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Conferenze che passione!

… Anime dannate di conferenzieri e diabolici dispensatori di infinite prolusioni, introduzioni, approfondimenti, precisazioni, parole, parole, parole, fiumi di parole, mentre i sadici torturatori dopo aver esordito con i rituali ed ingannevoli: “Sarò breve!”, infieriscono vispi e contenti sugli incauti spettatori ormai in preda, dopo i vari passamano oratori (anche i carnefici si danno il cambio!), alle inaudite sofferenze da piaghe di decubito ed eroiche resistenze vescicali!… Allora direte: perché ci si va?… Puro masochismo? Lucida follia? Sì, ma anche la vorace necessità di “esserci”, presenziare, ubiqui angeli derelitti del “partecipo, quindi sono!”.

Vittime volontarie intente a subire, esauste dal profluvio verbale, ma pure estasiate di condividere con l’autorità di turno o la celebrità di passaggio una pretesa parentela intellettuale, autoelevandosi partecipi di un circolo chiuso di elette e privilegiate menti superiori… dimenticando che pur fuori di quegli ammiccamenti e sorrisi complici, di quel cenno “rubato” al nume in conferenza, non si è nessuno e fuori da quell’Olimpo si torna alla propria domestica mediocrità!

La Cultura nel dialogo tra i popoli

La cultura è stata sempre un ottimo biglietto da visita dell’Italia e l’iniziativa itinerante, Classic Reloaded. Mediterranea, intrapresa dal MAXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo ) di Roma, sul legame tra tradizione classica e ricerca artistica contemporanea, è coraggiosa nel proporre le opere non tanto di Gino De Dominicis o Mimmo Jodice, ma quelle di Maurizio Cattelan e Luigi Ontani che dopo Villa Audi (Mosaic Museum) di Beirut (Libano), viene allestita in novembre al Museo Nazionale del Bardo di Tunisi, luogo del drammatico attacco terrorista di tre anni fa.

L’iniziativa vuole rappresentare, attraverso 20 opere di 13 artisti italiani dalla Collezione del MAXXI in relazione agli spazi e alle opere dei Villa Audi e del Bardo, la cultura del “mare che sta tra le terre”, quella autonomia culturale ma nello stesso tempo apertura all’altro, coesistenza tra popoli, rapporto tra locale e globale, che da sempre caratterizza le nazioni del Mediterraneo.

Le opere dialogano, a Beirut, con gli splendidi mosaici romani del II-VI secolo d.C. di Villa Audi e, a Tunisi, con le architetture e le decorazioni ornamentali del Petit Palais, al Museo Bardo.

Gli artisti in mostra: Salvatore Arancio, Maurizio Cattelan, Enzo Cucchi, Gino De Dominicis, Bruna Esposito, Flavio Favelli, Mimmo Jodice, Sabrina Mezzaqui, Liliana Moro, Luigi Ontani, Pietro Ruffo, Remo Salvadori, Luca Trevisani.

A ottobre, in concomitanza con la XIV edizione della Giornata del Contemporaneo, è stata proposta per la prima volta l’Italian Contemporary Art, coinvolgendo un’ottantina tra Ambasciate, Consolati e Istituti Italiani di Cultura che hanno organizzato dibattiti e mostre incentrate sul tema della cultura artistica contemporanea, cercando di porre in evidenza non solo artisti e opere, ma produttori, curatori, allestitori, direttori di musei, critici, riviste e libri d’arte.

L’iniziativa ha visto anche la collaborazione della Società Dante Alighieri che può contare su numerosi luoghi preposti più alla promozione della lingua italiana che dell’immagine.

Della cultura italiana, in generale, e della lingua in particolare è il tema del progetto Limes che l’Istituto Dante Alighieri di Tripoli ha finanziato per essere implementato dalla Ong Terre des Hommes Italia in Libano, con il gruppo Scout Palestinese “Al Qadisieh” e Al Mobader Association nel campo Palestinese di Beddawi, nel nord del paese, per realizzare attività ludico-educative (quali musica e teatro in lingua) finalizzate all’introduzione della lingua Italiana per 50 bambini rifugiati del campo.

L’iniziativa, come supporto linguistico e introduzione alla lingua italiana, è finalizzata a promuovere la pace e portare la speranza con la lingua e la cultura italiane ai più piccoli (da 10 a 13 anni), agli indifesi e a tutti coloro che futuro non hanno.

Il progetto Limes, iniziato a giugno 2018 e che proseguirà fino a fine dicembre 2018, è stata anche l’occasione per varare la convenzione tra il Ministero della Difesa e la Società Dante Alighieri per inaugurare la Biblioteca della Pace con la donazione di mille libri in lingua italiana al contingente di pace UNIFIL di stanza a Shamaa (Tiro).

La promozione e la valorizzazione della lingua italiana trova un valido strumento nella Giornata ProGrammatica, inserita nella XVIII settimana della Lingua italiana nel Mondo, si rivolge non solo alle realtà italofone (Città del Vaticano, Repubblica di San Marino, Svizzera italiana e allo stato senza terra del Sovrano militare ordine di Malta), ma anche alle Comunità Radiotelevisiva Italofona (CRI) che riunisce le principali radio in lingua italiana all’estero, e inoltre alle numerose nazioni interessate alla cultura e alla lingua italiana (Albania, Bulgaria, Croazia, Francia, Macedonia, Malta, Montenegro, Monaco, Serbia, Slovenia, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Crimea, Giappone, Guatemala, Somalia, Stati Uniti, Tunisia, Uruguay, Venezuela), dove la Società Dante Alighieri svolge, con le sue numerosi sedi, una preziosa missione sin dal 1889.

Sono oltre 5 milioni gli italiani residenti all’estero (+20% rispetto al 2012), secondo i dati del Ministero degli affari esteri e come si rileva anche dal Rapporto 2018 “Italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes. Oltre a ribadire la inarrestabile partenza dei giovani, si aggiunge anche la presenza di adulti per cercare un lavoro e degli anziani per trovare un luogo dove poter vivere con gli assegni pensionistici insufficienti per risiedere in Italia.

In Argentina sono stati censiti 948mila italiani, in Germania sono 787 e in Svizzera 631, mentre nel Regno unito sono 315mila gli italiani registrati all’Aire (Anagrafe Italiani residenti all’estero).

Con queste prospettive migratorie italiane il ruolo che gli Istituti italiani di cultura e le sedi della Società Dante Alighieri svolgeranno sarà sempre più impegnativo e decisivo non solo nel promuovere la cultura, ma per tenere i contatti con i connazionali.

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Qualcosa di più:

Dopo la fuga dei cervelli è la volta dei pensionati
http://www.agoravox.it/Dopo-la-fuga-dei-cervelli-e-la.html

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Il poeta del mito

Da qualche giorno è stata aperta, nella consueta fastosa cornice, presso le Scuderie del Quirinale la mostra “Amori, Miti e Altre Storie. Ovidio” avente per oggetto l’esame, sotto svariati aspetti, dell’opera in versi del poeta latino. Publius Ovidius Naso nacque a Sulmona, nel 43 a.C., da agiata famiglia della borghesia provinciale ed in giovane età si trasferì a Roma entrando in contatto con i più raffinati circoli culturali; riuscì alfine a frequentare gli ambienti artistici gravitanti intorno alla corte imperiale di Augusto ottenendo fama e successo. Si rese molto noto per le sue opere a soggetto amoroso ed anche erotico ispirandosi ai poeti alessandrini del mondo ellenistico, scrisse Amores, Heroides, Fasti, Remedia Amoris, Metamorfosi e la celebre Ars Amatoria. Sulla cinquantina e nel pieno della sua vita artistica e sociale, nell’8 d.C., fu improvvisamente esiliato da Augusto nella remota città di Tomi, piccola colonia romana sulle coste del Mar Nero, isolata e sovente minacciata, come dice lo stesso poeta, da incursioni dei nomadi delle steppe. Lì rimase quasi dieci anni componendo Tristia ed Epistulae ex Ponto in cui lamentava la sua infelice sorte ed invocava la possibilità di un suo richiamo a Roma. Morì a Tomi nel 18 d.C..
Ignoriamo il motivo del suo esilio, Ovidio parla in un suo verso di “carmen et error” frase enigmatica che copre una vasta gamma di interpretazioni: cosa fece? cosa vide? cosa disse? cosa scrisse? ignoriamo e ignoreremo forse per sempre la ragione del duro provvedimento augusteo. Nonostante queste vicende la fama del poeta rimase vivissima per secoli superando anche una certa ostilità da parte dell’opinione pubblica cristiana per il contenuto amoroso dei suoi versi. Molti sono i manoscritti medioevali con le sue opere, i più antichi rimasti risalgono all’XI secolo testimoniando il suo successo e la sua fama che si perpetuavano nel tempo.
Il poema che è esaminato in mostra è il “Metamorphoseon” in XV libri per complessivi 12.000 versi, è un’opera epico-mitologica che rivisita circa 250 miti greci che, secondo una moda alessandrina, contengono vicende che comportano delle trasformazioni di dei, di semidei, di ninfe, di umani; tipico esempio è Dafne che per fuggire Apollo si trasforma in alloro o Giove che assume le sembianze di aquila per rapire Ganimede o di toro per fuggire con Europa: Dal punto di vista cronologico si copre il periodo che va dall’apparizione di Chaos, all’inizio del mondo, alla glorificazione di Cesare che vola in cielo per raggiungere gli dei e prendere posto tra loro.
In mostra sono esposte circa 250 opere provenienti da musei e collezioni italiani e stranieri; sono del genere più diverso, quadri del 5/600 ed affreschi pompeiani, sculture antiche e barocche, cammei e vasi etruschi ed apuli, preziosi oggetti di trucco femminile ed infine numerosi codici finemente miniati attestanti la fortuna e la fama della poesia di Ovidio.
La mostra si articola attraverso una serie di ambienti che seguono un preciso programma: si entra in una sala con un padiglione contenente un ritratto rinascimentale del poeta, alle pareti una installazione, che può anche risultare incongrua, con versi ovidiani scritti con il neon, segue un ambiente suddiviso con, da una parte, le divinità amate da Ovidio capitanate da una splendida Venere Callipigia che esibisce un ben tornito lato B, dall’altra statue di Augusto e ritratti della famiglia imperiale. Segue una serie di sale, al piano terreno, in cui i curatori hanno esposto le opere che si riferiscono a miti in cui Ovidio parla in maniera irriverente delle divinità ufficiali dell’Olimpo Romano che invece Augusto, nella sua riorganizzazione dello stato, aveva di nuovo innalzato sugli altari in maniera solenne.
Si inizia con Marte e Venere sorpresi ed incatenati dal geloso marito Vulcano, con Dafne che si trasforma in albero per sfuggire ad Apollo, con Diana che fa morire Atteone che l’ha vista mentre si bagnava, con Apollo che scortica il vinto Marsia, con Diana ed Apollo che uccidono a colpi di freccia i quattordici figli dell’orgogliosa Niobe, con Giove che, preso da frenesia amorosa, trasformato in aquila rapisce Ganimede ed in toro la giovane Europa. Al piano superiore il programma è diverso, sono esaminati miti che hanno esiti tragici ed in alcuni casi esiti fausti; sono miti di morte Piramo e Tisbe, Ermafrodito e Salmacide, Narciso ed Eco, Ippolito e Meleagro, Icaro e Fetonte
Hanno esiti favorevoli i miti di Arianna e Proserpina che si trasformano in dee e dell’efebo Ganimede che ascende all’Olimpo e diviene coppiere degli dei.
Una mostra molto interessante per l’abbondanza e la varietà delle opere esposte e che si visita con grande piacere.

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Ovidio
Amori, Miti ed altre storie
Dal 17 ottobre 2018 al 20 gennaio 2018

Scuderie del Quirinale
Roma

Orario:
da domenica a giovedì 10/20
venerdì e sabato 10/23

Catalogo:
Arte’M/ Erma di bretschneider

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Jenin e la rimozione della realtà

– di Enrico Campofreda –
Jenin e la rimozione della realtà

Mohammad Bakri è un regista e attore palestinese con cittadinanza israeliana. E’ nato nel villaggio di Bi’ina, nella valle di Beit Hakarem, in piena Galilea, una zona a stragrande maggioranza musulmana, con una minoranza cristiana. In quel luogo, nell’aprile 1948, ha operato l’organizzazione terroristica ebraica denominata ‘Banda Stern’ facendo stragi di civili, distruggendo parte del villaggio. Nelle successive operazioni militari l’esercito di Israele ha sconfitto la resistenza arabo-palestinese e la gente di quel villaggio si è dispersa fra la fuga in Libano e l’impiego presso la comunità agricola ebraica di Nahalal. Bakri è nato nel 1953, quando lo Stato d’Israele insediato nella terra di Palestina aveva cinque anni. Poco più che ventenne s’è avviato alla carriera teatrale in Cisgiordania e Israele. Il suo sguardo s’è rivolto anche al cinema, spaziando sui terreni della sceneggiatura e documentaristica. Impegnate. Da qui sono cresciute la fama e gli ostacoli incontrati sul percorso artistico.

Nel 2002, quando la seconda Intifada era nel pieno delle sue giornate drammatiche e insanguinate, presentò un documentario che fece epoca “Jenin Jenin” dal nome d’un campo profughi palestinese situato Cisgiordania, a meno di trenta km da Nablus. Nel mese di aprile l’esercito israeliano aveva invaso quel campo ponendolo sotto stato d’assedio per una dozzina di giorni. Non fu permesso a nessuno, né a giornalisti né a organismi di controllo internazionale di seguire quelle operazioni definite antiterroristiche. Bakri, che assieme ad altri artisti aveva compiuto proteste non violente, penetrò con una camera il 26 aprile 2002, appena l’esercito di Tel Aviv si ritirò. Riprese e parlò con la gente scioccata. Ci furono testimonianze di violenza e massacri fra la popolazione. Il lungometraggio, montato a Roma e comunque diffuso nonostante gli ostacoli opposti dagli stessi Paesi arabi, subì attacchi da Israele che lo bollò insieme al regista di propaganda antisemita. Alle denunce per calunnia, presentate da militari israeliani contro Bakri, seguì nel 2006 un’assoluzione.

Ma tuttora quel film scottante, proibitissimo nelle comunità ebraiche di tutto il mondo, costituisce un fantasma. Recente è una nuova denuncia contro il regista lanciata da un altro soldato di Tsahal che si ritiene diffamato. Il regista israelo-palestinese continua a difendere più che se stesso il suo intento di sensibilizzare quella parte dei suoi concittadini che sulla spinta di quanto deciso dal Parlamento di Tel Aviv puntano alla discriminazione del milione di arabi tuttora presenti in Israele. Una nazione passata dall’apartheid alla esaltazione razziale col passo legislativo di considerare il Paese Stato ebraico. A quei concittadini ignari della storia di Jenin, come di quella della nascita di Israele, Bakri – in questi giorni in Italia per rilanciare fra gli altri quello stesso documentario – rivolge il suo appello ai cittadini d’Israele che non vogliono farsi manipolare da una politica non solo omologante, ma assolutista e razzista. Quando essi chiederanno una vita diversa, cadranno anche odio e oppressione.

Pubblicato 19 ottobre 2018
Articolo originale
dal blog Incertomondo
nel settimanale Libreriamo

 

 

Allah, la Siria, Bashar e basta?

– di Christian Elia –
Vent’anni di vita custoditi in un racconto

Solo oggi, dopo più di sette anni, si iniziano a leggere testi che davvero riescono a riguardare ai fatti dell’insurrezione in Siria del 2011 contro il regime di Bashar al-Assad con la lente della complessità e della competenza.Non che prima non siano state scritte cose degne di nota, anzi, ma inizia a esserci la distanza naturale per uno sguardo complesso, profondo. Non è ancora un bilancio, perché se sul piano militare (eccezion fatta per la ridotta di Idlib e per alcune enclavi ribelli) gli alleati di Assad hanno vinto, su quello politico e delle conseguenze il caso Siria non ha per nulla finito di riguardare la regione.

Alberto Savioli, archeologo, è uno di quelli che le cose degne di nota le ha sempre scritte, ma la pubblicazione del suo libro Allah, la Siria, Bashar e basta?, edito da Biancaevolta, è una di quelle riflessioni importanti, che mette assieme gli anni di vita personale, professionale e della rivolta. Storie piccole e grandi, intrecci, che solo chi ha frequentato la Siria fin dalla fine degli anni Novanta può fare.

Perché uno dei prezzi salati che il racconto delle rivolte arabe ha pagato è quello di tanti, troppi, che solo dal 2011 hanno iniziato a occuparsi di Siria (quando non proprio di Medio Oriente in generale) e, anche ponendosi con le migliori intenzioni di fronte a questa catastrofe umanitaria senza precedenti, han finito per non avere gli strumenti per mettere i fatti in connessione.

Non c’è bisogno di pensare a coloro che, spesso in cattiva fede, ma anche in buona fede, hanno scelto di tifare per una parte o per l’altra; bastano coloro che hanno ritenuto di potersi fare un’opinione guardando alle conseguenze di un processo politico, culturale, economico, storico che ha le sue radici – per certi versi – nel collasso dell’Impero Ottomano.

A Savioli si deve riconoscere l’onestà intellettuale e la curiosità, di chi ha vissuto per anni la vita quiotidiana di quell’inganno per i visitatori che è stata la Siria per molti anni. Inganno al quale anche Savioli non finge di non aver creduto. Eppure di inganno si trattava. 

Solo chi ha frequentato la Siria poteva conoscere quella ‘repubblica della paura’ dove oltre quindici agenzie di intelligence si spartivano il mercato della morte, della tortura, della delazione. Il cui nume tutelare è il criminale di guerra nazista Alois Brunner, ospitato e protetto dal regime a Damasco fino alla sua morte.

Un viaggio che, da professionale e personale, diventa storico. Passando per le tappe chiave della storia recente del Medio Oriente. Da quelle globali, note a tutti, come l’11 settembre 2001 e la guerra al terrorismo, passando per l’invasione dell’Iraq del 2003 e l’omicidio di Rafik Hariri a Beirut nel 2005.

Ma passando anche per la grande siccità che dal 2005 al 2008 ha lasciato senza sostentamento masse contadine che si riversavano nelle grandi città, per le liberalizzazioni scellerate in economia dell’idolo dei rossobruni anticapitalisti: il dottor Assad.

Ad una narrazione ‘alta’, Savioli accompagna sempre un vissuto fatto di comunità beduine, piccoli villaggi, pastori e contadini. Un osservatorio privilegiato di quella crisi economica che, negli ultimi anni prima della rivolta, si è saldata alla violenza come sistema di governo di Assad padre prima e di Assad figlio dopo.

Della Siria non puoi capire nulla se non conosci le speranze della società civile al momento dell’elezione di Bashar al posto del defunto padre, che invece (il grande amico della Palestina) aveva massacrato 3mila profughi palestinesi in Libano, nel campo di Tall’Zatar in Libano – solo per stroncare l’influenza politica di Arafat – nel 1979, o che aveva massacrato non meno di 40mila civili a Homs, per punire la rivolta islamista, in un decennio che portò a scomparire nel nulla circa 17mila persone.

Il figlio, giovane, educato in Occidente, aveva rappresentato una speranza. Il Manifesto dei 99, che chiedeva solo la fine dello stato di emergenza e libertà civili e politiche, stroncato con arresti e botte. E il giovane Assad, campione del laicismo per molti sui ammiratori, è al timone mentre lo stato profondo siriano, nella persona di Alì Mamlouk, organizza i viaggi in Iraq dei combattenti.

Il campione degli anti-imperialisti che, nel 2005, dopo Hariri, fa assassinare l’intellettuale Samir Kassir a Beirut e molti altri, per non perdere l’influenza siriana sul Libano. O che arma nel 2007 Fath al-Islam, il gruppo di Shaker al-Absi, giordano palestinese detenuto in Siria fino al 2005 e poi mandato nel campo profughi di Nahr al-Barid per destabilizzare il Libano.

E non lo dice Savioli, o qualche think tank di Washington, ma Abd al-Halim Khaddam, ex vicepresidente siriano, o il generale Manaf Tlas, alto papavero militare del regime.

Una storia lunga, che ricorda quella di tanti attori regionali, che con il fondamentalismo hanno giocato a seconda dell’agenda politica, senza volutamente pensare alle conseguenze.

Savioli, con la precisione di chi è abituato a maneggiare nomi e date, mette assieme. Mette assieme la figura di Abu al-Qa’qa’, una di quelle figure di islamista radicale passato dalle carceri di Saydnaya, Tadmur (Palmira), Mazza, Adra, per poi essere ritirato fuori quando faceva comodo.

Perché questo regime, campione del laicismo, ha lasciato andare tra il 2011 e il 2012 tanti di quelli che poi sarebbero diventati i ‘tagliagole’ che l’Occidente ha accettato di combattere sulla pelle di persone che nessuno vi racconta.

Mazin Darwish, Michel Kilo, Riyad al-Turk, Mash al-Tammu, Burhan Ghalyun, Anwar al-Bunni, il dentista Ahmad Tu’mi, il fisico Fida’ al-Hurani, lo scultore Talal Abu Dan, Alì Ferzat, vignettista satirico, il cantante Ibrahim Qashush, Yahya Sharbaji ,Gghiyath Matar, Muhammed Dibu, Abu Maryam, Abdulla Yasin e i ragazzi di Raqqa is being Slaughtered Silently, come Raqayya Hasan, Razan Zaytuna.

Il regime aveva loro come veri nemici. Le anime disarmate della rivolta che, come lo stesso Assad ha ammesso più volte, più o meno fino alla fine del 2011 è rimasta non violenta e che anche dopo ha provato forme di autogoverno e di democrazia, ha provato a lottare contro Daesh e gli altri.

A Savioli va il merito di aver aggiunto, grazie al suo percorso, un’analisi attenta del fattore beduino nella storia di una frontiera che esiste solo nei disegni coloniali prima e nazionalisti poi. Di aver raccontato, da testimone diretto, gli effetti della siccità e della scriteriata politica economica di Assad, senza mai cadere in descrizioni edulcorate o innamorate dell’una o dell’altra parte.

Ma anche e soprattutto, a Savioli, va il merito di aver tenuto memoria delle storie di chi ha solo inseguito un sogno, per non dimenticarli e per non ucciderli di nuovo, per non lasciare al regime anche la possibilità di riscrivere la storia.

Pubblicato 26 luglio 2018
Articolo originale
dal Q Code Mag

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Allah, la Siria, Bashar e basta?
Alberto Savioli
Editore: Bianca e Volta, 2018, pp. 680
Prezzo: € 18,00

EAN: 9788896400395

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