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Democrazia: Il voto non è sufficiente

Una Democrazia non può essere misurata sulla regolarità dell’elezioni, bensì sulla metodologia con la quale vengono organizzate e non solo per la libertà d’espressione concessa ai vari partiti, ma anche per il grado d’indipendenza dei vari organi e strutture dello stato.

In Russia, negli Stati uniti, in Turchia, in Venezuela, in Egitto, gli elettori vengono chiamati ad esprimere le loro preferenze politiche, mentre in Cina questo non avviene, ma il controllo esercitato da Erdogan, Putin, Al-Sisi e Maduro sulla magistratura e sulle forze armate non è inferiore a quella di Xi Jinping, mentre Trump e qualche botolo dell’Europa del’est ambirebbero a poter esercitare tale potere.

Più che Democrazie, con qualche distinzioni, ci si può trovare davanti alla Democratura tollerata dall’Occidente per pura convenienza, che viene condannata direttamente o indirettamente.

In Turchia, con la scusa di essere un baluardo contro i flussi migratori, l’Occidente non ha additato più di tanto Erdogan quando ha “rafforzato” i poteri governativi. Una manovra nell’ordine democratico che gli ha permesso non solo di emarginare ogni opposizione, ma di incarcerare giornalisti e parlamentari democraticamente eletti.

Ad al-Sisi si perdona la compressione delle libertà, che hanno esaltato l’esuberanza con la quale riesce a zittire ogni voce che si alza per denunciare le continue violazioni dei Diritti umani e le scomparse di cittadini egiziani e stranieri come il francese Eric Lang o l’italiano Giulio Regeni, anche perché la sua intransigenza tiene sotto controllo, per quanto è possibile, jihadisti nel Sinai.

I presidenti francesi, prima Hollande e ora Macron, hanno sempre voluto distinguere tra la violazione dei Diritti dall’ambito affaristico e lo stipulare contratti per la fornitura di armamenti vari e l’Italia dietro nel firmare accordi per lo sfruttamento dei gas naturali.

La lotta al terrorismo è un ottimo viatico per sospendere o addirittura violare i Diritti umani, d’altronde “non è possibile applicare gli standard europei” e gli interessi commerciali e geopolitici vengono prima della libertà delle popolazioni.

Il Venezuela di Maduro è riuscito ad inimicarsi gran parte dei governi con l’imporre la sua “legittimità elettiva”, senza offrire qualche vantaggio. Gli Stati uniti continuano ad imporre la propria visione del Mondo e quando impongono delle sanzioni a quel governo piuttosto che a quell’altro, è meglio che gli altri si accodino, altrimenti anche loro saranno sanzionati. Nella confinante, e democraticamente riconosciuta, Colombia il presidente ha aperto la caccia non solo ai dissidenti delle Farc ma anche a quell’opposizione rappresentata dai suoi ex esponenti.

Così l’Unione europea anche se volesse intrattenere rapporti commerciali con Putin, non potrebbe perché la politica estera russa ha strappato la Crimea all’Ucraina, ignorando la restrizione delle libertà che hanno  portato le commissioni elettorali a ritenere impresentabili chi non è gradito e quando questo non basta ecco le sparizioni di giornalisti ed oppositori.

Un’arroganza che ha portato i russi del gruppo petrolifero Lukoil a chiedere al ministro degli interni italiano di limitare il diritto di sciopero nel polo petrolchimico di Isab di Priolo nel siracusano.

Mentre Erdogan, con un’economia in recessione e la sconfitta elettorale della scorsa primavera, è tornato a distrarre i turchi con una nuova campagna anticurda e con proclami di nuove operazioni militari in Siria, aumentando la vigilanza dell’organismo di controllo nazionale sui social network, divulgatori di una “visione” della società contraria a quella del sultano, dopo aver chiuse una cinquantina di testate, monitorato il lavoro dei corrispondenti esteri e arrestato 189 giornalisti, tra le oltre 77mila persone e le centinaia di migliaia allontanate dal loro impiego.

Nonostante tutto la Turchia è ritenuta un paese democratico e di fatto lo è se l’opposizione riesce a dispetto degli arresti e delle emarginazioni a vincere, anche se dei sindaci democraticamente eletti vengono destituiti perché curdi. Nelle ultime amministrative si è evidenziando il divario, non solo turco, tra il voto nelle grandi città, aperto ai cambiamenti, e nelle aree urbane e quelle rurali legato ad una politica oscurantista più tradizionalista.

L’Europa e l’Occidente sono portati, per convenienza, ad usare una voce afona quando dovrebbero criticare o magari condannare certe abitudini di quei paesi che intrattengono rapporti politici ed economici favorevoli e abbiamo altri esempi di Democrazie dalle sfumature autoritarie come quella guidata dall’ungherese Orban impegnato soggiogare magistratura e informazione o dal filippino Duterte che suggerisce usare la mano più che pensate con chi infrange la legge, dal brasiliano Bolsonaro intanto a svendere un continente agli interessi di pochi, mentre guarda l’Amazzonia bruciare, così anche il presidente boliviano, presupposto esponente di sinistra, Edo Morales frutta indiscriminatamente l’Amazzonia e i suoi abitanti o l’indiano Modi che vuole un’india monolitica, un unico popolo con un’unica cultura. Poi c’è anche chi da alfiere delle libertà si è trasformato, dietro il vessillo elettivo, nell’autoritario Daniel José Ortega Saavedra.

Mentre le destre europee reputano anche l’Unione europea poco democratica e la Commissione accentratrice, una convinzione dovuta più ad una limitata capacitò di comunicazione, più da un vero potere di Bruxelles, che condiziona ogni esercizio del voto sia comunitario che nazionale, portando l’elettore ad essere vittima di campagne fatte di slogan, esprimendo le proprie simpatie politiche di pancia.

Nella consolidata democrazia britannica è Boris lo sfascia tutto a utilizzare la costituzione per ottenere la firma della regina e decretare la proroga delle ferie dei parlamentari per poter risolvere la Brexit a suo modo.

La realtà della Democrazia è impalpabile, meno tangibile della Libertà perché ognuno si sente libero a suo modo, mentre la Democrazia si confronta e coinvolge anche gli altri.

C’è chi vuol salvare il popolo dalla Democrazia e chi come Winston Churchill che la stigmatizzava “la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora.”

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Il futuro della democrazia

“Dove manca il ‘capitale sociale’, dove l’integrazione e l’impegno dei cittadini nelle formazioni sociali volontaristiche è debole, manca la cultura politica necessaria alla democrazia”.

 Questo piccolo libro di scienze politiche raccoglie i contributi di un convegno svolto nel 2009, ma sembra scritto in un’altra epoca e la lunga prefazione di Gianfranco Fini fa rimpiangere quella Destra laureata capace di portare avanti una politica nel rispetto della Costituzione. Il convegno fu un’occasione per conoscere il pensiero dei teorici di cultura germanica, e a organizzarlo presso Como furono la Fondazione Farefuturo (leggi: Fini) e la Konrad Adenauer Stiftung, che ha all’attivo almeno una trentina di opere pubblicate in italiano. I contributi di questo convegno hanno il testo tedesco a fronte e recano le firme di Hans Jorg Henneke (relazione introduttiva): Dietmar Helper (il futuro della democrazia – osservazioni e diagnosi dall’ottica austriaca); Markus Krienke (Democrazia e religione); Agoston Samuel Mraz (Sulla democrazia in Ungheria). Forse pochi conoscono questi studiosi, come è difficile che conoscano le opere di Hans-Peter Schwarz – citato nel convegno a p.37 – visto che nessuna delle oltre sue cinquanta monografie è mai stata tradotta in italiano, il che dimostra quanta strada c’è ancora da fare per l’integrazione europea.

Molti e pregnanti gli argomenti trattati: il limite della rappresentatività dei partiti politici tradizionali, le forme di partecipazione diretta, le varie forme di legge elettorale, il ritardo delle istituzioni rispetto alle esigenze sociali, la democrazia parlamentare e quella presidenziale, gli strumenti della democrazia deliberativa e soprattutto lo sviluppo delle istituzioni indipendenti nella costruzione e gestione della democrazia. Notare che all’epoca ancora non si parlava di democrazia diretta e non erano esplosi i social come nuovo mezzo di espressione e pressione politica. Nessuno avrebbe previsto che Facebook potesse diventar anche un’agenzia stampa governativa e che il presidente degli USA usasse i Tweet come ufficio stampa della Casa Bianca.

Interessanti poi i due contributi, austriaco e ungherese, soprattutto alla luce di quanto avviene oggi. Per l’Austria si nota il tentativo di riformare strutture che nel corso del tempo non hanno saputo rinnovarsi, complice anche il sistema proporzionale. Per l’Ungheria invece il contrario: le strutture della democrazia hanno una ventina d’anni e non si sono ancora stabilizzate. E quello che vediamo oggi con Orbàn, al centro del potere c’è il Presidente dei Ministri, che se viene sostenuto dalla maggioranza di Governo (almeno 194 dei 386 parlamentari) non c’è nessun’altra istituzione che possa limitarne il potere. E infatti si è visto.

MP Libri Il futuro della democrazia

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Il futuro della democrazia
Ediz. italiana e tedesca Vol. 5
di Mario Ciampi, Wilhelm Staudacher

Prezzo: € 10,00
Editore: Rubbettino, 2009, pp, 115

EAN:9788849828658

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Africa: Una scaltra “Democrazia”

L’Africa non è solo la culla dell’umanità, ma è anche delle disuguaglianze e a ogni elezione si ha la conferma che chi ha il potere ha anche una posizione privilegiata, se ha le capacità e la volontà, per condizionare il risultato delle elezioni.

Un esempio di condizionamento riuscito, perché ideato con pazienza, è il Rwanda, dove è stato confermato, con il 98,8% dei consensi, Paul Kagame come presidente, dopo che si era prodigato nel far modificare la costituzione e cancellato il limite di due mandati presidenziali. Un impegno che ha visto premiato con la ratificazione del referendum popolare, aprendogli la strada ad altre due ricandidature che lo porterebbero a rimanere al potere almeno fino al 2027, senza escludere una presidenza a vita.

Per assicurarsi un futuro da presidente è necessario non avere opposizioni ed ecco che la polizia di Kagame arresta Diane Shima Rwigara. che agli inizi di quest’anno si era vista rifiutare la candidatura alle presidenziali, perché non avrebbe raggiunto il numero minimo di firme a suo sostegno, avendo usato documenti falsi di persone defunte.

Accuse sempre respinte da Rwigara e ora, dopo una settimana di silenzio della polizia di Kigali e della famiglia, il portavoce della polizia, sotto la pressione della stampa internazionale, accusato d’aver “trattenuto” la candidata politica su mandato del procuratore, insieme alla madre e la sorella, per essere interrogate per evasione fiscale, ma di averle lasciate libere la sera stessa.

Intanto il 60enne presidente guida per un terzo mandato il Paese che, dopo la stagione sanguinosa del genocidio tra Hutu e Tutsi nel 1994 che causò oltre 800.000 morti, controlla con il pugno di ferro.

Uno scaltro utilizzo di un sistema ritenuto “Democratico” solo perché vengono effettuate delle elezioni che non è riuscito in Kenya a Uhuru Kenyatta, il quale non dimostrandosi altrettanto accorto, “limitandosi” alla correzione dei risultati dei vari seggi che non gli è valsa, per ora, la riconferma, dovendo sottoporsi in ottobre al giudizio dell’elettorato e confrontarsi con il suo rivale Raila Odinga. La nuova chiamata alle urne si è ritenuta necessaria dopo l’annullamento decretato, dopo aver riscontrato irregolarità, dalla Corte suprema del Kenya.

Raila Odinga aveva sin da subito contestato l’esito del voto, definendo «storica per il popolo keniano e estensivamente per tutta l’Africa» la decisione della Corte suprema, fissando al 17 ottobre la nuova data per votare.

Per il Continente africano è la prima volta che dei giudici propongono di far svolgere nuovamente le elezioni presidenziali per delle irregolarità.

Nel vicino Burundi è Pierre Nkurunziza, presidente dal 2005, che, dopo essersi affermato per un terzo mandato, vuol convincere l’opposizione, più battagliera di quella del Rwanda, a farlo rimanere sino al 2020, nonostante venga ritenuta la situazione incostituzionale. Un paese carente di democrazia, come viene sottolineata nella relazione della Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH), e l’Onu ha rilevato un peggioramento della crisi umanitaria. Una situazione che ha sconfinato, sin dal 2015, nel vicino Congo, con 400mila profughi, creando difficoltà nell’accoglienza in un paese impegnato a fronteggiare già un milione di sfollati causati dal conflitto tra il governo centrale e i capi delle varie le milizie.

In Angola, con il ritiro del settantacinquenne José Eduardo dos Santos, solo apparentemente il voto sembra cambiare qualcosa. A succedere a dos Santos, presidente per gli ultimi 38 anni e promotore della legge che proibisce al suo successore di cambiare non solo i capi dell’esercito e della polizia, ma anche dei servizi di intelligence per otto anni, è João Lourenço, militante sin dagli anni Settanta del partito al potere (Movimento popolare per la liberazione dell’Angola – Mpla), per poi diventare generale dagli anni ottanta e ministro della difesa, ed esser stato eletto presidente.

Dos Santos non voleva sorprese dopo il suo ritiro, cosa che poteva avvenire se era Jennifer Lopez a succedergli, cercando di assicurarsi una vecchiaia dorata rimanendo a capo dell’Mpla, il partito tutt’ora al potere; e con la figlia Isabel (la donna più ricca dell’Africa) alla quale ha affidato la gestione della compagnia petrolifera di stato; mentre uno dei suoi figli controlla il fondo di investimento sovrano di cinque miliardi di dollari.

Con lo slogan «Si metta un limite ai mandati presidenziali» l’opposizione vuole mettere fine al monopolio della famiglia Eyadéma/Gnassingbé sulla presidenza del Togo.

Sono una cinquantina di anni che la famiglia Gnassingbé detiene il potere, prima il padre di Faure Gnassingbé, l’attuale presidente, a prendere con un golpe il potere e tenerselo con dei tira e molla per una quarantina anni, poi nel 2005 è il figlio a succedergli, rendendo il Togo, con una dittatura silenziosa, un personale feudo corrotto e povero, ma con una speranza, se i togolesi potranno vedere rispettata la Costituzione vota dal 90% dei votanti nel 1992, è il quarantasettenne Tikpi Atchadam, ma sarà difficile che si potranno effettuare dei radicali cambiamenti con gli enormi interessi che coinvolgono il porto di Lomé, come uno snodo della rotta della droga dall’America Latina all’Europa, oltre ad essere l’ingresso delle armi che alimentano le guerre del continente.

L’opposizione togolese, una coalizione di 14 partiti, ha indetto nuove manifestazioni per il 4 e il 5 ottobre, dopo le vittime del 20 e 21 settembre, per chiedere riforme costituzionali dopo settimane di mobilitazione popolare contro il regime di Faure Gnassingbé.

Africani che piegano la democrazia ai personali interessi, disinteressandosi, non tanto del benessere degli africani, ma di garantire l’acqua potabile a tutti.

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Africa: attaccati al Potere
Africa: le Donne del quotidiano
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Turchia: Un regime che vuol governare facile

Turchia Un regime che vuol governare facileIl sultano Erdogan, dopo un tentativo di golpe, ha creduto di aver debellato l’opposizione e vincere con percentuali filosovietiche il referendum per una riforma costituzionale in senso presidenzialista forte, ma i SI, con il loro 51,2%, hanno solo evidenziato una Turchia divisa a metà.

Una Turchia divisa a metà, nonostante le prigioni sovrappopolate, tra una popolazione urbanizzata che guarda ad un futuro europeo e una rurale che si affida al custode della tradizione di una rifondazione ottomana.

Una maggioranza risicata che Erdogan cerca di esorcizzare con una battutina: “L’importante è vincere, 1-0 come 5-0”, ma da adito alle opposizioni di sospettare di brogli con 2,5miloni di schede sospette, anche se l’Alta commissione elettorale suprema (Ysk) boccia i ricorsi e ammette nel conteggio anche le schede senza timbro ufficiale.

L’ambizioso sogno di Erdogan di poter, Allah volendo, governare sino al 2034 ha anche l’avallo di Trump, mentre la Ue, tramite Osce (Organization for Security and Cooperation in Europe), afferma che sono stati «Violati gli standard internazionali».

Nonostante tutto Erdogan potrà festeggiare l’anniversario della repubblica turca, e magari del suo fondatore Ataturk, nel 2023 e continuare a gridare contro “le nazioni crociate”.

Forse in Turchia si sta collaudando una forma di Democrazia ibrida, dove un sistema di “governo nel quale, oltre al fatto che si tengano delle elezioni, i cittadini sono completamente tagliati fuori dalla conoscenza di tutto ciò che concerne il potere e le libertà civili.” (Da Wikipedia), diventerà una Democratura o una DittoCrazia? Qualunque sia il vocabolo è un sistema di governo che tanto piace a Trump e a Putin.

La Democrazia turca è sempre più squilibrata verso un sistema Autoritario, dove i Diritti Umani sono una pura Utopia barattati con una pretesa sensazione di sicurezza.

La detenzione di giornalisti con capi d’imputazione inconsistenti?????????????????????????????????????????????????????????come per il corrispondente del giornale tedesco Die Welt Deniz Yucel o non specificati come nel caso dell’italiano Gabriele Del Grande.

Si può ricondurre l’inizio di questo giro di vite sulle libertà civili alla repressione muscolare che il regime turco ha effettuato per arginare le proteste di Gezi Park del 2013, iniziate per salvaguardare l’omonimo uno spazio verde di Istanbul dalla speculazione immobiliare che lo minacciava.

Realizzare l’ennesimo ponte o tunnel tra la sponda asiatica e quella europea non dichiara comunque la sincera volontà del leader turco di essere disponibile al dialogo e avvicinare la Turchia all’Europa, quando è sempre più difficile discutere, ridere, contraddire la voce del padrone che si appresta alla reintroduzione della pena di morte.

È difficile pensare che delle periodiche chiamate alle urne per eleggere dei rappresentanti in Parlamento possa rendere una nazione democratica, come dimostrano le elezioni in Siria o in Kazakistan.

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Democrazia e conflitto per una Sinistra da rifondare

renzi-matteo-scompostoIn un articolo pubblicato il 29 novembre scorso dal New York Times, la giornalista Amanda Taub, citando uno studio di due giovani scienziati politici, sintetizza i tre fattori coi quali si può misurare il grado di stabilità di una democrazia: 1) il sostegno dei cittadini e delle cittadine; 2) l’ampiezza della disponibilità pubblica a forme di governo non democratiche, financo a regimi militari; 3) la crescita di consenso dei cosiddetti “movimenti e partiti anti-sistema”[1].

Utilizzando questo metro di valutazione, dovremmo dare una valutazione positiva dell’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso in Italia: l’affluenza del 65% (nonostante non fosse necessario il raggiungimento del quorum) dimostrerebbe una discreta coscienza dell’importanza politica che rivestiva questo passaggio istituzionale e una rinnovata disponibilità alla partecipazione nei processi decisionali attraverso gli strumenti di democrazia diretta individuati dalla nostra Costituzione; la vittoria del NO, con più del 59% dei suffragi, a sua volta dimostrerebbe una netta volontà popolare di difendere non solo gli strumenti e le architetture istituzionali definite dalla carta costituzionale, ma in questo modo di difendere anche i valori e principi affermati nella prima parte di questa.

Tuttavia, provando ad andare un po’ più a fondo e cercando di capire le motivazioni più profonde che hanno animato il variegato fronte politico e sociale del NO referendario, la situazione si presente, a mio avviso, molto meno omogenea e molto più problematica. Per sintetizzare, in questo rifiuto della presunta “riforma costituzionale” targata Renzi-Boschi si sono incrociate almeno tre motivazioni politiche fondamentali: 1) l’effettiva volontà di salvaguardare il testo e l’impianto costituzionale da una riforma che vedeva, come ha scritto Gaetano Azzariti[2], la democrazia come un intralcio e che avrebbe nei fatti aperto le porte ad un inasprimento autoritario della forma di governo, con la concentrazione oggettiva del potere anche legislativo e di controllo nelle mani del governo (governo che, con la riforma elettorale dell’Italicum, rischia tuttora, se questa riforma venisse applicata anche per l’elezione del Senato, di rappresentare una esigua minoranza del corpo elettorale); 2) l’opposizione politica e sociale all’operato non solo del governo Renzi e del Partito Democratico, ma a anche a tutti quegli esecutivi che lo hanno preceduto negli ultimi anni; 3) questa opposizione politica e sociale era a sua volta divisa fra chi, come ha scritto Anna Fava, difendeva «l’idea di una società plurale e eterogenea, fatta di razze e generi diversi, di diverse opinioni politiche e fedi religiose […] fisiologicamente percorsa da conflitti[3]», e chi invece era mosso da un’idea di società chiusa, permeata dall’egoismo sociale (di classe, di razza e di genere), per il quale la soluzione dei problemi sociali passa per la sopraffazione di chi sta peggio o solamente di chi è diverso.

Uno dei principali insegnamenti della Costituzione, che ci piaccia o meno, sta proprio nel riconoscimento del carattere conflittuale della società moderna e nella necessità di individuare soluzioni il più possibile condivise per garantire alla cittadinanza quei diritti che la Carta stessa sancisce nella sua prima parte. L’ex premier Renzi, la maggioranza di governo che lo ha sostenuto (e che ora sostiene Gentiloni), il Partito Democratico, avrebbero dovuto interrogarsi, già subito dopo l’uscita dei primi exit poll nella tarda serata del 4 dicembre, su come i provvedimenti di questi anni non solo non abbiano fatto uscire l’Italia dalla profonda crisi economica in cui versa, ma abbiano di fatto spaccato ulteriormente il Paese, aumentando fortemente le diseguaglianze: basti solo pensare al decreto “sblocca Italia”, al famigerato Jobs Act, alla “Buona Scuola”, al cosiddetto “Decreto salva banche”, quello “taglia sanità” della ministra Lorenzin, solo per fermarci a quelli più importanti (e più odiati). Provvedimenti sui quali il PD e le forze politiche alleate non solo non hanno mai aperto un serio confronto con le forze sociali e sindacali impattate da quelle leggi, ma che nei confronti dei movimenti che hanno protestato e manifestato in questi due anni, hanno spesso solo usato il linguaggio dell’arroganza e della repressione, come dimostrano gli almeno cinquanta episodi di cariche violente della polizia, di pestaggi di contestatori, fossero essi lavoratori, studenti, correntisti bancari.

Col Referendum del 4 dicembre il segnale di sfiducia popolare al governo Renzi e al PD è stato inequivocabile, ed è arrivato proprio da chi questi provvedimenti legislativi li ha subiti nel modo più drammatico: il meridione del Paese (col dato quasi plebiscitario della Sardegna), le zone periferiche delle grandi città, i/le giovani (vittime della interminabile precarietà e disoccupazione). Invece dal segretario del Partito Democratico non solo nessuna autocritica, ma neanche il tentativo di capire il “grido di dolore” che arriva dalla “periferie” (geografiche, sociali, generazionali) del Paese, solo negazione o rimozione. Lo dimostrano non solo le parole di Renzi già la sera del 4 dicembre, il limitare gli errori ad aspetti di “comunicazione”, o quelle imbarazzanti di Gennaro Migliore sul Jobs Act (il problema dei voucher sarebbe stato semplicemente che qualcuno ha pensato che si potesse abusare di loro), o ancora quelle del nuovo presidente del consiglio Gentiloni, per il quale sui temi del lavoro (e in particolare sull’art. 18) il governo non farà alcuna marcia indietro.

Di fronte a questo scellerato esempio di arroganza e di inettitudine, chi incasserà nel breve periodo i risultati dell’esito referendario saranno paradossalmente proprie quelle forze politiche non solo lontane ai valori di eguaglianza e solidarietà sociale, ma anche dai valori e dai principi stessi della Costituzione repubblicana, (si pensi non solo e non tanto al Movimento 5 Stelle o a Forza Italia, ma soprattutto a forze politiche apertamente razziste come la Lega Nord o dall’eredità politico-culturale inequivocabilmente fascista come Fratelli d’Italia.

Per questo, oggi nel variegato campo della Sinistra più che arrovellarsi il cervello su formule elettorali e proposte di governi di coalizione, sarebbe necessario un serio processo di rifondazione, fatto innanzitutto di presenza e lavoro politico nei luoghi e fra i settori sociali che hanno espresso il loro NO alla riforma costituzionale. È l’unica possibilità per ricostruire una politica credibile ed alternativa a quella imposta dai centri del potere economico e finanziario europeo, ed eseguita dai vari governi tecnici o a guida PD che si sono avvicendati in questi anni. Una politica che ascolti il conflitto sociale e sia capace di risvegliare la partecipazione dei tanti uomini e delle tante donne che non hanno niente a che vedere tanto con la tecnocrazia renziana, quanto col becero populismo liberista del M5S e con quello razzista di Lega e Destra.

[1] Cfr. L’URL http://www.nytimes.com/2016/11/29/world/americas/western-liberal-democracy.html?_r=0.

[2] Cfr. G. Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale, Laterza, Roma-Bari, 2016.

[3] Cfr. l’URL http://effimera.org/partire-dal-no-rilanciare-la-partecipazione-anna-fava/.

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