Archivi categoria: Oltre l’Occidente

Trump: Un confuso retrogrado

Con la fine del primo Millennio si erano intravisti i primi sintomi di una geopolitica fatta di alleanze variabili, ma oggi, nel secondo Millennio, stanno scomparendo gli schieramenti, anche se spesso mettevano insieme improbabili “amici”, per far posto alla variabilità dei fronti e la velocizzazione di questo processo lo si deve in gran parte all’attuale presidente statunitense.

Le iniziali scelte isolazionistiche in politica estera e quelle poste a mettere in prima fila l’interesse per la sua “America” ha reso gli Stati uniti non più sinonimo potenza autorevole e in quanto tale ascoltata, ma di una nazione inaffidabile che offre ai suoi alleati, prima che amici, le occasioni per guardarsi intorno e allacciare nuovi e inverosimili legami non solo commerciali.

Trump, in poco tempo, si è inimicato i paesi mussulmani con le sue restrizioni migratorie, a gran parte degli europei non è simpatico e col pianeta Terra ha intrapreso una guerra senza quartiere con l’ archiviazione del “Clean Power Plan”, revocando il programma di tagli alle emissioni degli impianti a carbone, spalleggiato da Scott Pruitt, responsabile dell’agenzia federale Usa dell’ambiente (Epa), nell’abbandonare gli Accordi di Parigi, mettendo in discussione le prove del cambiamento climatico.

Più che un conservatore, il presidente di quelli che erano gli Stati uniti, è un retrogrado che potrà mettere al bando i libri sull’evoluzione e mettere in discussione tutta la scienza.

Il regnante saudita si reca a Mosca, dopo aver visto Erdogan a braccetto con Putin, non solo per interessi economici derivanti dai prezzo del petrolio, ma anche per definire lo scenario siriano e decidere l’esito del conflitto in Siria, lasciando per la seconda volta Trump fuori dai giochi mediorientali.

Quello che i sauditi e i turchi non riescono a sopportare dagli Stati uniti potrebbero tollerare dai russi, acquistando sistemi d’armamento che permetteranno ad Erdogan e a re Salman di avere degli arsenali misti russo-statunitensi, per poterli studiare e mettere a confronto.

Non è ben chiaro se Trump è più contrariato dal fatto che i turchi e i sauditi acquistino i sistemi di difesa aerea S-400 russi o dal fatto che i tre paesi lavorino per far sedere al tavolo dei negoziati per rappacificarsi con la Siria, preservando l’integrità territoriale, i rappresentati governativi e un’opposizione unita.

Sta di fatto che Trump si trova in difficoltà quando con degli alleati come la Turchia, membro strategico della Nato, deve fare i conti con vedute e interessi divergenti, oltre al fatto di adottare dei sistemi difensivi differenti.

Il rapporto tra Trump e il suo entourage è un continuo contraddittorio, sottoponendosi a grotteschi e repentini voltafaccia.

Il presidente cambia opinione come le mutande, per le mutande è un augurio, per le opinioni è una sciagura, che confonde tanto quanto il suo voler cancellare ogni scelta del suo predecessore Obama e da far sospettare che sotto quella chioma non c’è poi molto.

Più che “American first” è una America sola, come il presidente davanti ai giornalisti quando i suoi ministri sono in disaccordo con le dichiarazioni di quel momento, nel voler sanzionare l’Iran per delle pretese violazioni all’accordo sul nucleare, quando la Ue e la Russia lo smentiscono.

Gli Stati uniti stanno diventando una macchietta nello scacchiere internazionale e il voler fare la voce grossa con Cuba e con l’Iran, mettendo con la prima a rischio l’apertura all’imprenditoria turistica e con la secondo la reputazione di una nazione della quale non ci si può fidare se con un presidente si firmano degli accordi e con un altro si vengono messi in discussione, anche con la Corea del nord ha difficoltà a trovare un comportamento condiviso, rendendo la Corea del sud e il Giappone sicuri con l’alleato statunitense.

Anche l’avviare le pratiche per uscire, dopo aver disconosciuto gli accordi parigini sull’ambiente, dall’Unesco, non rende Trump e il suo paese popolare.

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Africa: Una scaltra “Democrazia”

L’Africa non è solo la culla dell’umanità, ma è anche delle disuguaglianze e a ogni elezione si ha la conferma che chi ha il potere ha anche una posizione privilegiata, se ha le capacità e la volontà, per condizionare il risultato delle elezioni.

Un esempio di condizionamento riuscito, perché ideato con pazienza, è il Rwanda, dove è stato confermato, con il 98,8% dei consensi, Paul Kagame come presidente, dopo che si era prodigato nel far modificare la costituzione e cancellato il limite di due mandati presidenziali. Un impegno che ha visto premiato con la ratificazione del referendum popolare, aprendogli la strada ad altre due ricandidature che lo porterebbero a rimanere al potere almeno fino al 2027, senza escludere una presidenza a vita.

Per assicurarsi un futuro da presidente è necessario non avere opposizioni ed ecco che la polizia di Kagame arresta Diane Shima Rwigara. che agli inizi di quest’anno si era vista rifiutare la candidatura alle presidenziali, perché non avrebbe raggiunto il numero minimo di firme a suo sostegno, avendo usato documenti falsi di persone defunte.

Accuse sempre respinte da Rwigara e ora, dopo una settimana di silenzio della polizia di Kigali e della famiglia, il portavoce della polizia, sotto la pressione della stampa internazionale, accusato d’aver “trattenuto” la candidata politica su mandato del procuratore, insieme alla madre e la sorella, per essere interrogate per evasione fiscale, ma di averle lasciate libere la sera stessa.

Intanto il 60enne presidente guida per un terzo mandato il Paese che, dopo la stagione sanguinosa del genocidio tra Hutu e Tutsi nel 1994 che causò oltre 800.000 morti, controlla con il pugno di ferro.

Uno scaltro utilizzo di un sistema ritenuto “Democratico” solo perché vengono effettuate delle elezioni che non è riuscito in Kenya a Uhuru Kenyatta, il quale non dimostrandosi altrettanto accorto, “limitandosi” alla correzione dei risultati dei vari seggi che non gli è valsa, per ora, la riconferma, dovendo sottoporsi in ottobre al giudizio dell’elettorato e confrontarsi con il suo rivale Raila Odinga. La nuova chiamata alle urne si è ritenuta necessaria dopo l’annullamento decretato, dopo aver riscontrato irregolarità, dalla Corte suprema del Kenya.

Raila Odinga aveva sin da subito contestato l’esito del voto, definendo «storica per il popolo keniano e estensivamente per tutta l’Africa» la decisione della Corte suprema, fissando al 17 ottobre la nuova data per votare.

Per il Continente africano è la prima volta che dei giudici propongono di far svolgere nuovamente le elezioni presidenziali per delle irregolarità.

Nel vicino Burundi è Pierre Nkurunziza, presidente dal 2005, che, dopo essersi affermato per un terzo mandato, vuol convincere l’opposizione, più battagliera di quella del Rwanda, a farlo rimanere sino al 2020, nonostante venga ritenuta la situazione incostituzionale. Un paese carente di democrazia, come viene sottolineata nella relazione della Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH), e l’Onu ha rilevato un peggioramento della crisi umanitaria. Una situazione che ha sconfinato, sin dal 2015, nel vicino Congo, con 400mila profughi, creando difficoltà nell’accoglienza in un paese impegnato a fronteggiare già un milione di sfollati causati dal conflitto tra il governo centrale e i capi delle varie le milizie.

In Angola, con il ritiro del settantacinquenne José Eduardo dos Santos, solo apparentemente il voto sembra cambiare qualcosa. A succedere a dos Santos, presidente per gli ultimi 38 anni e promotore della legge che proibisce al suo successore di cambiare non solo i capi dell’esercito e della polizia, ma anche dei servizi di intelligence per otto anni, è João Lourenço, militante sin dagli anni Settanta del partito al potere (Movimento popolare per la liberazione dell’Angola – Mpla), per poi diventare generale dagli anni ottanta e ministro della difesa, ed esser stato eletto presidente.

Dos Santos non voleva sorprese dopo il suo ritiro, cosa che poteva avvenire se era Jennifer Lopez a succedergli, cercando di assicurarsi una vecchiaia dorata rimanendo a capo dell’Mpla, il partito tutt’ora al potere; e con la figlia Isabel (la donna più ricca dell’Africa) alla quale ha affidato la gestione della compagnia petrolifera di stato; mentre uno dei suoi figli controlla il fondo di investimento sovrano di cinque miliardi di dollari.

Con lo slogan «Si metta un limite ai mandati presidenziali» l’opposizione vuole mettere fine al monopolio della famiglia Eyadéma/Gnassingbé sulla presidenza del Togo.

Sono una cinquantina di anni che la famiglia Gnassingbé detiene il potere, prima il padre di Faure Gnassingbé, l’attuale presidente, a prendere con un golpe il potere e tenerselo con dei tira e molla per una quarantina anni, poi nel 2005 è il figlio a succedergli, rendendo il Togo, con una dittatura silenziosa, un personale feudo corrotto e povero, ma con una speranza, se i togolesi potranno vedere rispettata la Costituzione vota dal 90% dei votanti nel 1992, è il quarantasettenne Tikpi Atchadam, ma sarà difficile che si potranno effettuare dei radicali cambiamenti con gli enormi interessi che coinvolgono il porto di Lomé, come uno snodo della rotta della droga dall’America Latina all’Europa, oltre ad essere l’ingresso delle armi che alimentano le guerre del continente.

L’opposizione togolese, una coalizione di 14 partiti, ha indetto nuove manifestazioni per il 4 e il 5 ottobre, dopo le vittime del 20 e 21 settembre, per chiedere riforme costituzionali dopo settimane di mobilitazione popolare contro il regime di Faure Gnassingbé.

Africani che piegano la democrazia ai personali interessi, disinteressandosi, non tanto del benessere degli africani, ma di garantire l’acqua potabile a tutti.

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Qualcosa di più:

Africa: attaccati al Potere
Africa: le Donne del quotidiano
Le loro Afriche: un progetto contro la mortalità materno-infantile
Africa: i sensi di colpa del nostro consumismo
Solidarietà: il lato nascosto delle banche
I sensi di colpa del nostro consumismo
Le scelte africane

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Migrazione: L’Europa e i suoi flussi condivisi

La cancelliera tedesca Angela Merkel, anche in occasione del mini vertice parigino sui flussi migratori condivisi, si pone come nume tutelare e apri pista a nuovi equilibri per una regolamentazione dell’accoglienza, come il “momentaneo” blocco dei ricongiungimenti in Germania, ed ecco che oltre a lodare l’operato italiano in Libia e per il codice di comportamento dedicato alle Ong, toglie ogni veto al superamento del trattato di Dublino, per non vincolare il profugo alla spiaggia d’arrivo e rendere partecipi tutti i paesi dell’Unione.

Nell’incontro di Parigi, oltre alla Francia e alla Germania, hanno partecipato i rappresenti di Italia e Spagna, oltre a quelli del Ciad, Niger e il premier libico al Serraji, ma non l’uomo forte dell’atra Libia generale Khalifa Haftar, per rafforzare i confini, e per dare un senso di ufficialità anche  all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini.

Un vertice per venire incontro non solo allo sforzo sostenuto dall’Italia, ma anche a quello sopportato dalla Grecia, stato che nessuno però ha ritenuto d’invitare, con la differenza che l’impegno italiano si addentra nelle zone grigie, intrattenendo rapporti con le varie milizie presenti in Libia.

Una situazione complessa quella nella quale l’Italia si è calata, superando ogni amletico dubbio, come viene posto all’odierna Mostra del Cinema di Venezia 2017 nel film L’ordine delle cose di Andrea Segre, tra etica e ragion di stato. Funzionari dello Stato italiano vigilano da tempo sulle interazioni tribali di una Libia post Gheddafi e ora osserva da vicino una Ue che nega se stessa e ogni diritto a quell’umanità “ospitata” nei discussi centri di raccolta.

L’Italia va oltre ai problemi esistenziali di un funzionario di polizia catapultato in Libia, toccando con mano la disperazione di un’umanità che non è formata, come sostengono in molti, da delinquenti. Donne e bambini non possono essere dei farabutti e molti uomini fuggono non solo dalla carestia, ma anche dalle persecuzioni religiose o tribali.

Venezia è anche dove l’artista cinese Ai Weiwei ha presentato il documentario Human flow, dedicato alla migrazione come un epico inarrestabile flusso umano. Un biblico mosaico di vite impegnate, visto il contesto nel quale si muovono, in una transumanza.

Nel film di Segre è espresso un travaglio esistenziale, con Ai Weiwei si ha un documentario stile National Geographic, dove tutta la tragicità della vita e i momenti gioiosi vengono proposti con gusto estetico.

Sulla migrazione vengono proposte visioni di spostamenti collettivi, ma esiste un esodo “privilegiato”, senza dover intraprendere perigliosi viaggi, fatto di un biglietto aereo o navale per chi è in possesso di documenti

Quello che potrebbe essere imbarazzante per la Ue che ha istituito il Premio Sacharov, ed è tacitamente permesso ai singoli stati dell’Unione, è come aprire agli accordi con il turco Erdogan o ipotizzarne altri con l’egiziano al-Sisi, ed ora ci si appresta a trattare con i governanti del Ciad e del Niger, dove la democrazia non è un consuetudine, e dove la Francia pensa di rafforzare la presenza militare con la scusante degli hotspot.

L’Unione europea si dimostra sempre più composta da singoli Stati più che da un corpo unico necessario per concertare un’unica posizione verso una Turchia che periodicamente è tentata a rendere permeabile, come fece Gheddafi, il suo confine verso l’Europa, per alzare la posta sugli aiuti.

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Qualcosa di più:

Migrazione: Un monopolio libico
Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Damasco, il viaggio che non si può più fare

Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.

di Costanza Pasquali Lasagni

Questa è la storia di un viaggio che non si può più fare

È un viaggio che inizia alla stazione degli autobus di Charles Helou, a Beirut, sotto un lurido cavalcavia in mezzo al traffico e alla polvere, all’altezza di Gemmayzeh.

I pulmini sono ordinati per destinazioni, e attendono scientemente di essere pieni per poter partire. Il nostro, destinazione Damasco, è lì che ci attende. Decidiamo un viaggio VIP, cioè in un pulmino nuovo, con l’aria condizionata, e al massimo una decina di posti, per una decina di dollari ben investiti. È il fine settimana di Pasqua del 2010, e in Medio Oriente il caldo già si fa sentire.

Alla frontiera siro-libanese, Masna’a, ci mettiamo in fila per fare il visto per la Siria, dieci dollari, e pochi minuti di attesa, perché siamo italiane. Un gruppo di backpackers americani attende da ore, e il loro visto costa molto di più. Ci scambiamo un’occhiata solidale e ringraziamo mentalmente di essere cittadine di uno stato la cui politica estera è senza spina dorsale. A volte, come in questi casi, può essere utile. Stessa fazza, stessa razza.

In tre-quattro ore siamo alle porte di Damasco, il pulmino ci lascia a Sulemanye, la vecchia stazione degli autobus, e prendiamo un taxi che per meno di un dollaro ci porta a Bab Touma, la porta orientale della città vecchia.

È un sogno che si avvera.

Nei vicoli del quartiere cristiano troviamo con fatica – queste bellissime porte sembrano tutte uguali – la nostra casa. C’è il cortile in stile omayyade, la fontana in mezzo, il cortile coperto. Come in un libro di Khaled Khalife. È una casa di studenti, in Siria prima della guerra ci si veniva a studiare l’arabo, da tutto il mondo, e i nostri compagni di casa sono inglesi, pakistani, indiani, oltre che siriani.

Una porta damascena

Le case damascene si sviluppano attorno al cortile centrale, e nei piani superiori ogni stanza è un microcosmo. Ci si ritrova poi nel cortile, nella parte coperta per proteggersi dal sole del giorno o dall’umido della notte, per le chiacchere serali, un bicchiere di arak, un tè zuccherato. Si parla di sogni, viaggi, lezioni di arabo.

Pochi anni dopo, tutto questo sarebbe finito, infranto, rotto, come uno specchio scagliato via con violenza.

La notte è viva a Damasco, specialmente a Bab Touma, il quartiere cristiano. Ma a Damasco si sta tutti insieme, cristiani con musulmani, l’aria è leggera, il gelsomino diffonde il suo profumo tra i vicoli, si respira l’odore dolciastro dei narghilè, e ci tuffiamo a Beit Jabri per assaggiare le mezze più buone del medio oriente, con i chicchi di melograno che colorano il babaghannouj, i camerieri di una gentilezza estrema, e il gruppo di oud che suona in sottofondo. Poco più avanti verso le mura, il ristorante Oxygène ha una terrazza vista città vecchia, ed è lì che si balla il giovedì sera, musica arab-pop sì, ma anche salsa e disco.

È un’iniezione di vita questa Damasco, ci perdiamo nel souq Hamidiye, quello coperto, dove trovi qualsiasi cosa, dai profumi ai merletti, dai chiodi ai broccati damasceni, ai vestiti da sposa. Quello del gelato Bakdash, crema di latte e scaglie di pistacchio, che ancora adesso è aperto e la fila si vede da fuori, anche se i pistacchi, che in tempo di crisi costano tanto, ora sono mischiati alle noccioline.

Nei negozi del souq Hamidiyeh si trovano vestiti per tutte le occasioni

Cercando cercando, scoviamo un hammam per donne, dietro il santuario sciita di Sayyda Rukayb. Bisogna seguire la strada, “doughry”, ci dicono i vecchietti a cui chiediamo aiuto, e poi ci sarà una tenda sulla sinistra. Bello nascosto da occhi indiscreti, non si sa mai. Scansiamo la tenda, scendiamo i pochi gradini, e si apre l’ennesimo universo magico. Il calore del vapore, i divani rialzati, la tazza di tè bollente che neanche sei entrata e già ti arriva in mano.

È il mondo delle donne, protetto da una tenda impenetrabile, che si ritrovano il sabato per fumare, bere il tè, chiacchierare, prendersi cura di sé.

Le signore dell’hammam, dalla pelle bianca e liscissima, ci guidano nelle stanze interne, tra i lavandini di pietra e le coppette di ottone, qui si fa lo scrub, qui invece il massaggio agli olii, lavanda, gelsomino, rosa damascena. C’è un’aria di festa, si canta e si balla, un gruppo di ragazze sta festeggiando una ragazza in procinto di sposarsi. Mai e poi mai avrei immaginato che anni dopo, nella stessa Damasco anestetizzata dalla guerra, le mie amiche avrebbero ritrovato quello stesso hammam, intatto, e organizzato per me la mia festa di addio al nubilato.

È finalmente la domenica di Pasqua, e Bab Touma è in festa. I bambini sono vestiti con il vestito buono, le chiese sono addobbate con festoni e palloncini, le bande di scout suonano le marce pasquali, i sacerdoti ortodossi e cattolici guidano le processioni tra le mura di pietra bianca e nera dei quartieri cristiani, i forni sfornano il pane di Pasqua, quello tondo con i semini di anice e il sapore dolciastro. A me la Pasqua è sempre piaciuta, si rinasce, ci si rinnova. Ci accodiamo alla processione, un corteo di persone che cantano e sorridono, salutiamo le persone che si affacciano dai balconi.

La moschea Omayyade vista dai tetti di Damasco

Per visitare la moschea Omayyade, dobbiamo seguire l’ingresso per le donne, dietro l’angolo, dove prendiamo in prestito un lungo e pesante abaya, nero o verde scuro, “coprite bene i capelli mi raccomando”, si premurano all’ingresso. Ora nel cortile della moschea non si può più sostare, né fare le abluzioni alla fontana centrale, per i famosi “motivi di sicurezza” che giustificano un po’ tutto in ogni parte del mondo.

Ma almeno la moschea c’è ancora, mentre ad Aleppo è solo un raggelante mucchio di sassi, guardati a vista da qualche soldato.

È lunedì mattina presto, il canto del muezzin ci accompagna mentre riprendiamo un taxi sgangherato che per il solito dollaro, ora il cambio è dieci-undici volte tanto, ci riporta alla polverosa stazione degli autobus, dove saliremo su un pulmino VIP che, una volta pieno, ci riporterà nella rumorosa Beirut.

La magia sembra finire, ma rimane addosso, come il profumo di gelsomino, e la speranza di un posto e una vita che ci auguriamo sopravviva, mentre già arrivano notizie infelici dai paesi vicini. È solo la primavera del 2010.

Questa è la storia di un viaggio che non si può più fare, ma che sogno di tornare a fare al più presto.

Per gentile concessione del magazine QCode
del 10/08/2017

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Chi è Costanza Pasquali Lasagni

Costanza, cervello da geopolitica e cuore da umanitaria, sta benissimo in mezzo ai conflitti, meglio se mediorientali. Per Q Code Magazine ha scritto I Diari Palestinesi.

Tutti gli articoli di Costanza Pasquali Lasagni

Migrazione: Un monopolio libico

La migrazione anche in Libia sta diventando un affare per ogni contendente e non solo per la gestione discutibile dei 34 centri di detenzione noti, ma anche per la possibilità della Guardia costiera libica e per le vari milizie, che si contendono un fazzoletto di potere, di lucrare sul traffico di esseri umani.

Un grande affare che non poteva essere lasciato in mano ai soli trafficanti, ma ora anche i libici, di tutte le parti, hanno pensato che è ora prendere in mano tutta la filiera: dall’organizzazione dell’imbarco alla “accoglienza”, grazie all’istituzione di una personale zona di soccorso (Sar – Search And Rescue) libica.

Una zona di soccorso che rende più Mediterraneo sotto il controllo di Tripoli ed ecco che riemergono le antiche ambizioni di Gheddafi nell’ ampliare la propria sovranità sulle acque territoriali., comportando, stando alle mappe in uso alla missione EuNavFor Med (Sophia), il possibile arretramento dell’area d’intervenire delle Ong da 12 miglia a fino 97 miglia dalla costa libica.

I migranti che arrivano in Libia possono venire rinchiusi nelle strutture sotto il controllo di Tripoli o di Tobruch, ma anche riuscire a prendere il mare per l’ultima tappa verso l’Europa.

Questo poteva succedere prima, ora tutti possono essere imbarcati su gommoni e bagnarole, per poi essere ripescati dalla Guardia costiera ed essere rinchiusi nelle strutture di detenzione, in attesa di essere venduti come schiavi o ceduti nuovamente agli scafisti.

In Libia si sta collaudando la migrazione a moto perpetuo, una sorta di criceto che corre nella ruota, sino ad esaurimento. Persone nella ruota della fortuna, tra le strutture governative libiche e in balia dei trafficanti, dove solo il banco vince.

L’Occidente ha creduto di essere stato tanto furbo a delegare ad altri il ruolo di sentinella dei propri confini con accordi e intese che hanno coinvolto governi con problematiche interazioni con il prossimo e personali interpretazioni del concetto di Diritti umani come quello di Khartoum (2014) e il più recente con la Turchia, ma anche a Rabat (2006) e ancor prima a Budapest (1993).

Tanti processi, accordi e trattati con governanti democraticamente discutibili, che hanno e stanno impegnando ingenti fondi europei che sarebbero stati meglio utilizzati se gestiti direttamente per l’accoglienza e per lo sviluppo nei luoghi d’origine, invece di foraggiare i signorotti locali e i governi autoritari.

Il ministro degli interni italiano, Marco Minniti, continua ha esternare la sua soddisfazione nell’andamento degli interventi italo-libici, per controllare il controllo meridionale dei confini europei in Libia. Confini che coinvolgono anche il Niger, il Mali e il Ciad, tre dei cinque paesi che tentano di organizzare una forza d’intervento contro i gruppi terroristici jihadisti, ma per ora è riuscito a guerreggiare con le Ong piuttosto che sconfiggere gli scafisti.

Forse è l’attività “diplomatica” francese, con la Ue nel sostenere Serraj e con l’Egitto per Haftar, che ha scrollato l’Italia, decidendo di riportare la rappresentanza diplomatica al Cario al completo, nominando l’ambasciatore Giampaolo Cantini.

Una decisione che potrebbe andare a discapito della verità sul caso Giulio Regeni, ma dovrebbe aiutare il governo italiano a dialogare con il generale Haftar per raggiungere un accordo sulla questione migratoria.

Le agenzie europee e il governo italiano non si limitano ai conti del ragioniere, disumanizzando le persone che hanno affrontato e continuano ad affrontare mille ostacoli, ma oltre a cercare un accordo con i “due governi” libici, hanno negoziato una riduzione di flussi migratori, grazie all’elargizione  di varie forme di aiuti comprese di forniture ospedaliere a Sabratha, con le varie milizie.

Una disumanizzazione che ha ridimensionato quest’umanità in fuga in numeri o a ingombri come è successo nella guerriglia in una Roma agostana a piazza Indipendenza.

Persone che diventano per la politica solo un problema e alle quali nessuno si interessa alle loro singole storie se non in rari documentari come in “Too much stress from my heart” di Ludovica Lirosi che ha realizzato e prodotto tra il nord Africa e il sud dell’Italia.

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Qualcosa di più:

Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
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Europa: la confusione e l’inganno della Ue
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Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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