Le città, con il Coronavirus, hanno
svelato una nuova dimensione difficilmente paragonabile a quella vissuta negli
anni ’70 con la crisi energetica o le lontane permanenze ferragostane di una
metropoli deserta.
Non si tratta di un vigoroso
ridimensionamento del traffico stradale o di una presenza pedonale limitata
all’essenziale, ma di corpi trasformati in immagini; quello che conoscevamo ha
acquisito una nuova presenza, nel tempo che Freud definiva del perturbante, il
familiare che si trasforma in estraneo e l’assente che diventa quotidiano.
Cittadini che riscoprono la pazienza e
l’educazione di affrontare le file per l’acquisto di alimentari e farmaci, per
accedere ai servizi postali e bancari, per una riparazione informatica o
nell’acquistare materiale da bricolage e sistemare ciò che l’abitazione
attendeva da tempo.
Un periodo sospeso nel tempo da
utilizzare per le riparazioni casalinghe da tempo rimandate o un libro che
attendeva di essere letto, scoprire la cultura su internet visitando musei o
ascoltare musica, guardare film e documentari, sfogliare o gustarsi un romanzo
letto con patos.
La società si comprime sui singoli
individui, per celebrazioni comunitarie di balconi plaudenti, canterini, in una
lontananza che avvicina le persone nell’affrontare un diverso stile di vita che
abbatte il consumismo dello spreco, abbracciare l’oculatezza dell’acquisto,
dopo un primo momento di panico esternato in acquisti compulsivi da carta
igienica e scatolame vario.
File educate di persone con una bassa
conoscenza della geometria che sceglie alla linea retta quella a zig-zag o
quella sinuosa della serpentina, ponendo i pedoni interessati ad andare oltre
lo scendere dal marciapiede o affrontare calcoli algebrici per non entrare in
collisione negli spazi altrui.
La speranza è che al termine di questa
vicissitudine le persone possano aver acquisito l’educazione necessaria per
convivere con le altre persone.
Il rumore delle città ritornerà a
coprire il cinguettio e in quel momento è augurabile che persone, al termine
della pandemica reclusione, possano aver fatto tesoro dell’esperienza, per un
oculato stile di vita e di rapporto con gli altri.
Il Coronavirus come un corso di
rieducazione per il rispetto del prossimo, senza dare in escandescenze,
nell’uso dei mezzi di trasporto privati per brevi distanze. Le ipotesi di come
sarà il dopo comprende anche scenari di una diseguaglianza accentuata e di un
accentuato conflitto sociale.
Cosa dire in questo periodo surreale,
con Roma vuota e tutti reclusi ai domiciliari? Cosa fare ogni giorno col
coprifuoco di 24 ore? A quali ricordi fare riferimento per affrontare una
situazione mai vista se non in tempo di guerra? Come convivere serenamente con
chi altrimenti vedevi poche ore al giorno? E quando finirà una situazione che
pareva breve? Ogni giorno prendo appunti e come tutti gli altri cerco di
capirci qualcosa, di dare un senso a questa reclusione. Non sono originale,
però vivo come tutti una strana situazione che mai avrei immaginato possibile;
da qui il bisogno di mettere nero su bianco la quotidiana esclusione dallo
spazio sociale. Ma dopo venti giorni al telefono ci diciamo tutti più o meno le
stesse cose, cioè poco, visto che poco possiamo fare. Chi ha figli può
approfittarne per avere con loro un dialogo, un rapporto più stretto; ma noi
siamo solo in due e la giornata è lunga, molto lunga. Cristina per fortuna ora
può lavorare da casa e lo fa con entusiasmo, per ore. E’ una bibliotecaria come
lo sono stato io, quindi spesso collaboro con lei nella revisione delle schede
di catalogo. Tutto in linea, ovvio. Ieri sera invece mi sono collegato via
Skype con un’associazione, e con mia sorpresa il collegamento funzionava bene.
Oggi invece è domenica e la rete è sovraccarica e ricorda i collegamenti di
vent’anni fa. Ma sia chiaro: vivo quello che vivono tutti, a Roma la situazione
è ancora sotto controllo e io non sono in prima linea come medici, infermieri e
volontari. Seguo ogni giorno le notizie e mi chiedo come mai abbiamo oggi più
morti dei cinesi (se non hanno barato: ieri sera abbiamo visto tanti, troppi
pallets con imballate le urne cinerarie da restituire ai parenti); telefono
ogni tanto agli amici del nord e mi rimangono indelebili sia le immagini dei
camion militari che portano via le bare che quelle di Papa Francesco che da
solo predica in mezzo a piazza san Pietro totalmente vuota, vera Lux in
tenebris.
Ma come si svolge la vita quotidiana?
Primo consiglio: di questi tempi è meglio la radio. Ogni giorno, su tutti i
canali tv e a tutte le ore non solo si parla soltanto di Coronavirus, ma ne
parlano anche persone in cerca di visibilità quanto prive di competenza, e il
bollettino di guerra della Protezione Civile da solo non dice tutto. Ma
l’epidemia di fatto monopolizza l’informazione, al punto che nulla più sappiamo
dell’assedio di Tripoli, dei combattimenti in Siria, dei migranti che premono
sui confini greci o dei barconi pronti a partire dalle coste nordafricane;
forse aspettano che finisca l’epidemia per riprendere le consuete attività.
Oppure, i nostri giornalisti hanno sviluppato una sorta di monocultura che
esclude tutto il resto.
Qualcuno si è scagliato con violenza
contro le metafore di guerra che stanno saturando il vissuto quotidiano e il
suo immaginario. Non abbiamo il diritto di paragonare tre settimane sbracati
sul divano con quello che patiscono in questo momento i siriani assediati o con
gli anni di guerra vera vissuti dai nostri genitori e dai nostri nonni. Per
salvare l’Italia nessuno ci ha ancora mandato al fronte e i soldati ora
impegnati nell’emergenza sono tutti professionisti. Anche se c’è fila, i generi
alimentari non sono razionati e ognuno compra quello che può. Non siamo esposti
a bombardamenti e in ogni momento possiamo comunicare liberamente con tutti e
ascoltare informazione senza apparente censura. Abbiamo tecnologie che ci
permettono di lavorare da casa e restare in contatto con tutto e tutti. Le
limitazioni alla nostra libertà individuale sono temporanee e almeno per ora
non c’è pericolo immediato di un’involuzione autoritaria delle istituzioni.
Strana guerra poi: identificato il nemico, sgombriamo il terreno invece di
occuparlo. Eppure le metafore belliche saturano il nostro immaginario e
informano il linguaggio dei politici, degli esperti, dei giornalisti, più
quello dei presenzialisti da strapazzo che la tv invita ogni momento in studio
o in video chat. Il motivo è semplice: esse hanno facile presa su una società
che non conosce più privazioni e ha quindi perso il senso della realtà.
Sicuramente la doccia fredda nessuno se l’aspettava e le conseguenze le
pagheremo per anni, e non solo economiche. In più già si registra una fioritura
di testi apocalittici e moralistici, con il supporto dei presunti complotti
diffusi via social.
Ma parliamo di noi. La cosa più
importante: organizzare la giornata. Uno deve darsi un programma, una
disciplina. Come insegna il servizio militare, se la struttura è improduttiva
bisogna imporle precisi rituali quotidiani. In famiglia non sempre funziona,
nel senso che, convivendo h24 da venti giorni, non sempre tutto procede secondo
tabella e se c’è un periodo in cui viene messa alla prova la tenuta della
coppia, è proprio questo. Fra qualche mese è scontato che aumenteranno le separazioni
e/o i neonati. Molti negozi e alberghi falliranno, ma non gli avvocati e le
ostetriche.
Regola due: curare l’igiene personale e
il proprio corpo, radersi, mettersi sempre in camicia e cravatta. Questo non
solo per mostrare un’immagine decente di se stessi quando ti chiamano via Skype
o in videochiamata WhatSapp, ma per mantenere un tono. Ricordo l’immagine di
copertina di un romanzo di Evelyn Waugh (mi pare Unconditional Surrender):
anche nel campo di prigionia l’uffiziale inglese mantiene la sua dignità, anche
se la sua divisa è ridotta a stracci. Niente di peggio che rimanere tutta la
giornata in pigiama: di sicuro quello è il sistema migliore per non combinare
niente.
Altra regola, guardare la televisione il
meno possibile: è ansiogena e invece di comunicare sicurezza riesce a scatenare
l’effetto contrario. Un solo argomento occupa tutti i canali a tutte le ore,
con la continua presenza di presenzialisti ed esperti che spesso tali non sono.
E’ una comunicazione sbagliata. Un mio amico invece mi manda ogni giorno il
numero dei bambini nati: almeno è un segnale di vita. Meglio a questo punto la
radio: più variata, priva di censura. La radio poi riempie il silenzio della
casa nei momenti più noiosi. Personalmente sono da sempre un affezionato radioascoltatore
e anche un po’ radioamatore, visto che ogni tanto una radio me la sono anche
fabbricata da solo con materiali di fortuna, come nei campi di prigionia.
Lavorare alla radio è il mio sogno e presto inizierò a collaborare con una web
radio (1).
Ma torniamo alla nostra vita chiusi in
casa. Mettiamola in ordine. Io e Cri abbiamo “scoperto” che, uscendo la mattina
e tornando solo la sera, casa è incasinata. Morale: è da tre settimane che
spostiamo roba, buttiamo borse e buste di plastica, mettiamo altra roba in
lavatrice e inscatoliamo soprammobili, ritroviamo collane, cravatte, foto,
distintivi, ricette mediche. Ogni giorno si lavano bagno e cucina, si
innaffiano piante e si levano foglie secche. La metà di quello che sta nelle
case è ripetitivo o non serve a niente. Purtroppo le case sono strutturate in
modo irrazionale, almeno in alcune parti: angoli morti e mobili con zampe basse
son solo trappole per la polvere; sotto i cuscini il divano cela telecomandi
per televisore, telefoni viva voce, penne biro e libri tascabili. In compenso
dentro armadi e cassetti ritrovo cavi di prolunga, chiodi e viti, barattoli di
vetro vuoti e quant’altro “potrebbe servire”: in tempi normali è l’anticamera
del barbonismo, ma non potendo uscire tutto è utile; in più realizziamo la
quantità e varietà di detersivi e detergenti che la parossistica colf ci ha
fatto ricomprare ogni settimana. Tocca poi ai flaconi di shampoo, ai medicinali
scaduti, ai dopobarba svaniti, agli alimenti dimenticati nel frigorifero, ai
verbali del condominio di due anni fa… e così via. Per poi passare a borse,
scarpe e vestiti. Un capitolo a parte meritano i capi di vestiario militari o
compatibili: prima o poi sparirebbero se non riuscissi a convincere mia moglie
che gli ho trovato posto, il che naturalmente non è vero.
Da ragazzino – intendo fino a dieci anni
– stavo spesso a casa, come tanti altri. La mattina a scuola, ma il pomeriggio
a casa. Di giocare a pallone per strada non se ne parlava, eravamo borghesi.
Quindi, fatti i compiti, molto modellismo Airfix e letture di ogni tipo, più i
giochi insieme ai miei fratelli: Meccano, Lego, soldatini e giochi da tavolo,
forse oggi rivalutati. In più il teatrino dei burattini – ma mia sorella aveva
il Pollock’s Toy Theatre, un teatrino inglese con figure in cartoncino che
ancora è in commercio (2). E sentivo molto la radio, visto che il televisore è
entrato a casa nostra quando ormai avevo quindici anni. Mia madre fu chiamata
dalla maestra che le disse “suo figlio è un bugiardo”. Nel tema sui programmi preferiti
avevo infatti scritto che nulla avevo da dire perché a casa nostra il
televisore non lo avevamo proprio, e questo negli anni del boom era
impossibile. In compenso, a casa nostra siamo cresciuti in piena autonomia di
pensiero.
Uscire per fare la spesa sembra un film
di Tarkovskij: strade deserte, macchine ferme, pochi sopravvissuti al disastro
di Chernobyl, tutti attrezzati con mascherine, sciarpe e occhiali scuri. Come
gli asiatici, ormai ci si saluta solo con un inchino e abbiamo capito perché. Nei
negozi c’è la fila come nella Jugoslavia di Tito; si entra uno per uno, mentre
passa qualcuno che porta il cane a pisciare per la dodicesima volta. Si
ricontrolla il modulo di autocertificazione, giunto già alla quarta edizione in
due settimane. Passa un autobus che trasporta aria e nel frattempo vediamo
uscire un cliente con cinquanta rotoli di carta igienica e litri d’acqua,
mentre la lista della spesa noi l’abbiamo dimenticata a casa. Una volta
entrati, fa un certo effetto vedere alcuni scaffali vuoti. Penuria? In realtà
la logistica della filiera alimentare è regolare, ma la gente compra tutto a
carrello pieno. I supermercati e negozi di quartiere sono forse le uniche
imprese che guadagnano più di prima. Per gli altri saranno mesi molto duri:
niente clienti ma l’affitto corre e i lavoranti saranno mandati a casa. Dopo la
pandemia la carestia. Alla faccia dell’estetica: le città italiane – stupende ma vuote – ricorderanno pure le
foto di Alinari e hanno sicuramente il loro fascino, ma con negozi, uffici,
ristoranti e alberghi chiusi sono città morte. Perlomeno un mio amico cineasta
ne ha subito approfittato per girare un incisivo cortometraggio, che consiglio
a tutti:
In mancanza di un pianoforte (mentre mia
suocera ne ha due), altra attività quotidiana è la lettura. In molte case è impossibile
concentrarsi, e anche per questo esistono le biblioteche pubbliche. Casa nostra
è invece adatta per leggere, scrivere e studiare: abbastanza grande e
silenziosa, piena di libri ma senza bambini, con vicini educati e cantieri
fermi. E’ anche il momento di ricomporre le collezioni e dedicarsi a un hobby
arretrato. Un bel tavolo napoletano d’antiquariato è diventato lo smart office,
ma nel tempo libero (!) anche le affollate foto scattate a inizio marzo
sembrano appartenere a un’altra epoca. Si riprendono i contatti con amici,
parenti, compagni di scuola e di naja e persone che non chiamavamo da mesi. Si
cerca di interpretare i comunicati del Governo, lunghi e prolissi, che
rimandano ad almeno altri dieci tra leggi e comunicati precedenti, come se a
casa avessimo uno studio legale. Ricordo invece le poche, scarne regole che
Churchill fissò nel 1940 per la stesura dei documenti e che anche oggi
dovrebbero esser rese obbligatorie: la materia va divisa in scarni paragrafi
puntati; analisi dettagliate e statistiche vadano in allegato; si presenti solo
un promemoria con intestazioni, da
espandere a parte o verbalmente; evitare giri di frase inutili e dire le cose
con poche parole, prese anche dalla comune lingua parlata. Questo intervento
s’intitolava molto opportunamente
“Brevity” (3).
* Abbiamo anche tempo per meditare, per pregare. In fondo si viveva così d’inverno in un villaggio in montagna. Non si poteva uscire né fare i lavori agricoli, a parte la cura del bestiame. I social erano le osterie, le birrerie e i pub, oppure la parrocchia. In val Gardena tutta la famiglia d’inverno si dava alla lavorazione creativa del legno, in campagna la sera si raccontavano storie, e sicuramente Omero aveva più da spartire con loro che con noi. La mia famiglia non ha comunque origini contadine, quindi sull’argomento non ho nulla da dire. Ricordo invece quando mia madre mi parlava del coprifuoco nella Roma occupata dai Tedeschi, del razionamento e della fila davanti ai negozi. Papà ogni tanto citava “er beciainigung” (= Bescheinigung, il lasciapassare rilasciato dalle autorità militari tedesche) che aveva indosso come Guardia Palatina di Sua Santità e che ho pure ritrovato tra le sue carte. Ma sono ricordi scarsi, visto che della guerra a casa mia si parlava poco: piuttosto ero io, per i miei interessi storici, a sollecitare la loro memoria. E fu così che nonno mi affidò in vita le foto e i diari di guerra, che a suo tempo ho fatto anche pubblicare (4). E se continua così, di libri ne scriverò altri.
NOTE:
(1) https://www.bibliolorenzolodi.it/radio-giano/
(2) https://www.pollocks-coventgarden.co.uk/categories/toy-theatres/
(3) http://executivesummary.it/siate-brevi-please/
(4) Soldati e cannoni : diario e fotografie di un ufficiale di artiglieria / a cura di Enrico Acerbi e Marco Pasquali . 1996
Da grande appassionato della
fantascienza quale sono, da anni aspetto un romanzo “stellare” che mi convinca
e per stellare intendo proprio ambientato tra le stelle.
Avevo provato anni fa con la
“Trilogia della Fondazione” di Asimov che, per quanto bello, aveva ben poco di
spaziale, lasciando così il mio desiderio inesaudito.
Capita poi di leggere tra le
nuove uscite questo libro, il cui titolo è bastato per suscitare il mio
interesse: “Universum. Cronache dei pianeti ribelli”, opera prima dell’autore
cento per cento italiano Giorgio Costa.
La scelta è stata ben ripagata da
una storia scorrevole e ben costruita, che va a sfiorare l’immaginario
collettivo di questo tipo di fantascienza condizionato dal cinema senza però
ricalcarne troppo le immagini.
E’ interessante il nuovo concetto
di viaggio spaziale ideato dall’autore, che segue delle regole ben precise,
dove oltre all’abilità dell’equipaggio nel manovrare enormi astronavi vi sono
anche altri fattori che ne condizionano la direzione e la rotta, un concetto
questo ribadito a più riprese in modo da mettere il lettore nell’ottica di
comprenderlo a piccole dosi. Così come interessante è la struttura “politica”
su cui si basa l’impero di Universum e i personaggi che ne fanno parte.
Un ulteriore punto a favore si
trova nelle razze aliene che si incontrano nel corso della storia, poche ma
sufficienti a dare l’idea dell’ambientazione in cui tutto si svolge.
Il protagonista principale è Tom
Rivert, un giovane ragazzo dal carattere forte che dovrà fare i conti con una
forza di gran lunga superiore alla sua: un impero praticamente. A lui si
affiancano numerosi comprimari che lo accompagnano nella sua battaglia ricca di
colpi di scena, non tutti purtroppo a lieto fine.
Se proprio vogliamo trovare
qualche difetto in quest’opera dobbiamo per forza arrivare al finale, forse un
po’ affrettato e che lascia aperti molti interrogativi che si trasformano in
chiari indizi per un seguito a cui non manca di certo il materiale per vedere
la luce in futuro.
Non nego che inizialmente mi
aspettavo un romanzo diretto ad un pubblico più giovane, come forse doveva
effettivamente essere; nel corso della lettura, però, questa idea è cambiata
radicalmente trovando una storia matura e mai banale, adatta a tutti gli amanti
del genere senza distinzione di età che va a solleticare i ricordi di storie
viste in tv e al cinema, creando però ambientazioni, personaggi e idee più
moderne che non fanno storcere il naso a lettura conclusa.
L’esordio di Giorgio Costa è senza dubbio positivo, lo attendiamo ora alla prova del nove nel caso in cui da questo romanzo nascerà realmente una saga, se Mondadori ha creduto in lui non ci resta che farlo anche noi.
Titolo: Universum. Cronache dei pianeti ribelli
Autore: Giorgio Costa
Editore: Mondadori (collana Chrysalide), 2019, pp. 348
Prezzo: € 19,00
In
questo momento le sale cinematografiche sono vuote per paura del Coronavirus,
ma di film con epidemie è piena la storia del cinema. Scarto però in anticipo
le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso illustrano, non
interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in scena, sfruttando le
enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel ricostruire ambienti e
scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino Visconti
(1971) o ancora de L’amore ai tempi del
colera (2007). Detto questo, quali sono i soggetti originali per una
rassegna di cinema “epidemico” ? Sono per la maggior parte film di
fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove virus e batteri
sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. La gente andava a vedere L’ultimo uomo sulla Terra – The Omega Man, che ha visto ben tre
adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954 da Richard
Matheson col titolo Io sono leggenda
(1954), narra di un’epidemia causata da un batterio che trasforma tutti gli
umani in vampiri. Il solito meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è
Robert Neville, che si barrica e si difende a modo suo. Una curiosità: la prima
versione fu girata all’EUR. Ma parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato
George Romero: La città verrà distrutta
all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in questione, è
stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli abitanti
diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in attesa che lo
sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang
Petersen. Il virus nasce in Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce
gli Stati Uniti si reagisce con energia (più chiaro di così..) e parte la
caccia per rintracciare la “scimmia zero” da cui è partita l’infezione e così
produrre il vaccino. E sempre le scimmie le rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry Gilliam
(1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe dopo la
pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willis) nel 1995, a
pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga e riferisca. Nel
film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due anni
dopo esce Il Quinto Elemento di Luc
Besson e ricompare proprio il nostro Bruce Willis, stavolta nell’impresa di
salvare il mondo dal Male Supremo, evocato da uno sconsiderato scavo archeologico.
Il film è intricato e mischia anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al
genere catastrofico, dove l’elemento di base è che la minaccia letale per gli
umani proviene sempre da fuori. Andiamo avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi
ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare
loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28 giorni dopo (2003), di Danny Boyle,
dove stavolta il virus è stato creato in laboratorio e sperimentato su
scimpanzé che scappano in giro (ancora scimmie, ma che fantasia!). Manco a
farlo apposta, in quell’anno scoppiò l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh,
vero uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema
respiratorio e si trasmette velocemente con una stretta di mano…
Cosa
resta allora che non sia film di genere? Beh, nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957) siamo in piena epidemia di
peste nera, tant’è che il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con
la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo
meno schematico. In Orfeo negro (1959)
di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto
dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più
stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria
due film che ci proiettarono a scuola, alle elementari. Il primo era
avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre
nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il vaccino contro la
difterite. Non ricordo il titolo, ma ho scoperto che Balto, uno dei leggendari
husky della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento
al Central Park di New York. L’altro era un tetro film giapponese del
dopoguerra: Una lettera per Tezuò.
Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e giuro che ancora
mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è
cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa
convincermi a cambiare idea sui vaccini.
Mi
piace però concludere in modo ancor più indiretto: con un film ungherese che di
epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982,
ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa
significa il rallentamento della vita sociale urbana dovuto a un traumatico
evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine
della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.
Un
tempo correva il detto “meglio un morto in casa che un marchigiano fuori della
porta”, era l’espressione della forte avversione dei romani nei riguardi degli
esattori delle tasse che Papa Sisto V, marchigiano, aveva scelto tra i suoi
corregionali. Ma ormai sono passati secoli ed ora Roma festeggia un marchigiano
illustre, Raffaello Sanzio, ospitando, nei suggestivi spazi delle Scuderie del
Quirinale, una imponente mostra sull’artista.
Raffaello
nacque ad Urbino nel 1483, figlio di Giovanni Santi pittore, scrittore, poeta,
intellettuale di valore inserito nell’ambiente umanistico della corte dei
Montefeltro signori di Urbino. Raffaello iniziò il suo apprendistato presso il
padre, e dopo la sua morte nel 1494, il giovanissimo artista continuò a
frequentare la bottega paterna e successivamente fu a lungo con il Perugino.
Insieme con Evangelista di Piero di Meleto lavorò a Città di Castello decorando
uno stendardo con la Santissima Trinità, passò poi a Perugia dipingendo la
“Pala Colonna “ e la “Pala Oddi”; si spostò a Siena collaborando con il
Pinturicchio negli affreschi della Libreria Piccolomini e a Firenze dove
dipinse lo “Sposalizio della Vergine” ed ebbe i primi rapporti con la pittura
di Leonardo da Vinci.
La
fama raggiunta lo portò a lavorare in varie città dell’Italia Centrale finché
Papa Giulio II Della Rovere lo chiamò a Roma per affrescare le Stanze
dell’Appartamento Papale; contemporaneamente dipinse nel 1507 la famosa “Pala
Baglioni” e il noto ritratto di Giulio II. Ebbe ottimi rapporti con il nuovo
Papa Leone X Medici che gli affidò numerose commissioni e lo nominò
Sovrintendente ai lavori architettonici della Basilica Vaticana e alle
antichità archeologiche di Roma verso le quali Raffaello aveva un particolare
interesse. Fu amico di Agostino Chigi all’epoca il più noto e ricco banchiere,
mercante e imprenditore dell’intero mondo occidentale, che aveva fatto
costruire dall’architetto Baldassarre Peruzzi una fastosa villa extraurbana,
ora nota coma “la Farnesina” dal nome dei successivi proprietari, e Raffaello
vi affrescò il “Trionfo di Galatea” e, con i suoi aiuti, la “ Loggia di Psiche”.
Dipinse la “Fornarina “, forse una sua amante, e per vari committenti la
“Madonna di Foligno”, la “Madonna Sistina, l’”Estasi di S. Cecilia”, la
“Madonna della Seggiola”; per il Papa preparò i cartoni degli arazzi della
Cappella Sistina tessuti poi nelle Fiandre e come architetto si occupò dei
progetti di Villa Madama, Palazzo Braconio dell’Aquila e Palazzo Alberini.
Affrescò, con i collaboratori, le Logge Vaticane e nel 1516 iniziò a dipingere la
“Trasfigurazione” rimasta incompiuta.
Morì
improvvisamente il 4 aprile 1520, Venerdì Santo, e come da suo desiderio fu
sepolto nel Pantheon; una settimana dopo morì il suo grande amico e mecenate
Agostino Chigi. La sua morte gettò nella costernazione l’intero mondo artistico
ed intellettuale dell’epoca in quanto Raffaello era stimato e apprezzato dagli
uomini ed adorato dalle donne che l’artista frequentava con un impegno sovente
eccessivo come maliziosamente citato dalle fonti contemporanee. Il “Divino
Pittore” era affabile e di buon carattere, ben diverso dallo scontroso
Michelangelo, frequentava la corte pontificia e le famiglie nobili apprezzato
per le sue qualità, la cultura e le buone maniere. Aveva organizzato una
fiorente bottega con aiutanti di gran valore il che gli permetteva di produrre
opere in gran numero e di ottima qualità; i suoi principali collaboratori
furono Giovanni Penni, Perin del Vaga, Giulio Romano, Giovanni da Udine, l’incisore
Marcantonio Raimondi e lo scultore Lorenzetto tutti destinati in futuro a buona
fama.
La
mostra è stata organizzata per ricordare i 500 anni trascorsi dalla morte
dell’artista ed espone circa 200 opere delle quali 120 assegnate alla mano
dell’Urbinate; i quadri sono poco più di una ventina il resto sono disegni e
bozzetti, purtroppo la parte più grandiosa di quanto prodotto dalla bottega di
Raffaello è costituita da affreschi per loro natura inamovibili; il resto di
quanto esposto è costituito da reperti archeologici, incisioni, disegni,
riproduzioni di altri artisti per far comprendere quale fosse il mondo artistico
dell’epoca. La mostra è articolata in maniera singolare, si svolge in ordine
cronologico al contrario partendo dalla morte di Raffaello risalendo poi fino
agli esordi; anche nel titolo della mostra le date di nascita e morte sono
invertite 1520-1483.
La
mostra, coerentemente, si apre con la riproduzione, a grandezza reale, della
tomba sovrastata dalla Madonna scolpita da Lorenzetto e prosegue esibendo un
autoritratto di Raffaello sulla trentina, con una inconsueta barba, e i dipinti
di due suoi grandi amici gli intellettuali umanisti Pietro Bembo e Baldassarre
Castiglione; il ritratto di un altro amico, Fedra Inghirami, è al piano
superiore. In una bacheca è esposta una lunga lettera, di pugno del pittore e
conservata all’Archivio di Stato di Mantova, nella quale Raffaello, coadiuvato
da Baldassarre Castiglione, scriveva a Papa Leone X lamentando l’incuria nella
quale erano tenute le antichità romane. Il Papa accolse la proposta e Raffaello
divenne il sovraintendente alla curatela delle antichità archeologiche che
amava intensamente e che erano per lui fonte inesauribile di ispirazione.
Una
sala espone due arazzi, tessuti nelle Fiandre, predisposti per la decorazione
della Cappella Sistina ed ora nei Musei Vaticani; Raffaello ne dipinse i
cartoni; i 7 rimasti sono ora in Inghilterra ed in mostra è esposta la
riproduzione di uno di essi, a grandezza naturale, posta di fronte al
corrispondente arazzo vaticano. Il piano superiore accoglie i visitatori con
tre ritratti di donne: una sconosciuta, opera giovanile, e due notissime, la
“Fornarina” e la “Velata”.
Altre
sale esaminano le attività dell’Urbinate in campo architettonico con molti suoi
disegni per progetti per la Basilica di San Pietro e per la Villa Madama, su
una parete spicca la riproduzione della facciata del non più esistente Palazzo
Braconio dell’Aquila in Borgo. In altre sale diverse Madonne tra cui quelle
“della Rosa”, “dell’Impannata” e “Tempi “corredate da numerosi interessanti
disegni preparatori. Con i vivaci toni rossi delle vesti spiccano i ritratti di
Papa Giulio II e di Leone X; la grande tela dell’“Estasi di Santa Cecilia” è
posta a confronto con un busto di Iside che condivide con la Santa la singolare
acconciatura dei capelli. Le ultime sale espongono dipinti giovanili ancora
legati allo stile dei pittori dell’ultimo ‘400 e prima dell’incontro con
l’innovativa arte di Leonardo.
La
mostra si chiude con il famosissimo autoritratto di Raffaello all’età di circa
venti anni fiancheggiato dal quadro della “Dama con l’Unicorno”.e dalle
immagini di due giovani nobiluomini purtroppo anonimi La mostra è piacevole,
interessante, scientificamente valida, unico piccolo neo, come accade sovente,
i cartellini esplicativi sono spesso poco leggibili.
Accanto all’esposizione delle opere sono previste numerose iniziative quali lezioni, incontri, conferenze, laboratori.
Raffaello.1520-1483: Una passeggiata in mostra Una visita virtuale per superare le ristrettezze sociali imposte dalla situazione pandemica
Raffaello 1520-1483 Dal 5 marzo al 2 giugno 2020 Proroga dal 2 giugno al 30 agosto 2020
Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti