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Africa: Il Sahel italo-francese non «combat»

Di un intervento italiano nel Sahel si parlava già dal maggio scorso con l’Operazione “Deserto Rosso”, ma la Difesa aveva smentito, ora è una realtà la presenza dei militari italiani nel Niger affianco delle truppe francesi, ma non per combattere, come ha tenuto a specificare il capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano, ma limitandosi ad «addestrare le forze nigerine e renderle in grado di contrastare efficacemente il traffico di migranti ed il terrorismo».

Ma la preparazione dell’intervento si potrebbe far risalire all’ottobre del 2016, con la decisione presa dal Consiglio dei ministri dell’allora presidente Matteo Renzi, con Paolo Gentiloni ministro degli Esteri, di istituire, nella capitale nigerina Niamey, una rappresentanza diplomatica che verrà aperta nel febbraio nel febbraio 2017 e successivamente (ottobre 2017), nell’ambito dell’accordo di cooperazione tra Italia e Niger, seguito dall’invio di una decina di addestratori  italiani.

Ora la prospettiva è di un contingente di poco meno di cinquecento militari che sembrano troppi per addestrare e pochi per contrastare efficacemente i trafficanti e i terroristi.

Nel Niger operano ben cinque gruppi terroristici tra Isis, al Qaeda e Boko Haram che alimentano il terrore. Pochi i nostri militari, troppi, o forse è il numero giusto per affiancare i militari francesi e statunitensi nel “difendere” gli interessi occidentali sulle risorse nigerine che non comprende solo l’uranio, ma anche petrolio, oro e diamanti.

Sicuramente per il governo italiano operare nel Niger significa bloccare il traffico di esseri umani per non fare intraprendere ad un’umanità disperata un viaggio pericoloso, ma anche perché scegliere il paese africano in posizione centrale (a nord l’Algeria e la Libia, a est con il Ciad, a sud con la Nigeria e il Benin e a ovest con il Burkina Faso e il Mali), e perché istruire i militari quando sarebbe più efficace un controllo sul malaffare e la corruzione che riducono permeabili e inefficaci le frontiere?.

Che cosa mai possono fare di più i nostri militari dell’addestramento francese alle truppe nigerine?

L’idea di intervenire in Africa nasce con il summit tenutosi il 13

dicembre 2017 presso La-Celle-Saint-Cloud, vicino a Parigi, dove il presidente francese Emmanuel Macron ha invitato non solo i paesi del G5 Sahel (Mali, Mauritania, Niger, Ciad e Burkina Faso), ma anche Italia, Germania, Arabia saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Precedentemente il Consiglio di sicurezza dell’Onu (giugno 2017) aveva approvato all’unanimità la nascita del G5 Sahel e il 30 ottobre scorso, gli Stati Uniti hanno promesso di fornire 60 milioni di dollari che vanno ad aggiungersi ai 58 milioni di dollari donati dall’Unione Europea e al contributo saudita di 100 milioni che permettono di avvicinarsi all’obiettivo di 492 milioni.

La scelta del governo italiano di spostare una parte dell’impegno militare italiano dall’Iraq al nord, nell’ambito della coalizione anti-Daesh, all’affiancamento del Corpo antiterrorismo G5-Sahel ha fatto sorgere delle sarcastiche critiche nel vedere i militari italiani come i pochi aiutanti dei soldati francesi, ma l’impegno è sotto l’egida dell’Onu che coinvolgerà non solo l’Italia e la Francia, già presente nell’area del Sahel con gli oltre 3mila militari dell’operazione «Barkhane», nell’affiancare i 5 paesi del Sahel, ma anche i soldati statunitensi e tedeschi.

L’impegno italico per contare di più in Europa si va a scontrare con l’attivismo Macron – Merkel nel rinverdire i fasti franco-tedesco degli accordi di amicizia del 1963 tra Charles de Gaulle e Konrad Adenauer, ma Gentiloni non si arrende e propone a presidente francese, nell’ambito del vertice Med-Set dei Paesi del Sud Ue, il «Trattato del Quirinale» e l’invio dei militari italiani in Niger è parte della strategia perché l’Italia non sia esclusa dalla prima fila europea.

Da sinistra si fa presente che i campi di concentramento libici continuano ad essere il teatro di stupri e torture, mentre dalla Lega si sollecita di sigillare i nostri confini, invece di chiudere i passaggi altrui, ma c’è anche l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

La presenza di militari fuori dal territorio nazionale è da ritenersi uno strumento di offesa o di prevenzione? È difficile instaurare un rapporto dialettico per la risoluzione delle controversie quando la controparte opera con le armi e non con le parole.

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Africa: Attaccati al Potere

Africa Attaccati al Potere-velazquez-papa-innocenzo-xIl cammino per una Democrazia diffusa in Africa è pieno di insidie, indire delle elezioni non significa che poi i risultati possono essere accettati pacificamente da tutte le parti.

In Gambia si è prolungato il balletto del “me ne vado” o “resisto” del presidente uscente, Yahya Jammeh, che dopo aver governato per 22 anni in modo autoritario, sembrava volersi farsi da parte dopo il risultato a lui sfavorevole, ma ecco che annuncia di non accettare il responso delle urne e il CEDEAO (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) si attiva per convincere il presidente ghanese a lasciare il potere.

La risposta di Jammeh, a due giorni dell’insediamento del presidente eletto Adama Barrow, si annuncia decretando lo stato di emergenza e l’Onu risponde con l’autorizzare l’Ecowas a intervenire militarmente per affermare la legittimità delle elezioni ed ecco che, sotto la pressione internazionale, Jammeh dichiara alla televisione di stato che lascerà il potere, prima però deve decidere dove andare, magari trasferirsi in Mauritania o Qatar, anche il Marocco si è offerto a dargli ospitalità, ma la sua meta finale è stata la Guinea Equatoriale, portando via con sé auto e preziose suppellettili su di un aereo cargo fornito dal Ciad, per un esilio dorato, garantito da una “buona uscita” di una decina di milioni di dollari delle casse dello Stato, e soprattutto lontano da qualsiasi commissione d’inchiesta che possa indagare sulle violazione dei diritti umani del padre-padrone del Gambia.

Mentre si consumava la sceneggiata di Jammeh che poteva portare ad un conflitto regionale, Adama Barrow, il nuovo e terzo presidente del Gambia, prestava giuramento nell’ambasciata del suo paese a Dakar (Senegal), un escamotage per non considerarsi in esilio.

Ora la situazione in Gambia, anche se Adama Barrow si è insediato, non è tranquilla con la difficile convivenza tra i soldati “fedeli” a Jammeh e le truppe dell’ECOWAS CEDEAO che sfocia in un continuo fronteggiarsi con scambio di colpi mentre le prigioni ospitano ancora gli oppositori della precedente amministrazione. Amnesty International chiede di indagare sulla morte di Solo Sandeng, esponente del Partito Democratico Stati (UDP), avvenuta dopo l’arresto e invoca la libertà per tutti i manifestanti fermati mentre chiedevano riforme elettorali, per una prova delle urne e della democrazia.

Un altro “attaccato” alla poltrona è il presidente Joseph Kabila, della RD Congo, che non sembra neanche voler indire le elezioni mentre il 92enne Mugabe si candita a succedersi, nel 2018, alla guida dello Zimbabwe.

La famiglia Kabila, in oltre dieci anni, ha creato un impero economico Africa Attaccati al Potere Kabila REUTERS1885896_Articoloche abbraccia tutti i settori dell’economia congolese e perché allora rischiare di perdere il potere sul Congo detto democratico e il controllo sull’estrazione dell’oro, diamanti, rame, cobalto e quant’altro è celato sotto la terra congolese, dando l’addio alla gratificante consuetudine di utilizzare una nazione come personale bancomat?

In Ciad il Presidente Idriss Déby per non lasciare la poltrona conquistata nel 1990 con un colpo di stato e consolidata nel 1996 con elezioni “costituzionali”, ha rimosso nel 2005 la limitazione a due mandati per poter mungere “ad libitum” le casse. Nell’aprile del 2016 è stato confermato per un quinto mandato per garantire la stabilità nell’area e combattere, grazie ai soldati della forza interregionale africana e le truppe francesi di stanza nel Ciad, i miliziani jihadisti che scorrazzano a nord sul confine libico, mentre imperversano a sud-ovest, tra Niger e Nigeria, gli integralisti islamici di Boko Haram, ma anche a est il confine con il Sudan non si può definire tranquillo.

Ancora più ad est è l’Eritrea ad essere governata con pugno di ferro da Isaias Afewerki, primo e unico presidente dal 1993, due anni dopo che il paese del Corno d’Africa conquistò l’indipendenza dall’Etiopia, che un rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, pubblicato l’8 giugno 2016 a Ginevra, lo ritiene autore di numerosi crimini contro l’umanità, come la riduzione in schiavitù della popolazione non solo per servire sotto le armi la dittatura, reclusione, sparizioni e tortura oltre a persecuzioni, stupri e omicidi.

Sulle coste del Mediterraneo è Abdelaziz Bouteflika che, nonostante le sempre più insistenti voci sul suo precario stato di salute, ad essere presidente dell’Algeria dal 1999 e a non voler scendere dalla poltrona, ma è forse solo il Fronte di Liberazione Nazionale, il suo partito, a detenere il potere e decidere i cambi di dirigenza. Le elezioni del 4 maggio potranno dare un’indicazione sulla stabilità dello stato tra i più estesi dell’Africa, e il decimo del mondo, come “baluardo” alla diffusione di un islamismo integralista.

Anche in Tanzania non è il presidente a avere una continuità, ma il Partito della Rivoluzione che dal 1964, anno della fusione di Tanganika e Zanzibar, non ha permesso ad altre formazioni politiche di intromettersi nella gestione del potere.

Pierre Nkurunziza, in Burundi, ha giurato nel 2015 per il terzo mandato come Presidente, in elezioni giudicate non regolari dagli osservatori internazionali, che hanno causato veri e propri scontri tra l’opposizione e i governativi, portando l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon a recarsi nel paese africano per avviare un dialogo. Una crisi politica che vive a tutt’ sospesa nella speranza di una ripresa di dialogo tra governo e oppositori.

Nel vicino Ruanda è Paul Kagame, presidente dal 2000, ad annunciare la sua candidatura per un terzo mandato alle elezioni del 2017. L’accesso ad un terzo mandato possibile con la modifica costituzionale, ottenuta con la vittoria del referendum popolare, del 18 dicembre scorso, così non potrà solo rimanere al potere per altri dieci anni, ma potrà successivamente ricandidarsi ancora per altre due volte! Quindi Kagame potrebbe rimanere al potere fino al 2027, forse fino al 2034, diventando praticamente un presidente a vita. Ecco chi ha ispirato il turco Erdogan a plasmare la costituzione, ma forse lo si può perdonare nel suo farsi re, visto il ruolo svolto nella conclusione del genocidio ruandese del 1994 e, anche se non sempre positivo, nella seconda guerra del Congo.

Charles McArthur Ghankay Taylor ha governato sulla Liberia per soli sei anni, ma in compenso ha fatto danni non solo nel suo paese, ma ha messo lo zampino anche nella Guerra Civile nella vicina Sierra Leone per assicurarsi i blood diamonds (diamanti insanguinati) e per questo venne dimissionato nel 2003 per poi essere il primo ex presidente africano ad essere condannato dalla Corte Speciale per la Sierra Leone (SCSL) e dalla Corte per i Crimini internazionali de L’Aia, con sentenza definitiva 2013, a cinquant’anni di reclusione.

Il destino di Charles Taylor potrebbe essere condiviso dall’attuale presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashīr, accusato dalla Corte Penale Internazionale per i crimini in Darfur, e sulla cui testa pende una mandato di cattura internazionale. Al-Bashīr, presidente del Sudan dal 1989, ha potuto contare su di una sorta di sbadataggine o magari della negligenza di altri governi non solo africani per sfuggire al mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità emesso nel 2009 e da difese fantasiose come quella di Erdoğan basata su “un musulmano non può compiere un genocidio”.

In Mauritania Mohamed Ould Abdel Aziz è stato confermato, dopo un colpo di stato, presidente dal 2009 e nuovamente nel 2014. Ora si appresta ad indire un referendum costituzionale magari non solo per abolire il Senato, modificare la bandiera e l’inno nazionale, ma anche per trovare un escamotage per prorogare la sua presenza alla guida del paese, anche se privilegiando l’etnia arabo-berbera a cui appartiene lo stesso Abdelaziz, discriminando le etnie africane, puntando sul fatto di aver garantito sino ad ora la sicurezza del paese nonostante si trovi al centro di un’area instabile, come dimostrano le vicissitudini del vicino Mali, dove operano jihadisti di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, formazioni indipendentiste Tuareg e criminalità comune.

Per fortuna l’Africa non è solo di governanti intenti a fare soldi e conservare ad ogni costo la poltrona, ma anche di presidenti come il namibiano Hifikepunye Pohamba che, allo scadere del suo mandato nel 2015, si è aggiudicato il premio Mo Ibrahim per il suo buon governo. Il premio è stato istituito nel 2007 dalla fondazione del milionario sudanese Mo Ibrahim ed è una speranza per Africa democratica.

Africa Attaccati al Potere Jose-Eduardo-dos-Santos-008Un altro esempio di responsabilità può essere il presidente Jose Eduardo dos Santos che, confermato nelle ultime elezioni del 2012 in Angola con il 75 per cento dei voti, ha dichiarato di non volersi presentare alle prossime elezioni di agosto, nominando come successore Joao Lourenco. Una decisione presa dopo 37 anni al potere iniziati 1979, con la morte di Agostinho Neto

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Nigeria Boko Haram rapisce 200 studentesse per venderle come schiave

Cresce la protesta nel paese per l’indifferenza delle autorità sul rapimento delle studentesse del 14 aprile a Chibok. Il presidente nigeriano Goodluck Jonathan chiede aiuto a Barack Obama e il Dipartimento di stato Usa si è reso disponibile all’invio di una squadra di esperti negoziatori.

Il gruppo Boko Haram che del suo nome «l’educazione occidentale è proibita» ne fa un manifesto di terrore, ha messo in vendita le studentesse per 12 dollari, questo è il prezzo dato a una vita umana nel paese ricco di petrolio e altre risorse, come schiave o spose, in quelle condizione è difficile trovarne una differenza.

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Nigeria, Boko Haram rivendica il rapimento delle studentesse: “Le venderemo come schiave”

Alcune sarebbero già state “acquistate” in Ciad e Camerun per 12 euro ciascuna

Nigeria, Haram: “Allah mi ha detto vendi le ragazze”

Francesca Paci

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230 ragazze rapite, Boko Haram rivendica il sequestro

Nigeria. In Nigeria le studentesse di Chibok sono state catturate dal gruppo islamico. Sotto scacco il governo, a pochi giorni dal Word Economic Forum

Rita Plantera

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Il card. Onayekan: la Nigeria sconvolta dal rapimento delle 200 studentesse

del sito Radio Vaticana

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Boko haram: «Ho rapito le vostre figlie, le venderò»

di Redazione Online

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Le studentesse rapite in Nigeria saranno trattate come “schiave”, “vendute” o “sposate a forza”. E’ quanto ha affermato il capo di Boko Haram nel suo messaggio di rivendicazione

Rai News

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Boko Haram: liceali rapite, vendute come schiave e mogli “in nome di Allah”

Lagos (AsiaNews/Agenzie)

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Nigeria, schiave: crimine contro umanità

L’intervista all’arcivescovo di Abuja (R. Vaticana)

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Nigeria, rapite altre otto ragazze da Boko Haram

Condanna dell’Onu e dell’università al Ahzar.

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Studentesse rapite in Nigeria, gli Usa offrono il loro aiuto

Il Procuratore Generale degli Stati Uniti, Eric Holder, ha offerto aiuto e assistenza al governo nigeriano per la liberazione delle 200 studentesse rapite dal gruppo terrorista islamico Boko Haram, a confermarlo è un portavoce del Dipartimento di Giustizia americano.

scritto da Erminia Voccia

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Nigeria, il racconto delle due liceali rapite:”La fuga nel buio in mezzo alla savana”

Due delle centinaia di ragazze rapite dai fondamentalisti islamici spiegano come si sono salvate. Per le altre la minaccia del capo dei jihadisti: “Le venderemo al mercato”. Continua la mobilitazione globale. Ci hanno ingannate, travestiti da militari. Ma quando il camion si è fermato per un guasto noi siamo scappate nella savana

di Paolo G. Brera

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