La Vita cambiata dal Coronavirus

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Le città, con il Coronavirus, hanno svelato una nuova dimensione difficilmente paragonabile a quella vissuta negli anni ’70 con la crisi energetica o le lontane permanenze ferragostane di una metropoli deserta.

Non si tratta di un vigoroso ridimensionamento del traffico stradale o di una presenza pedonale limitata all’essenziale, ma di corpi trasformati in immagini; quello che conoscevamo ha acquisito una nuova presenza, nel tempo che Freud definiva del perturbante, il familiare che si trasforma in estraneo e l’assente che diventa quotidiano.

Cittadini che riscoprono la pazienza e l’educazione di affrontare le file per l’acquisto di alimentari e farmaci, per accedere ai servizi postali e bancari, per una riparazione informatica o nell’acquistare materiale da bricolage e sistemare ciò che l’abitazione attendeva da tempo.

Un periodo sospeso nel tempo da utilizzare per le riparazioni casalinghe da tempo rimandate o un libro che attendeva di essere letto, scoprire la cultura su internet visitando musei o ascoltare musica, guardare film e documentari, sfogliare o gustarsi un romanzo letto con patos.

La società si comprime sui singoli individui, per celebrazioni comunitarie di balconi plaudenti, canterini, in una lontananza che avvicina le persone nell’affrontare un diverso stile di vita che abbatte il consumismo dello spreco, abbracciare l’oculatezza dell’acquisto, dopo un primo momento di panico esternato in acquisti compulsivi da carta igienica e scatolame vario.

File educate di persone con una bassa conoscenza della geometria che sceglie alla linea retta quella a zig-zag o quella sinuosa della serpentina, ponendo i pedoni interessati ad andare oltre lo scendere dal marciapiede o affrontare calcoli algebrici per non entrare in collisione negli spazi altrui.

La speranza è che al termine di questa vicissitudine le persone possano aver acquisito l’educazione necessaria per convivere con le altre persone.

Il rumore delle città ritornerà a coprire il cinguettio e in quel momento è augurabile che persone, al termine della pandemica reclusione, possano aver fatto tesoro dell’esperienza, per un oculato stile di vita e di rapporto con gli altri.

Il Coronavirus come un corso di rieducazione per il rispetto del prossimo, senza dare in escandescenze, nell’uso dei mezzi di trasporto privati per brevi distanze. Le ipotesi di come sarà il dopo comprende anche scenari di una diseguaglianza accentuata e di un accentuato conflitto sociale.

Restare a casa

Cosa dire in questo periodo surreale, con Roma vuota e tutti reclusi ai domiciliari? Cosa fare ogni giorno col coprifuoco di 24 ore? A quali ricordi fare riferimento per affrontare una situazione mai vista se non in tempo di guerra? Come convivere serenamente con chi altrimenti vedevi poche ore al giorno? E quando finirà una situazione che pareva breve? Ogni giorno prendo appunti e come tutti gli altri cerco di capirci qualcosa, di dare un senso a questa reclusione. Non sono originale, però vivo come tutti una strana situazione che mai avrei immaginato possibile; da qui il bisogno di mettere nero su bianco la quotidiana esclusione dallo spazio sociale. Ma dopo venti giorni al telefono ci diciamo tutti più o meno le stesse cose, cioè poco, visto che poco possiamo fare. Chi ha figli può approfittarne per avere con loro un dialogo, un rapporto più stretto; ma noi siamo solo in due e la giornata è lunga, molto lunga. Cristina per fortuna ora può lavorare da casa e lo fa con entusiasmo, per ore. E’ una bibliotecaria come lo sono stato io, quindi spesso collaboro con lei nella revisione delle schede di catalogo. Tutto in linea, ovvio. Ieri sera invece mi sono collegato via Skype con un’associazione, e con mia sorpresa il collegamento funzionava bene. Oggi invece è domenica e la rete è sovraccarica e ricorda i collegamenti di vent’anni fa. Ma sia chiaro: vivo quello che vivono tutti, a Roma la situazione è ancora sotto controllo e io non sono in prima linea come medici, infermieri e volontari. Seguo ogni giorno le notizie e mi chiedo come mai abbiamo oggi più morti dei cinesi (se non hanno barato: ieri sera abbiamo visto tanti, troppi pallets con imballate le urne cinerarie da restituire ai parenti); telefono ogni tanto agli amici del nord e mi rimangono indelebili sia le immagini dei camion militari che portano via le bare che quelle di Papa Francesco che da solo predica in mezzo a piazza san Pietro totalmente vuota, vera Lux in tenebris.

Ma come si svolge la vita quotidiana? Primo consiglio: di questi tempi è meglio la radio. Ogni giorno, su tutti i canali tv e a tutte le ore non solo si parla soltanto di Coronavirus, ma ne parlano anche persone in cerca di visibilità quanto prive di competenza, e il bollettino di guerra della Protezione Civile da solo non dice tutto. Ma l’epidemia di fatto monopolizza l’informazione, al punto che nulla più sappiamo dell’assedio di Tripoli, dei combattimenti in Siria, dei migranti che premono sui confini greci o dei barconi pronti a partire dalle coste nordafricane; forse aspettano che finisca l’epidemia per riprendere le consuete attività. Oppure, i nostri giornalisti hanno sviluppato una sorta di monocultura che esclude tutto il resto.

Qualcuno si è scagliato con violenza contro le metafore di guerra che stanno saturando il vissuto quotidiano e il suo immaginario. Non abbiamo il diritto di paragonare tre settimane sbracati sul divano con quello che patiscono in questo momento i siriani assediati o con gli anni di guerra vera vissuti dai nostri genitori e dai nostri nonni. Per salvare l’Italia nessuno ci ha ancora mandato al fronte e i soldati ora impegnati nell’emergenza sono tutti professionisti. Anche se c’è fila, i generi alimentari non sono razionati e ognuno compra quello che può. Non siamo esposti a bombardamenti e in ogni momento possiamo comunicare liberamente con tutti e ascoltare informazione senza apparente censura. Abbiamo tecnologie che ci permettono di lavorare da casa e restare in contatto con tutto e tutti. Le limitazioni alla nostra libertà individuale sono temporanee e almeno per ora non c’è pericolo immediato di un’involuzione autoritaria delle istituzioni. Strana guerra poi: identificato il nemico, sgombriamo il terreno invece di occuparlo. Eppure le metafore belliche saturano il nostro immaginario e informano il linguaggio dei politici, degli esperti, dei giornalisti, più quello dei presenzialisti da strapazzo che la tv invita ogni momento in studio o in video chat. Il motivo è semplice: esse hanno facile presa su una società che non conosce più privazioni e ha quindi perso il senso della realtà. Sicuramente la doccia fredda nessuno se l’aspettava e le conseguenze le pagheremo per anni, e non solo economiche. In più già si registra una fioritura di testi apocalittici e moralistici, con il supporto dei presunti complotti diffusi via social.

Ma parliamo di noi. La cosa più importante: organizzare la giornata. Uno deve darsi un programma, una disciplina. Come insegna il servizio militare, se la struttura è improduttiva bisogna imporle precisi rituali quotidiani. In famiglia non sempre funziona, nel senso che, convivendo h24 da venti giorni, non sempre tutto procede secondo tabella e se c’è un periodo in cui viene messa alla prova la tenuta della coppia, è proprio questo. Fra qualche mese è scontato che aumenteranno le separazioni e/o i neonati. Molti negozi e alberghi falliranno, ma non gli avvocati e le ostetriche.

Regola due: curare l’igiene personale e il proprio corpo, radersi, mettersi sempre in camicia e cravatta. Questo non solo per mostrare un’immagine decente di se stessi quando ti chiamano via Skype o in videochiamata WhatSapp, ma per mantenere un tono. Ricordo l’immagine di copertina di un romanzo di Evelyn Waugh (mi pare Unconditional Surrender): anche nel campo di prigionia l’uffiziale inglese mantiene la sua dignità, anche se la sua divisa è ridotta a stracci. Niente di peggio che rimanere tutta la giornata in pigiama: di sicuro quello è il sistema migliore per non combinare niente.

Altra regola, guardare la televisione il meno possibile: è ansiogena e invece di comunicare sicurezza riesce a scatenare l’effetto contrario. Un solo argomento occupa tutti i canali a tutte le ore, con la continua presenza di presenzialisti ed esperti che spesso tali non sono. E’ una comunicazione sbagliata. Un mio amico invece mi manda ogni giorno il numero dei bambini nati: almeno è un segnale di vita. Meglio a questo punto la radio: più variata, priva di censura. La radio poi riempie il silenzio della casa nei momenti più noiosi. Personalmente sono da sempre un affezionato radioascoltatore e anche un po’ radioamatore, visto che ogni tanto una radio me la sono anche fabbricata da solo con materiali di fortuna, come nei campi di prigionia. Lavorare alla radio è il mio sogno e presto inizierò a collaborare con una web radio (1).

Ma torniamo alla nostra vita chiusi in casa. Mettiamola in ordine. Io e Cri abbiamo “scoperto” che, uscendo la mattina e tornando solo la sera, casa è incasinata. Morale: è da tre settimane che spostiamo roba, buttiamo borse e buste di plastica, mettiamo altra roba in lavatrice e inscatoliamo soprammobili, ritroviamo collane, cravatte, foto, distintivi, ricette mediche. Ogni giorno si lavano bagno e cucina, si innaffiano piante e si levano foglie secche. La metà di quello che sta nelle case è ripetitivo o non serve a niente. Purtroppo le case sono strutturate in modo irrazionale, almeno in alcune parti: angoli morti e mobili con zampe basse son solo trappole per la polvere; sotto i cuscini il divano cela telecomandi per televisore, telefoni viva voce, penne biro e libri tascabili. In compenso dentro armadi e cassetti ritrovo cavi di prolunga, chiodi e viti, barattoli di vetro vuoti e quant’altro “potrebbe servire”: in tempi normali è l’anticamera del barbonismo, ma non potendo uscire tutto è utile; in più realizziamo la quantità e varietà di detersivi e detergenti che la parossistica colf ci ha fatto ricomprare ogni settimana. Tocca poi ai flaconi di shampoo, ai medicinali scaduti, ai dopobarba svaniti, agli alimenti dimenticati nel frigorifero, ai verbali del condominio di due anni fa… e così via. Per poi passare a borse, scarpe e vestiti. Un capitolo a parte meritano i capi di vestiario militari o compatibili: prima o poi sparirebbero se non riuscissi a convincere mia moglie che gli ho trovato posto, il che naturalmente non è vero.

Da ragazzino – intendo fino a dieci anni – stavo spesso a casa, come tanti altri. La mattina a scuola, ma il pomeriggio a casa. Di giocare a pallone per strada non se ne parlava, eravamo borghesi. Quindi, fatti i compiti, molto modellismo Airfix e letture di ogni tipo, più i giochi insieme ai miei fratelli: Meccano, Lego, soldatini e giochi da tavolo, forse oggi rivalutati. In più il teatrino dei burattini – ma mia sorella aveva il Pollock’s Toy Theatre, un teatrino inglese con figure in cartoncino che ancora è in commercio (2). E sentivo molto la radio, visto che il televisore è entrato a casa nostra quando ormai avevo quindici anni. Mia madre fu chiamata dalla maestra che le disse “suo figlio è un bugiardo”. Nel tema sui programmi preferiti avevo infatti scritto che nulla avevo da dire perché a casa nostra il televisore non lo avevamo proprio, e questo negli anni del boom era impossibile. In compenso, a casa nostra siamo cresciuti in piena autonomia di pensiero.

Uscire per fare la spesa sembra un film di Tarkovskij: strade deserte, macchine ferme, pochi sopravvissuti al disastro di Chernobyl, tutti attrezzati con mascherine, sciarpe e occhiali scuri. Come gli asiatici, ormai ci si saluta solo con un inchino e abbiamo capito perché. Nei negozi c’è la fila come nella Jugoslavia di Tito; si entra uno per uno, mentre passa qualcuno che porta il cane a pisciare per la dodicesima volta. Si ricontrolla il modulo di autocertificazione, giunto già alla quarta edizione in due settimane. Passa un autobus che trasporta aria e nel frattempo vediamo uscire un cliente con cinquanta rotoli di carta igienica e litri d’acqua, mentre la lista della spesa noi l’abbiamo dimenticata a casa. Una volta entrati, fa un certo effetto vedere alcuni scaffali vuoti. Penuria? In realtà la logistica della filiera alimentare è regolare, ma la gente compra tutto a carrello pieno. I supermercati e negozi di quartiere sono forse le uniche imprese che guadagnano più di prima. Per gli altri saranno mesi molto duri: niente clienti ma l’affitto corre e i lavoranti saranno mandati a casa. Dopo la pandemia la carestia. Alla faccia dell’estetica: le città italiane  – stupende ma vuote – ricorderanno pure le foto di Alinari e hanno sicuramente il loro fascino, ma con negozi, uffici, ristoranti e alberghi chiusi sono città morte. Perlomeno un mio amico cineasta ne ha subito approfittato per girare un incisivo cortometraggio, che consiglio a tutti:

In mancanza di un pianoforte (mentre mia suocera ne ha due), altra attività quotidiana è la lettura. In molte case è impossibile concentrarsi, e anche per questo esistono le biblioteche pubbliche. Casa nostra è invece adatta per leggere, scrivere e studiare: abbastanza grande e silenziosa, piena di libri ma senza bambini, con vicini educati e cantieri fermi. E’ anche il momento di ricomporre le collezioni e dedicarsi a un hobby arretrato. Un bel tavolo napoletano d’antiquariato è diventato lo smart office, ma nel tempo libero (!) anche le affollate foto scattate a inizio marzo sembrano appartenere a un’altra epoca. Si riprendono i contatti con amici, parenti, compagni di scuola e di naja e persone che non chiamavamo da mesi. Si cerca di interpretare i comunicati del Governo, lunghi e prolissi, che rimandano ad almeno altri dieci tra leggi e comunicati precedenti, come se a casa avessimo uno studio legale. Ricordo invece le poche, scarne regole che Churchill fissò nel 1940 per la stesura dei documenti e che anche oggi dovrebbero esser rese obbligatorie: la materia va divisa in scarni paragrafi puntati; analisi dettagliate e statistiche vadano in allegato; si presenti solo un promemoria con  intestazioni, da espandere a parte o verbalmente; evitare giri di frase inutili e dire le cose con poche parole, prese anche dalla comune lingua parlata. Questo intervento s’intitolava molto  opportunamente “Brevity” (3).

* Abbiamo anche tempo per meditare, per pregare. In fondo si viveva così d’inverno in un villaggio in montagna. Non si poteva uscire né fare i lavori agricoli, a parte la cura del bestiame. I social erano le osterie, le birrerie e i pub, oppure la parrocchia. In val Gardena tutta la famiglia d’inverno si dava alla lavorazione creativa del legno, in campagna la sera si raccontavano storie, e sicuramente Omero aveva più da spartire con loro che con noi. La mia famiglia non ha comunque origini contadine, quindi sull’argomento non ho nulla da dire. Ricordo invece quando mia madre mi parlava del coprifuoco nella Roma occupata dai Tedeschi, del razionamento e della fila davanti ai negozi. Papà ogni tanto citava “er beciainigung” (= Bescheinigung, il lasciapassare rilasciato dalle autorità militari tedesche) che aveva indosso come Guardia Palatina di Sua Santità e che ho pure ritrovato tra le sue carte. Ma sono ricordi scarsi, visto che della guerra a casa mia si parlava poco: piuttosto ero io, per i miei interessi storici, a sollecitare la loro memoria. E fu così che nonno mi affidò in vita le foto e i diari di guerra, che a suo tempo ho fatto anche pubblicare (4). E se continua così, di libri ne scriverò altri.


NOTE:
(1) https://www.bibliolorenzolodi.it/radio-giano/
(2) https://www.pollocks-coventgarden.co.uk/categories/toy-theatres/
(3) http://executivesummary.it/siate-brevi-please/
(4) Soldati e cannoni : diario e fotografie di un ufficiale di artiglieria / a cura di Enrico Acerbi e Marco Pasquali . 1996

Viaggi spaziali made in Italy

Da grande appassionato della fantascienza quale sono, da anni aspetto un romanzo “stellare” che mi convinca e per stellare intendo proprio ambientato tra le stelle.

Avevo provato anni fa con la “Trilogia della Fondazione” di Asimov che, per quanto bello, aveva ben poco di spaziale, lasciando così il mio desiderio inesaudito.

Capita poi di leggere tra le nuove uscite questo libro, il cui titolo è bastato per suscitare il mio interesse: “Universum. Cronache dei pianeti ribelli”, opera prima dell’autore cento per cento italiano Giorgio Costa.

La scelta è stata ben ripagata da una storia scorrevole e ben costruita, che va a sfiorare l’immaginario collettivo di questo tipo di fantascienza condizionato dal cinema senza però ricalcarne troppo le immagini.

E’ interessante il nuovo concetto di viaggio spaziale ideato dall’autore, che segue delle regole ben precise, dove oltre all’abilità dell’equipaggio nel manovrare enormi astronavi vi sono anche altri fattori che ne condizionano la direzione e la rotta, un concetto questo ribadito a più riprese in modo da mettere il lettore nell’ottica di comprenderlo a piccole dosi. Così come interessante è la struttura “politica” su cui si basa l’impero di Universum e i personaggi che ne fanno parte.

Un ulteriore punto a favore si trova nelle razze aliene che si incontrano nel corso della storia, poche ma sufficienti a dare l’idea dell’ambientazione in cui tutto si svolge.

Il protagonista principale è Tom Rivert, un giovane ragazzo dal carattere forte che dovrà fare i conti con una forza di gran lunga superiore alla sua: un impero praticamente. A lui si affiancano numerosi comprimari che lo accompagnano nella sua battaglia ricca di colpi di scena, non tutti purtroppo a lieto fine.

Se proprio vogliamo trovare qualche difetto in quest’opera dobbiamo per forza arrivare al finale, forse un po’ affrettato e che lascia aperti molti interrogativi che si trasformano in chiari indizi per un seguito a cui non manca di certo il materiale per vedere la luce in futuro.

Non nego che inizialmente mi aspettavo un romanzo diretto ad un pubblico più giovane, come forse doveva effettivamente essere; nel corso della lettura, però, questa idea è cambiata radicalmente trovando una storia matura e mai banale, adatta a tutti gli amanti del genere senza distinzione di età che va a solleticare i ricordi di storie viste in tv e al cinema, creando però ambientazioni, personaggi e idee più moderne che non fanno storcere il naso a lettura conclusa.

L’esordio di Giorgio Costa è senza dubbio positivo, lo attendiamo ora alla prova del nove nel caso in cui da questo romanzo nascerà realmente una saga, se Mondadori ha creduto in lui non ci resta che farlo anche noi.


Titolo: Universum. Cronache dei pianeti ribelli
Autore: Giorgio Costa
Editore: Mondadori (collana Chrysalide), 2019, pp. 348
Prezzo: € 19,00

EAN: 9788804713302

Disponibile anche in ebook


CinemaVirus

In questo momento le sale cinematografiche sono vuote per paura del Coronavirus, ma di film con epidemie è piena la storia del cinema. Scarto però in anticipo le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso illustrano, non interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in scena, sfruttando le enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel ricostruire ambienti e scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino Visconti (1971) o ancora de L’amore ai tempi del colera (2007). Detto questo, quali sono i soggetti originali per una rassegna di cinema “epidemico” ? Sono per la maggior parte film di fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove virus e batteri sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. La gente andava a vedere L’ultimo uomo sulla TerraThe Omega Man, che ha visto ben tre adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954 da Richard Matheson col titolo Io sono leggenda (1954), narra di un’epidemia causata da un batterio che trasforma tutti gli umani in vampiri. Il solito meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è Robert Neville, che si barrica e si difende a modo suo. Una curiosità: la prima versione fu girata all’EUR. Ma parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato George Romero: La città verrà distrutta all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in questione, è stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli abitanti diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in attesa che lo sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang Petersen. Il virus nasce in Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce gli Stati Uniti si reagisce con energia (più chiaro di così..) e parte la caccia per rintracciare la “scimmia zero” da cui è partita l’infezione e così produrre il vaccino. E sempre le scimmie le rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry Gilliam (1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe dopo la pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willis) nel 1995, a pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga e riferisca. Nel film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due anni dopo esce Il Quinto Elemento di Luc Besson e ricompare proprio il nostro Bruce Willis, stavolta nell’impresa di salvare il mondo dal Male Supremo, evocato da uno sconsiderato scavo archeologico. Il film è intricato e mischia anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al genere catastrofico, dove l’elemento di base è che la minaccia letale per gli umani proviene sempre da fuori. Andiamo avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28 giorni dopo (2003), di Danny Boyle, dove stavolta il virus è stato creato in laboratorio e sperimentato su scimpanzé che scappano in giro (ancora scimmie, ma che fantasia!). Manco a farlo apposta, in quell’anno scoppiò l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh, vero uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema respiratorio e si trasmette velocemente con una stretta di mano…

Cosa resta allora che non sia film di genere? Beh, nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957) siamo in piena epidemia di peste nera, tant’è che il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo meno schematico. In Orfeo negro (1959) di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria due film che ci proiettarono a scuola, alle elementari. Il primo era avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il vaccino contro la difterite. Non ricordo il titolo, ma ho scoperto che Balto, uno dei leggendari husky della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento al Central Park di New York. L’altro era un tetro film giapponese del dopoguerra: Una lettera per Tezuò. Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e giuro che ancora mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa convincermi a cambiare idea sui vaccini.

Mi piace però concludere in modo ancor più indiretto: con un film ungherese che di epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982, ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa significa il rallentamento della vita sociale urbana dovuto a un traumatico evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.

Un marchigiano a Roma: Una mostra da visitare sul Web

Un tempo correva il detto “meglio un morto in casa che un marchigiano fuori della porta”, era l’espressione della forte avversione dei romani nei riguardi degli esattori delle tasse che Papa Sisto V, marchigiano, aveva scelto tra i suoi corregionali. Ma ormai sono passati secoli ed ora Roma festeggia un marchigiano illustre, Raffaello Sanzio, ospitando, nei suggestivi spazi delle Scuderie del Quirinale, una imponente mostra sull’artista.

Raffaello nacque ad Urbino nel 1483, figlio di Giovanni Santi pittore, scrittore, poeta, intellettuale di valore inserito nell’ambiente umanistico della corte dei Montefeltro signori di Urbino. Raffaello iniziò il suo apprendistato presso il padre, e dopo la sua morte nel 1494, il giovanissimo artista continuò a frequentare la bottega paterna e successivamente fu a lungo con il Perugino. Insieme con Evangelista di Piero di Meleto lavorò a Città di Castello decorando uno stendardo con la Santissima Trinità, passò poi a Perugia dipingendo la “Pala Colonna “ e la “Pala Oddi”; si spostò a Siena collaborando con il Pinturicchio negli affreschi della Libreria Piccolomini e a Firenze dove dipinse lo “Sposalizio della Vergine” ed ebbe i primi rapporti con la pittura di Leonardo da Vinci.

La fama raggiunta lo portò a lavorare in varie città dell’Italia Centrale finché Papa Giulio II Della Rovere lo chiamò a Roma per affrescare le Stanze dell’Appartamento Papale; contemporaneamente dipinse nel 1507 la famosa “Pala Baglioni” e il noto ritratto di Giulio II. Ebbe ottimi rapporti con il nuovo Papa Leone X Medici che gli affidò numerose commissioni e lo nominò Sovrintendente ai lavori architettonici della Basilica Vaticana e alle antichità archeologiche di Roma verso le quali Raffaello aveva un particolare interesse. Fu amico di Agostino Chigi all’epoca il più noto e ricco banchiere, mercante e imprenditore dell’intero mondo occidentale, che aveva fatto costruire dall’architetto Baldassarre Peruzzi una fastosa villa extraurbana, ora nota coma “la Farnesina” dal nome dei successivi proprietari, e Raffaello vi affrescò il “Trionfo di Galatea” e, con i suoi aiuti, la “ Loggia di Psiche”. Dipinse la “Fornarina “, forse una sua amante, e per vari committenti la “Madonna di Foligno”, la “Madonna Sistina, l’”Estasi di S. Cecilia”, la “Madonna della Seggiola”; per il Papa preparò i cartoni degli arazzi della Cappella Sistina tessuti poi nelle Fiandre e come architetto si occupò dei progetti di Villa Madama, Palazzo Braconio dell’Aquila e Palazzo Alberini. Affrescò, con i collaboratori, le Logge Vaticane e nel 1516 iniziò a dipingere la “Trasfigurazione” rimasta incompiuta.

Morì improvvisamente il 4 aprile 1520, Venerdì Santo, e come da suo desiderio fu sepolto nel Pantheon; una settimana dopo morì il suo grande amico e mecenate Agostino Chigi. La sua morte gettò nella costernazione l’intero mondo artistico ed intellettuale dell’epoca in quanto Raffaello era stimato e apprezzato dagli uomini ed adorato dalle donne che l’artista frequentava con un impegno sovente eccessivo come maliziosamente citato dalle fonti contemporanee. Il “Divino Pittore” era affabile e di buon carattere, ben diverso dallo scontroso Michelangelo, frequentava la corte pontificia e le famiglie nobili apprezzato per le sue qualità, la cultura e le buone maniere. Aveva organizzato una fiorente bottega con aiutanti di gran valore il che gli permetteva di produrre opere in gran numero e di ottima qualità; i suoi principali collaboratori furono Giovanni Penni, Perin del Vaga, Giulio Romano, Giovanni da Udine, l’incisore Marcantonio Raimondi e lo scultore Lorenzetto tutti destinati in futuro a buona fama.

La mostra è stata organizzata per ricordare i 500 anni trascorsi dalla morte dell’artista ed espone circa 200 opere delle quali 120 assegnate alla mano dell’Urbinate; i quadri sono poco più di una ventina il resto sono disegni e bozzetti, purtroppo la parte più grandiosa di quanto prodotto dalla bottega di Raffaello è costituita da affreschi per loro natura inamovibili; il resto di quanto esposto è costituito da reperti archeologici, incisioni, disegni, riproduzioni di altri artisti per far comprendere quale fosse il mondo artistico dell’epoca. La mostra è articolata in maniera singolare, si svolge in ordine cronologico al contrario partendo dalla morte di Raffaello risalendo poi fino agli esordi; anche nel titolo della mostra le date di nascita e morte sono invertite 1520-1483.

La mostra, coerentemente, si apre con la riproduzione, a grandezza reale, della tomba sovrastata dalla Madonna scolpita da Lorenzetto e prosegue esibendo un autoritratto di Raffaello sulla trentina, con una inconsueta barba, e i dipinti di due suoi grandi amici gli intellettuali umanisti Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione; il ritratto di un altro amico, Fedra Inghirami, è al piano superiore. In una bacheca è esposta una lunga lettera, di pugno del pittore e conservata all’Archivio di Stato di Mantova, nella quale Raffaello, coadiuvato da Baldassarre Castiglione, scriveva a Papa Leone X lamentando l’incuria nella quale erano tenute le antichità romane. Il Papa accolse la proposta e Raffaello divenne il sovraintendente alla curatela delle antichità archeologiche che amava intensamente e che erano per lui fonte inesauribile di ispirazione.

Una sala espone due arazzi, tessuti nelle Fiandre, predisposti per la decorazione della Cappella Sistina ed ora nei Musei Vaticani; Raffaello ne dipinse i cartoni; i 7 rimasti sono ora in Inghilterra ed in mostra è esposta la riproduzione di uno di essi, a grandezza naturale, posta di fronte al corrispondente arazzo vaticano. Il piano superiore accoglie i visitatori con tre ritratti di donne: una sconosciuta, opera giovanile, e due notissime, la “Fornarina” e la “Velata”.

Altre sale esaminano le attività dell’Urbinate in campo architettonico con molti suoi disegni per progetti per la Basilica di San Pietro e per la Villa Madama, su una parete spicca la riproduzione della facciata del non più esistente Palazzo Braconio dell’Aquila in Borgo. In altre sale diverse Madonne tra cui quelle “della Rosa”, “dell’Impannata” e “Tempi “corredate da numerosi interessanti disegni preparatori. Con i vivaci toni rossi delle vesti spiccano i ritratti di Papa Giulio II e di Leone X; la grande tela dell’“Estasi di Santa Cecilia” è posta a confronto con un busto di Iside che condivide con la Santa la singolare acconciatura dei capelli. Le ultime sale espongono dipinti giovanili ancora legati allo stile dei pittori dell’ultimo ‘400 e prima dell’incontro con l’innovativa arte di Leonardo.

La mostra si chiude con il famosissimo autoritratto di Raffaello all’età di circa venti anni fiancheggiato dal quadro della “Dama con l’Unicorno”.e dalle immagini di due giovani nobiluomini purtroppo anonimi La mostra è piacevole, interessante, scientificamente valida, unico piccolo neo, come accade sovente, i cartellini esplicativi sono spesso poco leggibili.

Accanto all’esposizione delle opere sono previste numerose iniziative quali lezioni, incontri, conferenze, laboratori.


Raffaello.1520-1483: Una passeggiata in mostra
Una visita virtuale per superare le ristrettezze sociali imposte dalla situazione pandemica


Raffaello 1520-1483
Dal 5 marzo al 2 giugno 2020
Proroga dal 2 giugno al 30 agosto 2020

Scuderie del Quirinale
Roma