttamento della Siberia, contenimento dell’Islam (all’epoca incarnato dall’Impero Ottomano) e creazione in Europa di una fascia di sicurezza a spese degli altri (baltici, polacchi, ucraini, tedeschi, etc.). La popolazione russa è concentrata verso l’Europa e la Russia è un paese europeo, invaso ora dagli Svedesi, ora da Napoleone, ora da Hitler. Niente di strano che da sempre venga tenuta frapposta una zona di stati cuscinetto neutrali o vassalli. Esattamente quello che l’espansione della NATO ha Est ha distrutto, creando solo frustrazione. Resta casomai da capire perché una faccenda così importante non sia stata mai messa per iscritto e affidata solo a promesse verbali o a note di ambasciata. Lo stesso Putin, se voleva negoziare o rinegoziare con la NATO, ha avuto vent’anni di tempo, né gli mancavano certo gli strumenti di pressione diplomatica per frenare l’aggressività statunitense da Bush in poi. In fondo, l’autodeterminazione dei popoli non vale solo per il Kosovo e la NATO aveva mantenuto il carattere di un’alleanza esclusiva, concettualmente ferma alla divisione tra Est e Ovest. Integrare la Russia nel sistema economico e politico europeo si è visto che non è facile, vista la sua struttura di potere, ma c’è stato comunque un periodo in cui si poteva fare certamente di più.

Torniamo dunque un passo indietro. Dopo la Caduta del Muro (1989) l’Unione Sovietica si dissolve e al suo posto rinasce la Russia, mentre i paesi legati al Patto di Varsavia si rendono indipendenti dall’alleanza nata nel dopoguerra per contrastare la NATO. Tutto questo avviene negli anni ’90 del secolo scorso, in un momento di particolare debolezza per la Russia e la CSI (Confederazione di Stati Indipendenti) intorno al nucleo centrale. In questo contesto molti paesi dell’Europa Orientale chiedono di aderire sia all’Unione Europea (che a tutt’oggi conta 27 membri) che alla NATO (attualmente 30 membri, di cui 22 nella UE). Ma se la UE è un’unione politica ed economica, la NATO ha funzioni essenzialmente militari e l’articolo 5 prevede l’aiuto reciproco fra paesi membri in caso di attacco anche a uno solo di essi. E’ chiaro a questo punto perché le tre Repubbliche Baltiche o la Polonia hanno aderito alla NATO: non per invadere la Russia, ma per difendersi dai Russi. Neanche strano che Putin non voglia l’ingresso dell’Ucraina nella NATO: finché ne resta fuori essa deve difendersi da sola, né c’è proporzione tra i due eserciti, come si è visto in queste ultime settimane. La Russia negli ultimi quindici anni ha investito molto sul rinnovamento e lo sviluppo delle sue forze armate, e soprattutto ha reagito nei tempi lunghi alla situazione di inferiorità in cui gli statunitensi l’avevano costretta. Non si può dunque comprendere la situazione attuale senza capire che la graduale estensione della NATO è stata sentita dalla Russia come una minaccia alle proprie frontiere, non più separate dall’Europa occidentale da una zona di stati-cuscinetto, di fatto vassalli. Ma se l’Unione Sovietica era finita, la Russia aveva invece le forze per rinascere, era solo questione di tempo. Sicuramente meglio sarebbe stato garantire una fascia neutrale, inserita nell’UE ma non nella NATO, oppure trasformare la NATO in un’Alleanza per la Sicurezza, inclusiva invece che esclusiva. Questo avrebbe meglio indirizzato gli sforzi, p.es., contro il pericolo islamista, con il quale i Russi devono confrontarsi sul terreno delle repubbliche asiatiche ex-sovietiche.

E passiamo ora all’Ucraina. Negoziati o meno, i Russi stanno distruggendo un paese con cui dovranno comunque convivere, non fosse altro perché metà delle famiglie ucraine ha parenti russi. Sicuramente pensavano di fare una guerra lampo, ma – come scrive Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale (1928) “Non si aspettavano di trovare tanta resistenza”. Sempre la stessa storia: a Budapest (1956) o a Praga (1968) i carri armati russi entrarono da liberatori, salvo accorgersi che buona parte della gente la pensava diversamente. E se vogliono entrare in Kharkiv (già Kharkov: nella seconda GM ci hanno combattuto quattro battaglie!) o in Kiev (o Kjiv?) i soldati sanno che combattere strada per strada in città con uno o due milioni di abitanti è una rogna che può durare mesi e si traduce in una snervante guerriglia urbana. L’esercito ucraino è molto inferiore per qualità e quantità a quello russo, ma l’Ucraina è enorme e capace di resistenza diffusa. Si è anche parlato molto di guerra partigiana, ma su quello esprimo qualche dubbio: organizzarla richiede capacità superiori a quelle di un esercito regolare e infatti ha funzionato dove un forte partito nazionalista o comunista stava già sul terreno, o dove – penso alla Jugoslavia di Tito – una parte della difesa territoriale era stata organizzata per tempo decentrando i depositi di armi e carburante in luoghi meno accessibili e addestrando sistematicamente i riservisti su base locale. Distribuire armi o tenerle nei depositi di caserma da sola non basta se la gente non sa usarle o se i Russi sanno già dove cercarle. E sicuramente agiscono da mesi agenti infiltrati o collaboratori fidati.

Detto questo, un’ultima considerazione. Si può vincere sul piano militare, ma perdere sul piano strategico. Putin non può permettersi una guerra prolungata: la Russia ha un PIL inferiore a quello dell’Italia e la colonna di mezzi corazzati e logistici lunga 60-65 km che sta puntando su Kiev in tre giorni di autonomia consuma da sola qualcosa come 2 milioni di litri di carburante, più olii lubrificanti, viveri e munizioni. I russi che manifestano per la pace in quaranta città sanno bene che presto dovranno rifare le file per il pane come ai tempi sovietici e anche per questo stanno in piazza. Dico “anche” perché nessun russo percepisce gli ucraini come stranieri, mica sono ceceni o abkhazi. Quindi tutti hanno interesse al negoziato, anche se ci si poteva arrivare con meno spesa, lacrime e sangue. Tutti hanno bisogno di una soluzione onorevole. E se Putin cadrà (magari per la rivolta degli oligarchi), è perché l’Unione Europea ha dimostrato maggiore compattezza e sa diversificare le armi e gli strumenti di pressione. Nessuno se lo aspettava, ma sottovalutare le democrazie è un classico dei regimi monocratici.

Infine, una parola sui profughi. L’Italia è il paese europeo dove vive la più estesa comunità ucraina, in maggioranza lavoratori e lavoratrici di basso rango (le donne sono l’80%). Si spera che saremo capaci di accogliere degnamente le migliaia di profughi che fuggono realmente da una guerra. Finora si è registrata una grande empatia con il popolo ucraino, ora è il momento di passare ai fatti.

Kabul: Addio a vent’anni di sforzi

Tutti hanno scritto qualcosa sulla caduta di Kabul, ma io ho voluto aspettare. Intanto sono andato a rileggermi i libri e gli articoli scritti negli ultimi anni da giornalisti, militari e attivisti di ONG, sia italiani che americani e britannici, presenti comunque sul terreno: li trovo più attendibili di chi ora parla da “esperto”. Il quadro era più o meno coerente e pessimistico: molti progressi nel campo dell’educazione e dei servizi, ma scarso controllo del immenso territorio e seri dubbi sulle reali capacità del governo afghano e del suo esercito di sapersela cavare da soli. Quindi una situazione comunque tarata all’origine; incredibile è stata solo la velocità del collasso non appena ritirate quelle che gli afghani sentivano come truppe di occupazione straniere. La classe dei notabili afghani ha i suoi torti – la corruzione per prima – ma saprà poi adattarsi a chi è più forte. Noi invece abbiamo sprecato risorse e perso una guerra durata vent’anni. Dico “noi” perché dopo la missione Enduring Freedom (gestita da USA e UK) la missione ISAF e la successiva Resolute Support hanno impegnato a rotazione almeno 50.000 militari italiani (1). Dicono che abbiamo fatto un buon lavoro con la gente, ma è ancora presto per capire se i risultati saranno duraturi. Sicuramente la società afghana non è oggi quella di vent’anni fa (almeno nei grandi centri), ma confidare nei “talebani moderati” è perlomeno azzardato (2). Se democrazia significa dare spazio a tutti, un regime autoritario prevede al massimo l’accordo tra capi ed etnie. Se poi la democrazia può essere esportata o imposta, è un altro discorso. Le premesse per una vera democrazia non comprendono solo libere elezioni e candidati credibili, ma anche la divisione costituzionale dei poteri, una coscienza civile e soprattutto l’idea che chi perde non va ammazzato. Inutile poi aggiungere che la modernità è laica e che il diritto romano è stato scritto dagli uomini. Ma a leggere i siti filo-talebani (ora oscurati) trasuda ancora la retorica della “guerra di popolo” e la narrazione della gente che spontaneamente si schiera coi talebani, mentre è noto che nella guerra partigiana il controllo del territorio viene spesso gestito con modi spicci: o sei con noi o contro di noi.

Riavvolgiamo ora il film per capire insieme cosa non ha funzionato. Intanto, qual’era l’obiettivo al momento dell’invasione del 2001? La distruzione dei “santuari” dei terroristi ospitati dal regime dei talebani e la cattura di Bin Laden. Col tempo l’obiettivo è cambiato (vedi cronologia in fondo): la ricostruzione del paese e la creazione di un esercito nazionale afghano, anche se il presidente Biden dà valore solo al primo obiettivo. E qui le cose sono due: o ce ne siamo andati troppo tardi (morto Bin Laden, perché rimanere?) o troppo presto (la ricostruzione è incompleta). Io vedo invece uno schema analogo alla guerra del Vietnam, con le stesse fasi: prima si cerca di distruggere la guerriglia, poi si punta a consolidare la società civile, infine si affida alle forze locali la difesa del proprio destino. Salvo poi scoprire che la guerriglia è difficile da estirpare; che finanziare la ricostruzione richiede un serio controllo sulla gestione degli aiuti; e che addestrare i soldati locali secondo i nostri criteri funziona solo finché ci siamo dietro noi con la nostra superiore tecnologia e logistica. In ogni caso, l’obiettivo deve essere sempre uno solo e chiaro fin dall’inizio, come chiare devono essere le regole d’ingaggio per i nostri soldati. Ma se l’obiettivo non è chiaro o viene cambiato in corso d’opera (come successe in Somalia nel 1992) (3) i risultati possono essere disastrosi.

Passiamo all’altro problema: cosa sapevamo realmente dell’Afghanistan, un paese immenso, lontano, gestito da etnie diverse, privo di strade, difficilmente governabile dal centro, socialmente diverso, culturalmente arretrato e in più islamico? Questo non significa che militari, funzionari civili e volontari delle ONG non fossero onesti. Il problema è farsi capire dalla gente. In Afghanistan i Sovietici (1979-1989) crearono lo scontento con la collettivizzazione delle terre dei latifondisti, ma costruirono scuole, ospedali, strade, uffici e impianti sportivi. E soprattutto, tutto fu gestito direttamente. Sotto gestione americana invece la ricostruzione è stata affidata al Provincial Reconstruction Team (PRT)(4) gestito soprattutto da istituzioni e aziende private, magari non tutte serie e ideologicamente solide come Emergency del compianto Gino Strada, per non parlare delle intermediazioni parassitarie dei notabili locali e dei funzionari governativi. Frequente la lamentela della popolazione locale: tanti progetti, nessun attore, pochi cambiamenti nella condizione sociale ed economica della gente (5). Giusto ieri Emma Bonino ribadiva la priorità di una gestione pubblica e coordinata (europea) per gli aiuti umanitari e l’assistenza ai profughi. Altri progetti non sono partiti per la mancanza di sicurezza. Ma allora il problema era posto male: la priorità era la parte militare; nessuna impresa civile rischia uomini e capitali se non vengono garantite le ordinarie misure di sicurezza. E ora le immense risorse minerarie scoperte nel 2010 saranno sfruttate da altri, sempre che i talebani garantiscano la sicurezza: si tratta di gestire enormi investimenti per un arco di decenni, vista la mancanza di strutture e di infrastrutture. In fondo basta l’oppio. Sono stati spesi miliardi per convincere i contadini a coltivare qualcosa di diverso e non ha funzionato. Non sono poi stati distrutti i campi d’oppio per mantenere il consenso dei contadini ed evitare che andassero coi talebani. E non ha funzionato neanche quello. Colpa nostra: l’oppio lo esportano, ma i clienti siamo noi.

Altro errore: voler costruire un esercito nazionale afghano modellato su quello americano, con tutta la tecnologia e l’appoggio di fuoco che hanno solo loro. Quasi 90 miliardi di dollari buttati, più tutte le armi e i mezzi regalati ora ai talebani. I comunicati ufficiali anche italiani (6) sono sempre stati ottimisti, anche se si doveva ammettere che le reclute afghane erano analfabete e poco motivate e che frequenti erano i malintesi dovuti a differenze culturali. Gli afghani sono guerrieri duri e coraggiosi, ma solo finché si battono alla maniera loro, cioè con la guerriglia e per bande tribali. Arruolare reggimenti di linea formati da analfabeti e dotarli di armi moderne significa creare una totale dipendenza da specialisti stranieri e dall’appoggio dell’aviazione. In più – per ovvi motivi – gli eserciti NATO dovevano avere meno perdite possibili, quindi la prima linea toccava a loro, agli afghani. In fondo dovevano difendere casa loro o no? Ma anche con tutto l’appoggio di fuoco possibile, quella che si è rivelata debole è la motivazione dei soldati afghani, vista anche la corruzione dei comandanti, fino a giungere a una sorta di 8 settembre in salsa afghana. Un aspetto sottovalutato è che la guerriglia non si può separare dalla politica: le poche vittorie reali (come quella degli inglesi in Malesia, 1948-1960) si devono a un’accorta gestione sia militare che politica della situazione, evitando rappresaglie sulla popolazione civile.

Infine, mi viene in mente una frase che pronunciò il gen. Franco Angioni in una conferenza sulla Bosnia: non si deve mai negoziare senza un deterrente.  Trump invece nei colloqui di Doha con i talebani ha concesso tutto senza condizioni. A parte l’esclusione del governo afghano (come dire…), nessuno degli impegni sottoscritti (ma il testo ufficiale potrebbe avere clausole segrete) era controllabile sul terreno. Anche se i cittadini statunitensi si erano stufati di finanziare una guerra lontana dai propri confini e anche se – a parte Bush jr. – tutti gli altri presidenti (Obama, Trump, Biden) in fondo volevano solo uscire dalla trappola afghana, le modalità accettate da Trump e addirittura affrettate da Biden sono oggettivamente un disastro. Che senso ha – come ha fatto Obama nel 2014 – fissare la data del ritiro? E’ chiaro che il nemico aspetta. Peggio ancora ritirare prima i soldati e poi i civili, salvo dover rimandare i soldati a gestire l’esodo disordinato dei propri collaboratori. Il ponte aereo da Kabul ricorda quello di Berlino del 1948, ma il contesto è diverso: caos completo e il rischio reale di non poter evacuare tutti gli afghani in pericolo: non ci sono proroghe e gli alleati della NATO non sono stati neanche sentiti, come se fossimo solo i vassalli degli americani. Le perdite alleate sono oltre il migliaio, abbiamo anche noi sputato sudore e sangue e alla fine neanche chiedono il nostro parere, dimostrando un atteggiamento diciamo unilaterale. Si auspica da parte della NATO – gli europei e i canadesi, intendo – una minore passività. La NATO era nata per difendere l’Europa, ma poi è diventata una coalizione buona per fare la guerra in mezzo mondo. Peccato che siano tutte guerre perse o a metà.

Infine: in che mani siamo? Stiamo parlando di professionisti della politica, della guerra e delle scienze sociali che hanno studiato nelle più prestigiose scuole e centri di ricerca e una volta in pensione sono assunti dalle industrie o diventano esosi conferenzieri universitari. Suggerisco la lettura di due documenti reperibili in rete. Il primo è uno studio sulla discrasia fra presidenti che non capiscono niente di cose militari (con l’eccezione di Eisenhower, che era un generale) e i militari che sanno gestire la parte tecnica di una guerra ma non ne capiscono le implicazioni politiche e sociali (7). L’altro documento è una lunga intervista al generale Petraeus, probabilmente il miglior comandante americano degli ultimi anni (8). Gli errori sono elencati tutti, e detto da lui possiamo crederci: aveva realmente stabilizzato l’Irak e contribuito al più recente manuale di contro-insurrezione, dove si tiene conto forse per la prima volta della cura per la popolazione civile (9)

Ma i risultati finali li vediamo nelle masse di disperati all’aeroporto di Kabul, più quante ne vedremo nei prossimi mesi. Perché un paradosso delle guerre recenti è che la ricostruzione del paese liberato non è più a carico del vincitore, come all’epoca del piano Marshall, ma di chi ha perso, il quale per sensi di colpa o per escludere i cinesi o pur di non vedersi occupato da mezzo milione di profughi poveri e musulmani è ben disposto a sostenere economicamente il nemico vittorioso.

NOTE

  1. CRONOLOGIA: 7 ottobre 2001 – Parte l’Operazione Enduring Freedom. Stati Uniti e Regno Unito avviano una campagna di bombardamenti aerei contro Al Qaeda e i talebani, mentre sul terreno va avanti l’offensiva dell’Alleanza del Nord. 14 novembre – Kabul cade, i Talebani si ritirano nella roccaforte di Kandahar, che cadrà il 9 novembre, segnando la fine dell’Emirato islamico. 5 dicembre – l’Onu forma l’International Security Assistance Force (ISAF) per mantenere la sicurezza in Afghanistan e assistere il governo di Kabul. Dell’ISAF farà parte anche un contingente italiano, schierato prima Kabul e poi a Herat. Aprile 2002 – George W Bush propone un piano per la ricostruzione dell’Afghanistan. 1 marzo 2003 – Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld dichiara la “fine dei combattimenti”. L’8 agosto la Nato assume la responsabilità della missione ISAF. 14 dicembre 2003 – La Loya Jirga con 502 delegati prepara una nuova costituzione afgana. 9 ottobre 2004 – Hamid Karzai vince le elezioni ed è proclamato presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Nel 2009 Karzai viene confermato per un secondo mandato. 2005 – Insurrezione talebana dopo la decisione del Pakistan di collocare 80.000 soldati al confine con l’Afghanistan. Luglio 2006: si moltiplicano gli attacchi suicidi e gli attentati con mine stradali. Maggio 2009 – Il Pentagono nomina capo delle operazioni militari il generale Stanley McChrystal, che teorizza la necessità di ridurre i “danni collaterali”, cioè le vittime civili. Dicembre 2009 – Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama invia altri 33mila soldati statunitensi in Afghanistan. In totale le truppe internazionali sono 150mila. 1 maggio 2011 – In un raid in Pakistan, truppe speciali Usa uccidono Osama bin Laden. Dicembre 2011 – Conferenza di Bonn per avviare il ritiro delle truppe internazionali e la ricostruzione dell’Afghanistan. Giugno 2013 – L’ISAF trasferisce la responsabilità della sicurezza alle forze afgane. Il 21 dicembre 2014 Ashraf Ghani e il rivale Abdullah Abdullah si accordano per dividere i ruoli nell’amministrazione dell’Afghanistan. 28 dicembre 2014 – L’ISAF lascia il posto a Resolute Support, con compiti di assistenza alle forze afgane. Agosto 2017 – Donald Trump rende pubblica l’intenzione di ritirare le truppe il prima possibile. 2018 – Talebani e delegati Usa avviano trattative di pace ad alto livello a Doha, in Qatar; il testo è firmato il 29 febbraio 2020.  Finalmente il 30 giugno 2021 i soldati italiani tornano a casa da Herat. Agosto 2021: il finale lo vediamo ogni giorno.
  • Ennio Flaiano disse una volta: “ma che significa sano erotismo? Come dire una bella dentiera”.
  • Nel 1992, la grave crisi umanitaria che stava sconvolgendo la Somalia indusse le Nazioni Unite ad un intervento armato nella regione, concretizzatosi con le missioni UNOSOM I (1992), UNITAF (1992-1993) e UNOSOM II (1993-1995). Tuttavia una cattiva gestione delle operazioni vanificò l’intervento. Anche qui gli Stati Uniti crearono non pochi problemi cambiando da un giorno all’altro la natura della missione e mettendo i nostri soldati nei guai.
  • In sigla, FM 3-24.2 (FM 90-8, FM 7-98). Scaricabile in rete

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La cultura fa male quando vuol far bene

Woke è un termine che si riferisce alla consapevolezza di questioni che riguardano la giustizia sociale e la giustizia razziale. A volte è usato nell’espressione inglese vernacolare afroamericana “stay woke”.

Le dure polemiche che stanno scuotendo la cultura universitaria americana e in Europa quella francese, olandese, belga e inglese finora sembrano non toccare le nostre università: da noi ancora si discute sulle guerre del fascismo, come se il dibattito fosse ancora fermo alla linea del 25 aprile (1). Questo ritardo culturale non è strano: in Italia le novità arrivano sempre dall’America o dalla Francia, e può darsi che sia solo questione di tempo: nel ’68 gli effetti del maggio francese smossero i nostri atenei con qualche mese di ritardo. In più, le condizioni della cultura italiana sono diverse: non abbiamo il razzismo come problema endemico; non abbiamo ancora grandi comunità islamiche “assertive”; né abbiamo avuto decolonizzazione perché nel ’43 le colonie le abbiamo perse da un giorno all’altro e da quel momento quella storia non ci riguardava più. Inoltre, le nuove minoranze etniche o le comunità Lgbt ancora non hanno raggiunto una massa critica tale da scalare il potere negli atenei e nei posti chiave dei mass media e dell’editoria. Perché di lotta per il potere si tratta: l’università è il luogo dove bene o male si seleziona la futura classe dirigente e si elabora la cultura del Potere. Come insegna proprio il ’68, nell’arco di due decenni è possibile occupare i posti di potere nel giornalismo, nell’editoria, nei telegiornali e naturalmente nell’università. Alla fine, mutatis mutandis, sono semplicemente i giovani che scalzano i vecchi. Ma chi sono oggi gli studenti? E cosa sono gli atenei?

La situazione dell’università è cambiata nel tempo soprattutto per l’attuale  natura dei finanziamenti: a meno che a investire negli atenei non siano le industrie private in funzione della ricerca (a loro funzionale, ovvio), nelle università private i finanziamenti sono strettamente legati alle rette degli studenti, mentre in quelle pubbliche al loro numero. Sono fattori analoghi ma convergono su un punto: gli studenti condizionano  la natura dei corsi universitari in maniera molto maggiore che nel secolo scorso. Da qui anche un certo conformismo del corpo accademico: corsi e contratti vengono rinnovati se hanno un numero sufficiente di studenti. Quando mi sono laureato io in Lettere (1976), alcune tesi in archeologia venivano date solo a chi sapeva leggere il tedesco, mentre oggi non è richiesto più neanche l’esame scritto di latino: la facoltà perderebbe studenti, né la scuola secondaria li aveva preparati come una volta. C’è poi talvolta un curioso conformismo dell’anticonformismo: una teoria radicale se non addirittura strampalata può attirare più studenti di un corso “normale”. Anche se qualificato, devi essere “cool”, “fico”. Ricordo ancora la tesi di un accademico straniero, che per anni si è fatto un nome attribuendo il declino e la caduta dell’Impero romano esclusivamente all’uso delle tubature di piombo. Quella che al massimo poteva essere una causa di inquinamento e fonte di malanni vari, per chi gestiva la cattedra era il proprio asso nella manica, riverberato in decine di articoli di riviste accademiche obbligate comunque a discuterne. Morale: se sei originale fino al paradosso, la tua carriera è assicurata. Ma questo avveniva in tempi normali. La novità è nella violenza con cui ora alcune idee vengono veicolate se non imposte, andando persino contro l’idea stessa di Università.

In realtà l’università americana punta di diamante della Cancel Culture è un po’ diversa dalle altre: nella Howard University di Washington si è formata la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris e tale ateneo è da molti anni la roccaforte degli afroamericani, una sorta di “Harvard nera”: è stata uno dei simboli della contestazione negli anni ’60 e del movimento per i diritti civili. Fra i suoi studenti più celebri, oltre alla vicepresidente Usa, il giudice della Corte Suprema Thurgood Marshall, l’ex ambasciatore Usa presso l’Onu Andrew Young, il deputato Elijah Cummings, il Premio Nobel Toni Morrison, l’attore Isaiah Washington. È qui che si formano l’intellighenzia e la classe dirigente afroamericane. Niente di strano che l’ideologia del politically correct e della Cancel Culture prendesse qui una deriva radicale. E a farne le spese ora sono gli studi classici, pur presenti dal 1867: la Howard University ha deciso di dichiarare guerra ai classici della letteratura e della filosofia, che hanno il difetto di essere bianchi e quindi non abbastanza “inclusivi” e al passo coi tempi per le università – soprattutto statunitensi e anglosassoni – diventate la culla del politically correct. Il Dipartimento di studi classici verrà smantellato per creare “priorità diverse” nei piani di studi degli studenti e i professori di ‘classics’ verranno spostati in altri dipartimenti, dove i loro corsi potranno ancora essere insegnati (immaginiamo come). Ma già la Princeton University attraverso Dan-el Padilla Peralta, professore associato di classici, aveva spiegato al New York Times, insieme ad altri accademici progressisti, che i classici dovrebbero un giorno essere rimossi dai programmi universitari in quanto sono così “invischiati nella supremazia bianca da essere inseparabili da essa”. Peralta (aspirante suicida?) va oltre e afferma che gli studi classici sono ostili alle minoranze. “Se si volesse pensare a una disciplina i cui organi istituzionali fossero esplicitamente volti a disconoscere lo status legittimo degli studiosi del colore”, ha detto al New York Times, “non si potrebbe fare di meglio di ciò che hanno fatto i classici”. Non va meglio nel regno Unito, dove nelle scorse settimane l’Università di Leicester ha annunciato l’intenzione di accantonare Geoffrey Chaucer – il Boccaccio inglese – a favore di modelli sostitutivi che rispettino di più razza e genere. L’università giustifica tale scelta con l’esigenza di modernizzare i piani di studio rendendoli più adeguati alla sensibilità e alle prospettive degli studenti di letteratura inglese. I quali si suppone provengano ormai da estrazioni sociali ed etniche diverse, altrimenti non si capirebbe questo senso di estraneità verso una cultura superiore, tale da rasentare il delirio e il fascismo mascherato. Quando poi veniamo a sapere che la curatrice del museo della scrittrice Jane Austen deve preoccuparsi di giustificare l’uso del tè e di altri generi ”coloniali” da parte di una scrittrice vissuta due secoli fa, allora chiediamoci piuttosto se la raccolta dei pomodori nel Cilento non sia un esempio di neoschiavismo. Sicuramente gli antichi Romani erano imperialisti: la parola stessa “Imperium” è latina. Ma il “cultural heritage” comprende anche il Diritto Romano. E poi, davvero Russia e Cina non perseguono dopo duemila anni obiettivi simili a quelli dei Romani e con mezzi altrettanto discutibili sul piano morale?  Per fortuna, da noi l’espulsione della cultura e delle lingue classiche dall’istruzione superiore sancirà al massimo il consolidamento definitivo del Liceo Statale Semplificato (LSS), obiettivo perseguito per anni da certa pedagogia. Ma bisogna comunque tenere gli occhi ben aperti: imitare costa meno che creare e noi italiani sappiamo sempre adattarci.

Quello che piuttosto sorprende è la timida risposta a questo modo di vedere il mondo. Pur di non perdere il posto per motivi da noi ancora considerati illegali, troppi giornalisti e accademici hanno fatto un auto-da-fé che ricorda le confessioni spontanee dei tempi di Stalin. Noam Chomsky – ormai un vegliardo ma pur sempre combattivo e soprattutto grande analista del Potere e del suo linguaggio – ha invece risposto a tono: il movimento nato per fare i conti col passato si è avvitato in se stesso diventando motivo di divisione tra generazioni (3). La lettera aperta è stata firmata da altri 150 intellettuali americani, tutti comunque di una certa età. Ma c’è anche chi semplicemente si è adeguato allo Zeitgeist, lo spirito del tempo: alcune ditte inglesi curano a pagamento i profili dei clienti di fascia alta che vogliono ripulire il proprio curriculum o profilo Facebook con Spic&Span (2). Chi paga fino a 13.000 sterline vuole dunque difendersi in anticipo da qualsiasi accusa che possa distruggere da un giorno all’altro la sua carriera, il che mostra i nervi scoperti di una società spiazzata e insicura, ma anche troppo legata alla costruzione della propria immagine pubblica. Mi viene in mente la frase tipica della serie televisiva Perry Mason: “Ricordi che ogni parola che dice potrà essere usata contro di lei”.

Note:

  1. https://www.ilpost.it/flashes/marina-militare-celebra-battaglie-fascismo/
  2. Inside the ‘digital cleanse’ companies taking on cancel culture, sul Financial Times: https://www.ft.com/content/3f1c1edd-a319-4bec-af7b-a4a839919a91

A PLACE CALLED KOSOVO

Il sito ufficiale della US Army ( www.military.com ) è molto ricco di servizi e video e recentemente si è occupato del Kosovo, zona circoscritta ma strategica. Ricordiamo che il Kosovo come stato indipendente nasce nel 2008, subito riconosciuto dagli USA (presidenza Clinton). Ma proprio gli USA si sono trovati a gestire uno stallo che dura tuttora: l’accordo “storico” stipulato da Trump il 4 settembre 2020 tra  il premier del Kosovo Avdullah Hoti e il presidente serbo Aleksandar Vucic sanciva solo la vittoria della dottrina di Donald Trump in politica estera, imponendola unilateralmente a Belgrado e Pristina, ma non offrendo un reale progresso ai rapporti tra i due paesi. Ora, le recenti elezioni parlamentari del Kosovo (14 febbraio 2021) hanno visto la vincita del Movimento di Albin Kurti (Vetëvendosje – Partito Nazionalista di sinistra), noto per la sua intransigenza sulle relazioni con la Serbia. Proprio su Kurti ora ricadrebbero le forti pressioni dell’Occidente di riavviare i colloqui con la Serbia, che non riconosce ancora lo Stato del Kosovo. Una disputa che causa grande tensione e instabilità in tutta la regione balcanica e ostacola il sogno di Belgrado e di Pristina di aderire all’Unione europea. Certo, è ancora presto per capire i futuri sviluppi, ma la presidenza Trump aveva puntato molto sul precedente governo, favorendo anche la creazione di forze armate del Kosovo (approvata il 14 dicembre 2018 dal parlamento di Pristina), progettando di inserirle nella NATO e farle partecipare alle missioni internazionali. Nel frattempo i due eserciti lavorano insieme, mentre la forza KFOR – di cui facciamo parte anche noi con più di 500 elementi – si occupa di evitare attriti fra serbi e kosovari e di aiutare la ricostruzione del paese. MA la strada è lunga.

Ma come viene presentato nel corso del tempo l’impegno in Kosovo su www.military.com ? Sono 30 articoli e 25 video in tutto, alcuni sotto marchio NATO. Inizialmente si parla solo di peacekeeping:

https://www.military.com/daily-news/2013/03/14/active-duty-us-troops-to-do-kosovo-peacekeeping.html
https://www.military.com/daily-news/2015/11/13/soldier-tackles-professional-personal-goals-in-kosovo.html

Il Kosovo viene presentato come un posto strano per i soldati…

https://www.military.com/video/operations-and-strategy/deployment/a-place-called-kosovo/661029606001

e magari un orso viene curato dal dentista di caserma…

https://www.military.com/video/us-soldiers-kosovo-treat-bears-damaged-tooth

In genere, più prosaicamente, si esalta la cooperazione con gli altri eserciti della KFOR:

https://www.military.com/video/specialties-and-personnel/physical-fitness/spartan-300-challenge-in-kosovo/4680916396001
https://www.military.com/video/forces/army-training/international-infantry-training-in-kosovo/5128245628001

Vengono poi registrati alcuni decessi di militari in incidenti, ma viene anche data importanza alle donne:  p.es. una irachena arruolata tre anni prima nella US Army e ora in missione in Kosovo, paese – ricordiamolo – musulmano:

https://www.military.com/daily-news/2018/11/05/female-iraq-native-empowers-kosovo-mission-through-personal-experience.html

oppure un’austriaca e una slovena:

https://www.military.com/video/forces/international-forces/nato-women-in-kosovo-austrian-logistics-officer/5366980614001
https://www.military.com/video/forces/military-foreign-forces/nato-women-in-kosovo-slovenian-infantry-platoon-leader/5365687635001

…e l’italiana Sara Sapienza, sottoufficiale della Brigata Trasmissioni, degli Alpini, intervistata nel Villaggio Italia di Pec’/Peja:

https://www.military.com/video/forces/international-forces/nato-women-in-kosovo-italian-signal-platoon-leader/5366972945001

Curiosamente, Sara Sapienza ha visibilità nei canali NATO in inglese ma sembra ignorata dalle fonti italiane:

https://jfcnaples.nato.int/newsroom/news/2017/the-limits-are-sometimes-mental
https://www.dvidshub.net/video/513148/nato-women-kfor-italian-signal-platoon-leader-with-music

Nel 2018 invece vengono registrate le proteste della Serbia per la formazione di un esercito nazionale kosovaro, “Serbia insists that the new army violates a U.N. resolution that ended Kosovo’s 1998-1999 bloody war of independence” :

https://www.military.com/daily-news/2018/12/14/serbia-talks-armed-intervention-kosovo-oks-new-army.html

L’anno scorso naturalmente si parlava di Covid, vista la presenza di 3400 fra soldati e civili da 27 paesi diversi in un paese male attrezzato per qualsiasi epidemia:

https://www.military.com/daily-news/2020/12/25/virus-changes-work-not-goal-of-kosovos-nato-peacekeepers.html

Ma uno dei piatti forti resta lo sminamento:

https://www.military.com/video/operations-and-strategy/land-mines/international-day-of-mine-awareness/5395555839001
https://www.military.com/video/ammunition-and-explosives/explosive-ordnance-disposal/meet-erin-natos-bomb-disposal-commander-in-kosovo/5363003266001

Qui vediamo il sottotenente sminatore Erin Schneider, a capo di un reparto EOD, perfettamente a suo agio nel suo ambiente. E con questo termina la nostra breve rassegna sul Kosovo visto con gli occhi della US Army. Si tratta di video brevi e ben confezionati, o di articoli concisi ma essenziali. Un esempio di comunicazione.