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Egitto: Una Primavera che non è fiorita

GL Egitto Una Primavera non finita BallerinaIn Egitto Mubarak viene assolto per il massacro di piazza Tahrir, ma anche i suoi figli e tutto il suo entourage non soggiorneranno nelle prigioni egiziane, mentre per quella generazione che ha creduto di poter confidare nella Democrazia c’è un futuro in carcere, come sottolinea il New York Times nell’articolo How Egypt’s Activists Became ‘Generation Jail’ .

In sei anni si sono succeduti eventi che facevano sperare nel cambiamento, ma ora ci troviamo punto e a capo: una restaurazione in salsa egiziana.

Secondo il Politico, nell’articolo di gennaio The Arab Spring is far from over la cosiddetta “Primavera araba” non è finita e dal canto suo The New Yorker, in un lunghissimo resoconto di una conferenza stampa di Al Sisi, Egypt’s Failed Revolution, si dice che quella “rivoluzione” sia fallita.

Mentre Shukri al-Mabkhout, con il romanzo L’Italiano, offre una equilibristica lettura degli eventi tunisini, attraverso la storia d’amore tra Abdel Nasser e Zeina.

Una storia tormentata come metafora per le speranze che si dissolvono come i sogni di carriera in ambito accademico di Zeina, la brillante e bellissima studentessa di filosofia, e di Abdel Nasser che si trasforma da giovane idealista di belle speranze a giornalista di successo ma disilluso e stanco.

Tanti sacrifici per assaporare una diversa visione della società e poi trovarsi al punto di partenza, una specie di crudele gioco dell’oca miscelato al celebre Congresso di Vienna per una sorta di restaurazione con personaggi che hanno cambiato volto ma non le pratiche, ma con la differenza che per trovare il velo così presente nelle vita delle donne bisogna risalire a prima degli anni ‘60.

L’ex autocrate egiziano Hosni Mubarak, rovesciato nel 2011 dalle manifestazioni di piazza per poi essere messo sotto processo, è stato liberato e ha lasciato l’ospedale militare dove ha trascorso gran parte degli ultimi sei anni in detenzione.

Era impensabile, sino a qualche anno fa, dopo che il volto di Mubarak era stato rimosso da ogni edificio pubblico, vedere l’uomo che ha governato l’Egitto con fermezza dal 1981 fino al febbraio del 2011, superare le accuse di corruzione e di crimini verso il popolo, per essere addirittura rimpianto.

Non sono state sufficienti le 850 persone uccise dalle varie polizie, nei 18 giorni di rivolta, per rendere meno influenti le Forze armate nel contesto sociale egiziano. Il periodo successivo alla rivolta è stato caotico e quello siglato da Morsi non è stato meno confuso, inaugurando un periodo di instabilità che allontanò turisti e investitori dall’Egitto. La nostalgia per un governo forte ha facilitato Al Sisi nel farsi presidente.

Ora Mubarak, stando al suo avvocato Farid al-Deeb è andato nella GL Egitto Una Primavera non forita Al Sisivilla di Heliopolis, proprio nel quartiere cairota dove recentemente è stata rinvenuta la statua gigant di Ramses II, spezzata in più blocchi, misura 8 metri, insieme ad un’altra, di circa un metro, raffigurante Seti II e così non ci sono due faraoni senza il terzo!

Mentre Mohammed Morsi, il successore di Mubarak in carica da meno di un anno prima di essere defenestrato dall’esercito nell’estate del 2013, rimane per ora in carcere con l’accusa di terrorismo.

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Manchester e la sua memoria operaia

AP OlO Manchester 2Se Londra, con la “Gloriosa Rivoluzione” del 1649, è il luogo di nascita della democrazia moderna e del parlamentarismo come sistema politico, Manchester lo è della Rivoluzione Industriale, del movimento operaio e della lotta di classe contemporanea.

Fondata nel 79 d. C. dal governatore romano Giulio Agricola, con l’immigrazione di una folta comunità fiamminga nel XIV secolo, la città inaugurò quella che sarebbe diventata la sua grande tradizione tessile. Il famoso telaio idraulico inaugurato nel 1769 da Richard Arkwright nel suo cotonificio (una cui riproduzione è esposta al Museum of Science and Industry) segnò il destino economico della città (che venne ribattezzata Cottonopolis) e della regione (il Lancashire), dando il via a quella rivoluzione industriale che cambiò la faccia del mondo.

Manchester fu però non solo la prima capitale economica del nuovo capitalismo industriale, ma anche – e di conseguenza – quella della formazione dei primi nuclei di classe operaia. Fu ai lavoratori mancuniani e alle loro drammatiche e degradate condizioni di vita che Friedrich Engels guardò quando scrisse il suo celebre saggio, La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), in cui il nuovo ambiente industriale veniva dipinto come un inferno sociale dove i lavoratori, mal pagati e affamati, morivano negli slums, negletti, disprezzati e coartati da una borghesia che li considerava oggetti e non esseri umani. Da questa condizione di subalternità pian piano maturò quella che più tardi venne chiamata la “coscienza di classe”. Il movimento operaio nacque e si sviluppò in tutta la Gran Bretagna attraverso varie fasi: la rivolta individuale; il luddismo; il tradunionismo e gli scioperi; il cartismo; le organizzazioni sindacali e le teorie socialiste.

A duecento anni di distanza il tessuto economico e sociale della città è radicalmente cambiato, non senza profonde crisi: nel secondo dopoguerra la filiera del tessile fu sostanzialmente spazzata via dalla concorrenza asiatica e statunitense, ma fu sostituita da quella dell’informatica (il primo computer fu costruito proprio a Manchester nel 1948). Dopo la depressione degli anni Ottanta, la città vide poi una profonda ristrutturazione urbanistica che la rilanciò come importante centro turistico e soprattutto culturale (con tre sedi universitarie). Ciò non ha, però, impedito alla comunità mancuniana di mantenere e preservare la propria memoria.

 

Un corteo lungo duecento anni di storia

AP OlO Manchester People_s History Museum«Join a march through time following Britain’s struggle for democracy over two centuries»: con questa frase si apre la presentazione del People’s History Museum sul proprio sito web. Allestito in un edificio che nell’epoca edoardiana (1901–1910) era adibito a centro di pompaggio, il museo di sviluppa su due piani in rigoroso ordine cronologico.

Al primo piano lo spazio è suddiviso in cinque sezioni. Revolution (1780-1840), è la parte dedicata alla rivoluzione industriale e alle prime grandi battaglie per il suffragio universale (come quella del 1818-1819 proprio a Manchester, che culminò in una manifestazione di 80mila persone duramente attaccata dall’esercito che fece 11 morti e centinaia di feriti, il famoso “Massacro di Peterloo”). In questa sezione trovano posto anche oggetti personali appartenuti a personalità di spicco del movimento democratico e rivoluzionario di allora, come la scrivania sulla quale Thomas Paine scrisse il suo I diritti dell’uomo (1791). Reformers (1786-1846) è invece lo spazio dedicato alla formazione dei primi due grandi partiti politici, i liberali (Whigs) e i conservatori (Tories), al Great Reform Act (1832) la legge sulla rappresentanza del popolo, e al Cartismo. Workers (1821-1930) e Voters (1880-1945) sono le sezioni più ampie del primo piano. In un tripudio di stendardi sindacali, ma anche di manifesti di propaganda ed elettorali, in questi spazi viene ricostruita la storia delle forme di organizzazione del movimento operaio, dalle prime società segrete, ai sindacati di mestiere, dai primi sindacati industriali al partito laburista e comunista (ma ci sono anche spazi dedicati alla propaganda conservatrice e liberale sui temi del lavoro). Questa parte, che raccoglie anche l’esposizione dedicata alla battaglia del movimento delle donne per il diritto al voto, si conclude con il periodo della seconda Grande Depressione e dei due conflitti mondiali. Infine, al centro della galleria è presente un piccolo teatro, dal quale si possono vedere o ascoltare brevi ricostruzioni audio-video degli eventi caratterizzanti l’esposizione.

Al secondo piano la galleria è costituita da quattro sezioni. Citizens (dal 1945 ai giorni nostri), raccoglie fotografie, manifesti, striscioni, prime pagine di giornali che riassumono la storia delle lotte democratiche e sociali del secondo dopoguerra britannico: dall’epoca del Welfare State e dell’introduzione del Servizio Sanitario Nazionale a quella del “consenso” ai partiti (1946-1979), dal Thatcherismo alla crisi della politica tradizionale, dall’esplosione dell’immigrazione alle grandi lotte per l’eguaglianza (in particolare i diritti della comunità LGBTQ), per la pace, contro la Poll Tax e contro il nucleare, fino ai grandi scioperi fra i quali giganteggia quello dei minatori del 1984. Banners è una parte dedicata agli striscioni e agli stendardi che, come un po’ nella tradizione militare, venivano issati alla testa della grandi manifestazioni sindacali, pacifiste e per i diritti civili. Accanto a questo spazio è possibile visitare il Textile Conservation Studio, dove per l’appunto vengono conservati e restaurati gli stendardi esposti all’interno del museo. Infine, con Time Off? l’esposizione si conclude con una sezione dedicata alla lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, al sindacato dei calciatori, alle società di mutuo soccorso e al movimento cooperativo. A salutarci mentre usciamo dalla galleria, un juke-box d’epoca manda a getto continuo canzoni di lotta, ma anche brani di musica pop che hanno caratterizzato i movimenti sociali in Gran Bretagna e le loro lotte.

Ma il People’s History Museum non finisce qui: oltre agli spazi per mostre temporanee, allo shop e alla caffetteria del piano terra, nel seminterrato è possibile visitare il vasto archivio, dove vengono raccolti documenti (anche interni), giornali, riviste, pubblicazioni del movimento operaio e democratico, del Partito Laburista e del Partito Comunista.

 

Esplorare il passato per cambiare il presente

AP OlO Manchester 1«Explore the past. Change the future». Questo invece è l’incipit sul volantino informativo della Working Class Movement Library. Situata a Salford, nella contea di Greater Manchester, la biblioteca è stata costruita negli anni Cinquanta del secolo scorso a partire dalla collezione personale di Ruth e Edmund Frow, militanti comunisti, e ora detiene decine di migliaia di libri, opuscoli, archivi, manifesti, striscioni, giornali, dipinti, fotografie, fumetti e molto altro ancora. La collezione copre documenti che riguardano temi che vanno dalla vita lavorativa a quella politica, dalla vita sindacale a quella sportiva. Che si tratti di un ricercatore o una ricercatrice,  che si venga mossi da semplice curiosità per i grandi eventi o la vita comune del passato, chiunque (l’accesso è libero) può non solo consultare l’enorme mole di materiale raccolto nella biblioteca, ma anche partecipare ai numerosi eventi gratuiti che lì vengono organizzati. Entrando nell’edificio, è possibile prendere visione della vasta gamma di documenti collezionati attraverso il display presente al piano terra. Fra questi: 1) le grandi campagne politiche del Paese, dal Cartismo al “Grande Sciopero Generale” del 1926, fino alle proteste più recenti; 2) il lavoro e la vita delle persone che hanno lavorato in fra la fine del XVIII e il XIX secolo (le operaie delle fabbriche di spazzole, i lavoratori della seta, i sarti, i calderai, ecc.); 3) le storie drammatiche di coloro che hanno lottato per le trasformazioni sociali – come Benny Rothman, il militante della Youth Communist League che nel 1932 guidò l’occupazione delle terre di Kinder Scout nel Derbyshire, per affermare il diritto di poter accedere alle aree di aperta campagna (all’epoca vietato); 4) altri importanti eventi come il Massacro di Peterloo, la storia dell’indipendentismo irlandese, la guerra civile spagnola.

Per concludere, il People’s History Museum e la Working Class Movement Library non solo sono due fra i maggiori istituti culturali della città, ma, attraverso metodologie espositive  e strategie comunicative che sfruttano a piene mani anche le nuove risorse digitali, riescono a garantire e preservare la memoria operaia e democratica della città (e del Paese), come confermano le numerose visite, non solo di studiosi e ricercatori, ma di scolaresche e di gruppi di giovani provenienti da tutta l’Inghilterra.

Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza

Migrazione Orban sfida la Ue per una nuova accoglienza Viktor-OrbanL’Ungheria di Orban ci riprova, con il suo senso nazionalistico, a scoraggiare i migranti nel passare per quelle contrade. Dopo il Muro e la proposta di relegare clandestini su un’isola del nord Africa, da dove potranno fare domanda d’asilo, è ora la volta di fare un ulteriore passo in avanti per irritare l’Unione europea nella proposta di accogliere i migranti in strutture carcerarie, con la motivazione di prendere le dovute precauzioni contro l’imperante minaccia terrorista.

Questa particolare scelta di Orban, diversamente dalle precedenti iniziative, può avere degli aspetti relativamente umanitari, nell’accogliere persone che hanno affrontato pericoli ed esposti alle intemperie di un inverno che non ha scoraggiato la fuga dalle zone di conflitto, raggruppandole in strutture carcerarie dove non gli si negherà cibo e assistenza sanitaria, invece di lasciarli senza un tetto, in balia delle intemperie.

Ma Orban non si vuol limitare a reinterpretare personalmente il significato di assistere il prossimo in difficoltà: vuole avere il completo controllo, mettendo al bando ogni persona impegnata nel rispetto dei Diritti umani e le organizzazioni come Hungarian civil liberties union, Transparency international e Hungarian Helsinki commitee, legate al finanziere d’origine ungherese e di genitori ebrei George Soros, accusandolo di essere al servizio dei poteri forti e di tramare contro il governo.

Mentre in Francia, tra le montagne della valle della Roia, Cédric Herrou è un uomo dedito all’allevamento e all’agricoltura e interpreta alla lettera l’insegnamento, non solo cristiano, di dare ospitalità allo straniero, offrendo non solo un giaciglio e un pasto ai migranti di passaggio, ma aiuta i migranti a passare il confine senza dover sottoporsi alla dura burocrazia delle nazioni.

Fermare i profughi è impossibile: la via balcanica non è stata mai chiusa e la via mediterranea non ha cessato di essere utilizzata.

Nonostante i pericoli che comporta una migrazione affidata ai trafficanti di esseri, l’umanità che fugge non rinuncia alla possibilità di trovare un luogo lontano da conflitti e carestie, senza dover aspettare di essere scelti per i Corridoi umanitari.

Un mezzo quello dei Corridoi umanitari ben collaudato dalla comunità di Sant’Egidio, con la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese. Un progetto, finanziato con l’8 per mille e protocollo d’intesa firmato con il Viminale e la Farnesina, che ha portato in Italia un numero di rifugiati non lontano da quello che l’intera Unione europea è riuscita sinora a ricollocare, con tanta parsimonia, nei singoli paesi.

I vertici dell’Unione europea non si lasciano scappare occasione per stigmatizzare la necessità di non lasciare la questione dei migranti solo sulle spalle dei paesi in prima linea (Grecia, Italia, un po’ Malta e Spagna in minima parte), ma non riesce ad essere altrettanto convincenti a far rispettare la ridistribuzione migratoria come quando minacciano sanzioni ai paesi inadempiente verso le percentuali deficitarie.

Una nuova iniziativa dell’Unione europea intende schierare le navi a ridosso delle coste per dissuadere i trafficanti della migrazione a mettere le bagnarole in mare. Per questo progetto la Ue stanzia 100milioni di euro per il governo libico riconosciuto dall’Onu.

Trattare con uno dei governi che attualmente legiferano in Libia non appare una buona mossa, tanto più se accompagnata da un’elargizione di milioni di euro in stile accordo euro-turco.

La Ue ha mostrato tutta la debolezza nell’affidare alla Turchia il ruolo Migrazione Orban sfida la Ue per una nuova accoglienza muro_54131882di sentinella dei confini europei, senza permettere al Commissario europeo per le migrazioni, il greco Dimitris Avramopoulos, e al lettone Nils Muižnieks, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, di vigilare sul rispetto dei Diritti nei luoghi di “filtro” migratorio.

È oltre modo utopistico poter scuotere le coscienze dei benestanti in pelliccia e cravattino sulle pene di un’umanità in migrazione con Fuocoammare, il lavoro pluripremiato di Gianfranco Rosi e ora candidato all’Oscar come miglior documentario, come ottimistico è affidare ad operazioni navali come Mare Nostrum e Triton o all’agenzia Frontex la sicurezza e la gestione dei confini europei.

Non ultimo è l’impegno di nel ministro degli Interni Marco Minniti nel non lasciare in mano della destra lo scettro della mano pensante verso la migrazione, organizzandosi per  aprire un centro Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione) in ogni regione, per una specie di internamento del frutto dei “rastrellamenti” attuati nelle città per scovare chi viene trovato privo di documenti, senza utilizzare un carcere, adeguandoci all’idea di accoglienza modello Orban.
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La barca è piena

Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Trump: Un uomo per un lavoro sporco

Trump Un uomo per il lavoro sporco e le personeDonald J. Trump si è insediato a Washington come 45° presidente degli Stati uniti, ma si è trovato costretto a mantenere alcuni funzionari del Dipartimento di Stato e della Sicurezza nazionale nominati da Obama per garantire la “continuità di governo”.

Un presidente che si insedia, con il più basso indice di gradimento degli ultimi 50 anni, su di una delle poltrone dalla quale si decidono le sorti del Mondo, ma dovrà attendere l’approvazione della commissione del Congresso sulle tutte le persone scelte da Trump per ricoprire gli incarichi di governo per iniziare a trasformare lo slogan “America First” in una realtà, imprimendo un radicale differente indirizzo nella politica estera.

Intanto il Presidente inizia a firmare i primi ordini esecutivi per “alleviare” l’onere economico della riforma sanitaria voluta da Obama che garantisce l’assistenza a 20 milioni di cittadini.

Una riforma che Trump si dovrà limitare a ridimensionare e non a smantellarla completamente, come avrà delle difficoltà a far comprare solo prodotti statunitensi fabbricati negli Stati uniti, ma probabilmente potrà contare sull’appoggio anche dei democratici per il rilancio delle infrastrutture, se per finanziare i lavori non effettuerà tagli alla spesa sociale.

È strano che un presidente come Trump possa riscuotere così tanti eccitatissimi sostenitori nella schiera di quelli che ieri erano dei ferventi anti-americani, quando il suo slogan è fare Grande l’America, attraverso il protezionismo, chiudendo le frontiere e rispolverando la politica isolazionista di Harding.

Mr. “American First” abbandona ufficialmente il TPP, l’Accordo Trump Un uomo per il lavoro sporco2 Transpacifico di libero scambio, firmato da Barack Obama lo scorso anno con altri 11 Paesi del Pacifico, esclusa la Cina, ma che il Congresso non aveva finora ratificato, e vuol rinegoziare l’accordo Nafta che coinvolge, oltre agli Stati uniti, il Canada e il Messico.

La scelta di penalizzare i prodotti provenienti dal Messico, anche aumentando i dazi, avrà anche delle conseguenze nei rapporti economici con altri stati, portando gli Usa verso un’autarchia economica laddove è internazionalmente riconosciuta la sua carenza produttiva in alcuni campi che potrebbe far retrocedere una grande nazione di qualche decennio.

Al confine messicano vuol completare il muro, ma non è sufficiente una firma, ha anche necessità di fondi. Dopo il Messico forse sarà la volta anche di blindare il confine canadese.

La migrazione è nel cuore di Trump, non si vuol limitare a blindare i confini, congelando per alcuni mesi l’ingresso negli Stati uniti di profughi e dei cittadini provenienti da sette paesi islamici (Iraq, Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen), ma non dall’Arabia saudita, Pakistan e Afghanistan luoghi non certo immuni dalla presenza jihadista.

Un ordine esecutivo che sta creando confusione negli aeroporti, creando tante surreali situazioni vissute come da Tom Hanks nel film The Terminal di Steven Spielberg, intere famiglie rifiutate all’imbarco e persone bloccate all’arrivo, senza poter andare avanti o indietro. Trump doveva prendere in considerazione di firmare un ordine “meno” esecutivo per dare il tempo di organizzarsi e non trovarsi con un’umanità che può contare solo sulla pressione dei gruppi attivisti per la salvaguardia dei Diritti umani come l’UNHCR o International Rescue Committee per uscire dall’empasse nel trovarsi ad essere dei detenuti in aeroporto.

La migrazione è il fronte sul quale Trump si sta maggiormente, impegnando tanto da arrivare a minacciare tutte quelle amministrazioni locali marchiate come sanctuary cities (città santuario) di un taglio di fondi federali per lo stato sociale se non si adeguano alle direttive di Washington.

Potrebbe anche pensare alle espulsioni, iniziando con il confezionare Fethullah Gulen come un pacchetto regalo per Erdogan.

Un’altra forma di isolazionismo è l’imposizione al silenzio delle agenzie che ritiene inutili (protezione ambiente, agricoltura, etc.) interrompendo qualsiasi tipo di comunicazione pubblica sui siti istituzionali e i social. Il web è un altro fronte per rafforzare la sua presidenza, togliendo la versione in ispanico dal sito della Casa Bianca.

Così Donald Trump non subirà dei contraddittori nel ritenere una bufala che la causa del cambiamento climatico sia dovuto all’inquinamento prodotto dall’uomo e al riscaldamento globale, ma solo da una manovra della Cina per ostacolare l’industria statunitense. Che la salvaguardia dell’ambiente non sia tra le priorità del presidente è evidenziata dalla scelta di inimicarsi anche i nativi americani, sbloccando la costruzione dell’oleodotto sulle terre sacre dei Sioux in North Dakota.

Anche le critiche che Trump ha più volte esternato verso la NATO (North Atlantic Treaty Organization) è un ribadire l’isolazionismo basato su meno Alleanza atlantica per tutti e più interessi nazionali.

Trump Un uomo per il lavoro sporco1L’insofferenza di Trump per ogni organizzazione transazionale come l’Onu o che con Putin condivide anche la voglia di disgregare l’Unione europea, fomentando il caos e seminando zizzania attraverso i movimenti nazionalisti ed euroscettici, cercando di instaurare un nuovo rapporto con la Gran Bretagna di Theresa May, nell’inconsapevole strategia del dividi e domina – Divide et impera – dei condottieri dell’antica Roma.

Un presidente che in una decina di giorni è riuscito a ridisegnare l’immagine degli Stati uniti e ha ancora quattro anni per continuare a sovvertire le regole, esaltando la tortura, rintroducendo il Waterboarding, per rispondere al fuoco con il fuoco.

Il risvolto nella scelta isolazionista nel bene e nel male, è che comunque gli Stati uniti non si intrometteranno, per i prossimi anni, negli affari di altri paesi.

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Aleppo peggio di Sarajevo

siria-aleppoÈ difficile comprendere il motivo di tanto giubilo di Damasco nell’aver riunificato Aleppo est con la parte ovest, quando le truppe che permettono ad al-Assad di imporre la sua dittatura si dimostrano baldanzose verso donne e bambini, ma dei pavidi davanti ai neri stendardi del Daesh.

Aleppo sarà di nuovo tutta sotto l’autorità di Damasco, ma Palmira, con la “ritirata” delle truppe governative siriane, è nuovamente terreno di scorrerie dei fanatici seguaci dello sceicco nero.

Sicuramente in Italia c’è chi come Francesca Paci ha interesse della sorte, con arrivo dei liberatori, di migliaia di persone, ma è certo che in parlamento non siede un solo individuo che abbia alzato la voce in difesa delle vittime.

I pentastellati o quelli della sinistra italiana, ma neanche Giuliano Ferrara e Il Foglio sempre pronti a prendere giustamente le parti delle vittime, non pensano neanche ad un sit-in silenzioso, con delle candele, davanti all’ambasciata siriana.

Le variegate truppe di al-Assad, dopo un durissimo assedio e un incessante bombardamento, si impossessano di Aleppo.

Di quella parte di città dove si erano asserragliati i “ribelli”, quell’Aleppo a est ridotta alle macerie di un cimitero di donne e bambini, di medici e insegnanti, città martoriata sulla quale l’artiglieria e l’aviazione che spalleggia Damasco ha fatto pratica di bersaglio su ospedali e scuole.

Con l’espugnazione dell’altra Aleppo le sofferenze della cittadinanza non sono finite: ora le truppe d’occupazione rastrelleranno in cerca di ogni possibile sospetto che possa essere un “ribelle”.

Se sugli adulti, uomini e donne, si può lasciare anche solo il sospetto di essere terroristi, ma quale colpa devono espiare i bambini?

La Russia, in questo desolante panorama d’incivile convivenza, avalla siria-aleppo-disegno-k2tf-u10901106824934rpc-1024x576lastampa-itse non addirittura si fa promotrice di queste azioni che è difficile non definire crimini contro l’umanità mentre  noi siamo impegnati a far sedere in parlamento delle persone capaci solo di mortificare l’Italia.

Ora stanno cercando di aprire dei corridoi “umanitari” per l’evacuazione, a singhiozzo, dei civili e dei ribelli “moderati”, quelli che non alzano la voce, che camminano con il capo chino e magari faranno ogni tre passi una genuflessione di ringraziamento per tanta magnanimità di aver salva la vita.

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siria-aleppo-ale13-k2tf-u10901106824934yki-680x596lastampa-itQualcosa di più:

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