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Tunisia, l’ombra degli ex militari dopo la morte di Essebsi

Muore, per un’intossicazione alimentare non sopportata dalla vetusta età (92 anni), il camaleonte della politica tunisina Essebsi e nella settimana di lutto nazionale è già un fremere d’ipotesi future. Il 15 settembre è prevista l’elezione del successore, mentre per la prima settimana d’ottobre erano state calendarizzate le consultazioni politiche alle quali potranno partecipare decine e decine di formazioni dell’atomizzato panorama nazionale. Fra quelle quotate per concrete possibilità di ricevere consensi e formare un esecutivo o alleanze per esso c’è Nidaa Tounes, il partito del defunto Capo di Stato, gruppo laico e sedicente di centro-sinistra come lo sono formazioni liberiste sparse un po’ ovunque nel mondo. Quindi gli islamisti di Ennadha, che sull’incendio delle primavere arabe avviato, nel dicembre 2010, dall’autodafé dell’ambulante Mohamed Bouazizi, portarono la formazione al potere. Per tre anni. Vissuti pericolosamente, e nonostante i consigli di moderazione dello storico leader al Ghannouchi, finiti a scontare le accelerazioni estremiste d’uno jihadismo interno, maculato nel 2013 dall’assassinio di due politici progressisti: Chokri Belaid e Mohamed Brahmi. L’indignazione popolare e le successive scosse produssero il cambio di orientamento politico a Tunisi e dintorni, assediata nel marzo 2015 dagli attacchi del jihadismo firmato Daesh, con l’attentato al museo del Bardo che fece ventiquattro vittime.

Sulle paure del recente passato, la navigazione a vista degli ultimi cinque anni rattoppati attorno alla figura d’un ottantasettenne pragmatico ma non carismatico, l’irrisolutezza di problemi rimasti intonsi: mancanza d’investimenti e disoccupazione stabilmente in doppia cifra (15% nazionale, che triplica la percentuale se si parla di giovani fino ai 25 anni), vaghezza politica, ora s’affaccia il classico partito d’ordine, formato mesi addietro da ex militari. I seguaci di tal Mustafa Saheb-Ettabaa – omonimo d’un ministro dell’Ottocento quando il Nord-africa maghrebino apparteneva all’Impero Ottomano – è figlio d’un clan benestante che lo spedì a far carriera come ufficiale, un percorso durato sino alla seconda metà degli anni Novanta. Quindi, pensionamento anticipato come s’addice a tutti i militari del mondo, e immersione nella sfera affaristica sino alla folgorazione della politica, appunto nel 2011 all’alba del subbuglio della  nazione. Eppure la velleità d’esporsi in prima persona è recente, giunge alla fine dell’anno scorso, quando assieme ad altri ex ufficiali fonda il gruppo “Agissons pour la Tunisie”. Chi conosce Saheb-Ettabaa afferma che covava quell’idea da tempo, però ora esce allo scoperto presentandosi all’agone che, inevitabilmente, ripartirà nei prossimi mesi. Quello che l’ex ufficiale sottolinea con dichiarazioni pubbliche ed interviste, una recente è stata rilasciata al sito Sputnik, è la voglia d’ordine che aleggia in alcuni strati della società tunisina. Sicuramente quella dei gruppi affamatori della popolazione, passati attraverso le lobbies, cui egli stesso appartiene, e quelle della politica incarnata dall’ex presidente Ben Ali.

Tutt’uno coi potenti clan familiari, un nome per tutti: i Trabelsi della consorte Leila. Accanto all’esempio di ulteriori satrapi mai puniti dalla Storia e dal Fato, com’è il raìs egiziano Mubarak, questa tipologia di dittatori arricchiti sulla pelle dei concittadini, riesce a godersi i beni indebitamente accaparrati, anche perché nessun governo insediato successivamente, nessun Tribunale Internazionale ha promosso azioni legali, seppure su costoro pesino accuse di appropriazione indebita, frode ai beni dello Stato, oltreché crimini come complicità per detenzioni, torture, uccisioni e stragi di oppositori. Ben Ali, tanto per dire, è a Gedda, gode della protezione dei Saud, senza che alcuna democrazia occidentale od orientale eccepisca nulla. E in uno dei Paesi islamici mediterranei, con una popolazione non così strabordante (11 milioni), ma bisognosissima tanto da continuare a migrare, morire in mare e in più morire e far morire per la “guerra santa”, poiché assieme al Marocco è uno dei terreni di reclutamento jihadista, nulla è cambiato dai giorni della cacciata del presidente amico dell’internazionale delle ruberie “socialiste”. E’ in quest’assenza di soluzioni, nel tirare a campare degli umili senza speranza, nel riproporsi di partiti incapaci di elaborare alternative, che gli affamatori rilanciano i travestimenti.  Sostengono di lavorare per programmi inediti, ripropongono solo vecchi privilegi che a lungo ne hanno favorito l’esistenza e provano a occupare il vuoto di potere vagheggiando comandanti e disciplina a senso unico. Una beffa per chi avrebbe bisogno di giustizia.  

Enrico Campofreda
Pubblicato il venerdì 26 luglio 2019
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dal blog


Galata, piede italiano ad İstanbul

Da sempre ponte fra due mondi, la città di İstanbul fu uno snodo centrale per il commercio delle Repubbliche marinare, le quali proprio qui posero alcuni dei propri centri più importanti. Menzione d’onore, naturalmente, per Galata, un possedimento genovese destinato a far la storia di questa città.

Colonia genovese

 Come tutte le altre Repubbliche, anche Genova aveva fondato la propria base commerciale nell’allora Costantinopoli, in un luogo separato dal resto della città e fino ad allora chiamato Sykais Peran, alla lettera: Il campo di fichi dall’altra parte. Sarà la Quarta crociata, però, a trasformare definitivamente in genovese il quartiere, legando per sempre la sua storia al Bel Paese. Durante quest’ultima, infatti, i crociati, capeggiati da Venezia, misero a ferro e fuoco la città, fondando l’Impero latino di Costantinopoli e creando la spaccatura che tutt’oggi esiste fra cattolici ed ortodossi. I genovesi, però, aiutarono i bizantini a riprendere il controllo della città e così, nel 1273, il quartiere di Galata venne donato Michele VIII Paleologo ai liguri.

Galata
İstiklal Caddesi a Galata

La colonia crebbe e prospero, diventando senza dubbio l’insediamento italiano più storico al di fuori della Penisola e permettendo ai suoi abitanti incredibili ricchezze e rotte privilegiate verso la Crimea, all’epoca centro nevralgico per il commercio di pellicce. Nel 1453, essendo certi della capitolazione della città, non fecero troppe resistenze alla conquista ottomana, consegnando, anzi, di propria spontanea volontà le chiavi della celebre torre di Galata.

Galata

Le fortune del quartiere non finirono, però, con la conquista turca venendone agevolati in moltissimi aspetti. L’Impero tenderà infatti a suddividere i popoli per fede, piuttosto che per etnia, e ciò porterà le anime cattoliche della città a riunirsi proprio in questa zona, trasformandola in una delle vie principali della città per il commercio.

Galata
İstiklal Caddesi a Galata

La cosiddetta “Nazione latina”, composta sopratutto da italiani e francesi, godrà di un ruolo privilegiato nel traffico di mercanzie e nel ruolo di ambasciatori, situazione ulteriormente favorita dalle “capitolazioni” ottomane. Tramite questi trattati, i cittadini stranieri residenti nell’Impero venivano giudicati secondo la propria giurisdizione, cosa che gli permise spesso di ottenere condizioni agevolate rispetto ai locali. Con le guerre fra Italia e Sublime Porta, il quartiere venne pian piano svuotato della sua popolazione italica, che tuttavia risiede ancora oggi nel luogo fondato dai propri antenati. Un pezzo d’Italia in Turchia. (Non a caso il Galatasaray è tutt’oggi il club calcistico più “europeo” di Turchia)

Armenia, la terra dei figli di Hayk

Piuttosto che concentrarci su un singolo stato, abbiamo pensato che un’introduzione ai luoghi e le culture del Caucaso fosse più interessante. Motivo per cui, dopo avervi mostrato l’Azerbaijan, passiamo all’Armenia.

Figli di Hayk

Gli armeni fanno risalire le proprie origini ad Hayk, un leggendario guerriero della regione che uccise il Nimrod, leggendario re mesopotamico. Oltre che a mostrare fin da subito i nemici naturali di questo popolo, il mito è ancor più interessante se si guardano alle origini del patriarca armeno. Egli era infatti discendente di Noè, il quale si fermò con la sua Arca proprio sul monte Ararat, luogo carico di sentimento e significato per questo popolo.

Armenia
Erevan

Alle origini mitiche, però, a lungo non seguì un impero e solo dopo grandi conflitti con gli ittiti nacque il primo regno locale. Quest’ultimo, però, vivrà assai a lungo un periodo di disordini politici, passando per le mani di: romani, parti, bizantini, sassanidi, arabi, mongoli e persiani. Nel 301 divenne il primo stato cristiano della Storia e dal 884 al 1045, però, il regno armeno godette di un’incredibile espansione sotto la dinastia dei Bagratidi, riuscendo in breve tempo a svilupparsi in tutta la regione.

Ani e turchi

Quest’ultimi costruirono la roccaforte di Ani, immensa città medievale, in grado di contenere fino a 100’000 abitanti. La nuova capitale era tanto ricca da essere paragonata a Baghdad, Roma o Costantinopoli e venne, anche per questo, soprannominata la “città dalle 1001 campane”. Le sorti di questa antica metropoli, in realtà, sono una perfetta metafora di ciò che accadde al resto del paese. Dopo lunghe guerre, infatti, la città cadde sotto il controllo dell’Impero ottomano nel 1579, avviando da allora un periodo di costante declino.

Armenia
Ricostruzione di Ani

Nel 1878, la regione di Kars cadde sotto il controllo dell’Impero russo, il quale ne sponsorizzò molto la rinascita anche in vista di una sempre più forte insofferenza armena verso i loro precedenti signori. Gli Ottomani avevano infatti donato loro grande dignità ad Istanbul istituendo il Patriarcato armeno, nel resto dell’Anatolia, però, la situazione non era sempre la stessa. Ciò farà sì che durante la Prima guerra mondiale, l’Impero ottomano attuerà uccisioni e deportazioni di massa, durante il quale moriranno dai 200’000 ai 1’800’000 armeni. Tali atti prenderanno poi il nome di Genocidio Armeno, uno dei momenti più bui di tutta la storia turca e caucasica. Con la sconfitta ottomana, vengono restituiti ai discendenti di Hayk gli antichi domini dell’Armenia storica,che vengono però, in buona parte, rapidamente riconquistati dai turchi, i quali proveranno anche ad eliminare definitivamente la fortezza di Ani, riuscendovi solo in parte.

Sfortunatamente per loro, gli Armeni non rivedranno il proprio stato autonomo fino al crollo dell’URSS, prima del quale saranno posti sotto la giurisdizione della Repubblica Transcaucasica. Da ciò nascerà poi il conflitto del Nagorno Karabakh con l’Azerbaijan.

Khalid Valisi
del 20 luglio 2019
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dal blog Medio Oriente e Dintorni


Africa: Un Continente in ostaggio

Le società “occidentali” sono indirizzate all’aiuto in “sede”, trasformando la solidarietà in cooperazione e quindi in una occasione di stipulare contratti più con le comunità che con i governi centrali che hanno dato dimostrazione d’inefficienza e malafede nel gestire i cospicui fondi che organizzazioni internazionali e singole nazioni hanno destinato allo sviluppo di certe aree fondamentalmente ricche di risorse naturali.

Governi corrotti impegnati ad impoverire le varie popolazioni per arricchire i propri conti e che l’economista Dambisa Moyo mette sotto accusa, al pari degli stati “donatori”, nel libro La carità che uccide (2011), sottolineando Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo. Una spietata analisi per sollecitare le nazioni a non distribuire soldi a pioggia, ma creare delle partnership modello cinese.

In questo panorama di buone azioni si inserisce la Cina che, avulsa dai sensi di colpa per decenni di colonialismo, è ormai stabilmente presente in gran parte degli stati africani, senza far differenza tra governi autoritari e dittatoriali, con la realizzazione di infrastrutture ed industrie, raramente ecosostenibili, che con un piano di investimenti da oltre 60 miliardi di dollari pongono una seria ipoteca sul futuro sviluppo indipendente dell’Africa.

Un futuro dove la popolazione si sente consigliata ad imparare il mandarino ed a cedere le loro terre per coltivazioni gradite ai cinesi, ma senza i basilari diritti per i lavoratori.

Nel periodo coloniale anglofrancese i nativi dovevano parlare in francese o in inglese e coltivare cotone, caffè, tabacco, tè e così via, per ottenere la possibilità d’istruirsi, vedere le prime ferrovie e fare i domestici nei comodi edifici coloniali.

La Cina si sta sostituendo all’Occidente nello sfruttamento africano e la differenza sta nell’aver cancellato il debito ad una trentina di paesi, concedendo prestiti a lungo termine a tassi bassi, ma in entrambi i colonialismi non si fanno scrupoli nel procurarsi le materie prime a discapito dei diritti umani, della rappresentanza sindacale e della difesa dell’ambiente.

Come un pusher, la Cina, prima ti cancella il debito per poi prospettare altre forme di collaborazione, allettando i Governi con il fantasmagorico progetto della “Nuova via della seta” e fornendo infrastrutture in cambio di ricchezze naturali, aprendo nuovi canali di credito pronti a lievitare e con un futuro senza possibili di riduzioni.

Una politica quella cinese, in questo nuovo sfruttamento dell’Africa, che ha aperto la via ai paesi arabi, all’India e alla Turchia, nella cosiddetta strategia del soft power, accattivandosi l’amicizia e magari la fiducia, attraverso la vendita di tecnologie e formazione, illudendo i vari governi nell’astenersi ad intromettersi nelle politiche dei singoli paesi.

Le trame cinesi si allungano sul continente con l’adozione di 13 paesi della nuova valuta ‘ancorata’ allo yuan cinese, decretando la fine del predominio francese con il franco CFA (attuale acronimo di Comunità Finanziaria Africana), che porterà 350 milioni di persone ad usarla nel 2020 e farà tanto felice Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, allontanando il continente dall’Europa.

L’Occidente continua a perdere e varie strutture private, fondazioni e Ong, sembrano aver ispirato un nuovo modello di cooperazione allo sviluppo come strumento di politica estera, magari con la Ue come capofila, con Exco (The International Cooperation Expo) http://www.exco2019.com/ nel pensare e far conoscere “piccoli” prodotti che aiutano la vita in aree sfavorite, rivolgendosi alle aziende ed alle istituzioni impegnate nella ricerca scientifica, nell’innovazione tecnologica e nella formazione.

L’Italia, nel suo piccolo, è il primo Paese europeo per investimenti, con complessivi 4 miliardi di dollari nel solo 2016 per un totale di 20 progetti, posizionandosi al quarto posto dopo Cina, Emirati arabi uniti e Marocco.

La collaborazione tra le diverse organizzazioni nel confrontarsi e mettere a frutto le singole esperienze non è stata solo un’occasione di business, ma fa capire che non è necessario varare grandi progetti per stimolare l’economia di luoghi remoti. Coinvolgere l’infanzia nel rimboschimento o la costruzione di una scuola è un passo per l’emancipazione delle comunità a costi irrisori.

Far conoscere i lampioni mobili http://www.eland.org/ ideati da Matteo Ferroni per illuminare la vita delle comunità rurali del Mali, paese attraversato da un conflitto, l’energia solare per i pannelli al liceo Lwanga (Ciad) o il progetto Syria Solar, organizzato dall’Union of Medical Care and Relief Organizations (UOSSM) https://www.uossm.org/who_we_are, per svincolare gli ospedali siriani da una rete elettrica fatiscente e dall’utilizzo del diesel, le cucine solari promosse da Magis https://magis.gesuiti.it/progetto/cucine-solari/, la campagna “Più luce alla vita dei rifugiati” https://www.ikea.com/ms/it_CH/good-cause-campaign/brighter-lives-for-refugees/index.html di Ikea Foundation e UNHCR per fornire illuminazione sostenibile alle famiglie nei campi profughi, come anche le tende di ultima generazione http://www.abeerseikaly.com/weavinghome.php, sono solo alcuni esempi per non lasciare il campo ai mega finanziamenti come quello per la nave estrazione diamanti in Namibia o quello per il commercio del gas in Mozambico che non aiutano la popolazione, come dimostra la ricchezza petrolifera in Nigeria di esclusiva pertinenza di un ristretto gruppo politico-affarista.

Progetti ambiziosi come quello legato all’impianto idroelettrico della diga Gibe, sul fiume Omo, che si è rivelato fallimentare e che doveva anche favorire la coltivazione intensiva di canna da zucchero, ma che ha per l’ennesima volta sfavorito le popolazioni indigene, obbligate ad abbandonare le loro terre e costrette alla fame.

In questo panorama di esclusione delle popolazioni all’accesso alle ricchezze si inserisce l’elezione del vice ministro dell’agricoltura e degli affari rurali cinese alla carica di Direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao) http://www.fao.org/news/story/it/item/1199205/icode/, che rafforza a tutti i livelli la presenza cinese, non solo in Africa, per indirizzare le economie dei paesi in cerca di uno sviluppo autoctono.

L’intervento della Fao, sino ad ora, si è dimostrato timido e con grandi studi di settore, ma forse il nuovo direttore sarà attento alle necessità delle comunità, facendo tesoro dell’esperienza delle piccole realtà nella realizzazione di orti comunitari e banche dei cereali, svincolando le comunità dai capricci dei potenti e magari sostenere la formazione di ragazzi e ragazze alla coltivazione del Pleurotus Ostreatus, un fungo che cresce in Africa occidentale, o nei progetti di piscicoltura, per renderli economicamente indipendente.

Un direttore che ha annunciato di far lavorare l’elefantiaca struttura, con la speranza che scelga di sostenere  quelle iniziative che non richiedano impegni finanziari milionari e di non essere il cavallo di Troia della finanza internazionale.

Uno sviluppo che l’Occidente, ancorato al suo senso di colpa, continua a contribuire con l’elargizione di soldi sino a quando trasformerà le sue “buone azioni” in una fruttuosa cooperazione per entrambe le parti.

Partnership difficilmente realizzabili in aree di conflitto come nella R.D. del Congo sconvolto da scontri etnici, come  in Etiopia e nella Repubblica Centrafricana, come gli scontri separatisti anglo-francofoni in Camerun e in Sudan con i militari che non mostrano di dare una svolta democratica alla destituzione di Al Bashir e in Malì e in Burkina Faso dove i jadisti fanno vivere la popolazione nella paura, come anche in Nigeria con i saccheggi e i rapimenti di Boko Haram e la presenza di varie missioni militari nei diversi stati riescono appena a contenere la violenza e sono ben lontani a stabilizzare la situazione.

Conflitti che alimentano le fughe e l’Occidente non potrà continuare ad erigere muri, rinviando una scelta condivisa per attrezzarsi all’accoglienza e renderla una ricchezza.

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Qualcosa di più:

Solidarietà anche come lavoro
Europa | Il futuro delle diseguaglianze
Il Verde d’Africa: sul rimboschimento nel continente
Migrazione: bloccati prima o parcheggiati dopo
Africa: le Donne del quotidiano
Le loro Afriche: un progetto contro la mortalità materno-infantile
Africa Solidarietà: il lato nascosto delle banche
Africa: i sensi di colpa del nostro consumismo
Cause Umanitarie
Cibo per molti, ma non per tutti
Le scelte africane
Solidarietà: il lato nascosto delle banche
Un promemoria sul mondo in conflitto
Cellulari per delle cucine solari

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Trump attacca la Cina ma colpisce la UE

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

L’ha detto recentemente anche Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea:“Nel protezionismo i mercati sembrano vedere molto di più che un danno all’economia. Potrebbero vederci un fenomeno molto più ampio che mette in dubbio l’intero ordine multilaterale raggiunto dopo la seconda guerra mondiale. Le incertezze sui dazi sono aumentate“. Il rischio, poi, è che la guerra dei dazi possa degenerare in guerra delle valute.

Le altalenanti minacce americane “dazi si-dazi no”, le ritorsioni, le sospensioni condizionate hanno creato l’instabilità che l’intero sistema economico mondiale sta pagando. Finora non ci ha guadagnato nessuno, non gli Usa, non la Cina e tanto meno l’Europa.

L’Europa e, di conseguenza, anche l’Italia ci rimettono più di tutti.

Direttamente, quando i dazi sono imposti sui settori agroalimentari e dell’auto. Giustamente la Coldiretti teme che la “black list” americana colpisca pesantemente i prodotti agroalimentari del made in Italy che sono esportati fuori dai confini comunitari per ben 4,2 miliardi di euro.

Dopo i settori dell’acciaio e dell’alluminio, il bersaglio numero uno dei dazi americani è quello dell’auto, in particolare le imprese automobilistiche tedesche. La Germania, com’è noto, esporta negli Usa auto per 42 miliardi di dollari. Il che significa un duro colpo anche per le imprese italiane della componentistica i cui prodotti sono esportati in Germania. La Germania, si ricordi, è il primo partner commerciale mondiale dell’Italia.

Poi indirettamente, poiché i dazi imposti alla Cina o al Messico colpiscono soprattutto prodotti altamente tecnologici, di cui molte parti provengono dall’Europa.

Inoltre, un’importante area di scontro è quella dell’aviazione civile, tra la Boeing americana e l’Airbus europea. Washington si lamenta dei sussidi erogati dall’Unione europea, dimenticandosi che tutti i suoi settori tecnologicamente importanti, militari e civili, godono da sempre di sostanziosi sostegni statali. Trump ha avuto l’ardire di portare la controversia persino davanti all’Organizzazione del Commercio Mondiale, la stessa istituzione che quotidianamente boicotta.

I dazi nei confronti della Cina, inizialmente del 10%, poi aumentati al 20%, su 200 miliardi di dollari di prodotti cinesi, potrebbero vedere una pericolosa escalation, e arrivare al 25% su altri 325 miliardi. Pechino ha annunciato ritorsioni su 60 miliardi di dollari di prodotti americani. Per esempio, sulle importazioni di soia, che finora coprivano il 60% della produzione americana.

Una delle aree di scontro più pericoloso verte intorno alle tecnologie informatiche, considerate di rischio per la sicurezza nazionale americana. Di conseguenza Trump si è mosso per il blocco verso l’azienda cinese Huawei e altre imprese simili. Come risposta, Pechino ha fatto subito sapere di voler sfruttare la sua posizione di principale esportatore mondiale di materiali delle cosiddette “terre rare” utilizzati per le tecnologie avanzate.

Si tenga inoltre presente che la Cina possiede obbligazioni del Tesoro americano per più di mille miliardi di dollari.

Anche la minaccia di Trump di applicare il 5% di dazi su tutti i beni importati dal Messico, per poi alzarli fino al 25%, andrebbe a colpire, tra l’altro, i settori delle automobili, dei mezzi di locomozione e dei televisori, dove la componentistica europea è molto rilevante.

Il Messico è il terzo partner commerciale degli Usa con circa 265 miliardi di dollari di esportazioni di merci. Negli anni passati molti produttori americani vi hanno trasferito le loro fabbriche per sfruttare il basso costo della mano d’opera. Gli effetti dei dazi non penalizzeranno solo gli esportatori messicani ma anche gli importatori americani, che, poi, aumenteranno ovviamente i prezzi per i consumatori finali.

Poiché la questione è il blocco dei flussi immigratori, la guerra dei dazi diventa immediatamente una guerra sociale con conseguente destabilizzazione politica. Trump, però, non può ignorare che la questione immigrazione ha ragioni economiche e sociali profonde e dimensioni epocali.

Recentemente gli Usa hanno tolto anche l’India e la Turchia dalla lista dei partner commerciali privilegiati, costringendo persino Nuova Delhi, da sempre amica di Washington, a reagire con delle contromisure commerciali.

In America, comunque, cresce l’opposizione contro la politica dei dazi e c’è la campagna “Tariffs hurt the heartland”, sostenuta da 150 organizzazioni di vari settori produttivi, che lamenta come i dazi colpiscano il cuore del paese e rischino di generare la perdita di 2 milioni di posti di lavoro.

Non sfugge che l’intento di Trump sia di colpire l’Unione europea. A Londra ha esplicitamente invitato la Gran Bretagna a uscire dall’Ue e le ha offerto accordi commerciali superprivilegiati. È un atteggiamento che va ben oltre l’attitudine di Trump!

È chiaro, tuttavia, che sono in gioco le strategie della grande finanza e i corposi interessi geopolitici di quel sistema che si chiama, fin dai tempi del presidente Eisenhower, “il complesso militare industriale americano”.

Pur mantenendo strette relazioni con gli Usa, il nostro alleato storico, l’Ue dovrebbe sfidare certi disegni dell’unilateralismo di oltre Atlantico. Potrebbe, invece, diventare il perno principale per la creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere delle monete più importanti e non soltanto sul dollaro. Così potrebbe svolgere un’importante funzione di equilibrio geoeconomico e geopolitico tra gli attuali grandi attori internazionali.

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi
Pubblicato il 27 Giugno 2019
Articolo originale
da Frontiere