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Il Profeta dell’Arte “famola strana”

“E’ del poeta il fin la meraviglia, / chi non sa far stupir vada a la striglia!”…. Questo celeberrimo distico dell’altrettanto celebre poeta secentista cavalier Giovan Battista Marino, ai suoi tempi ritenuto e ammirato come il più rappresentativo artista del barocco in Italia e fuori d’Italia, non potrebbe ancora oggi essere l’antesignano, il filosofo di certa “arte” la cui prima e decisiva necessità è appunto “stupire”, anzi “scandalizzare”?

“Epatér le buorgeois”, stupire il bravo benpensante borghese era la bandiera, l’imperativo categorico dell’estetica rivoluzionaria ottocentesca: rompere con la tradizione, le buone maniere accademiche, il “tran tran” dell’artista di regime, imperativo tuttavia di tanta avanguardia anche novecentista, basterebbe ricordare i proclami incendiari dei “futuristi” per non parlare delle scandalose provocazioni dadaiste.

Va tutto bene quando le barricate e gli assalti sono motivati da una necessità legittima di rinnovamento, e soprattutto quando dopo i proclami e le barricate ci sono poi gli artisti veri a dare senso e valore alle bestemmie buttate in piazza!

Dall’Impressionismo in poi, fino alla Pop-art, artisti in vena di novità si sono divertiti a scandalizzare schiere di critici “ufficiali” e “pompier” … Necessità sacrosanta quando dalla palude stagnante si vuol riuscire in mare aperto.

Ma, badate, quando sedicenti artisti in vena di rivoluzioni cialtrone e immotivate, solo per giustificare il vuoto creativo che li affligge, riprendono la frase bandiera del buon cavalier Marino (stupire, stupire a tutti i costi!) senza poi suffragare le loro “rotture” con la buona sostanza della vera poesia, allora tutto il vuoto, il chiasso e lo strepito di questi pionieri del nulla è solo starnazzare di oche che girano intorno all’aia!

Ma stiamo attenti a riderne solo un po’… Ahimé, si dovrà penosamente dire che non solo intrusi e dilettanti dell’arte giocano al “bluff” ripetuto e noioso, essi si accodano dietro la bandiera di ben altri artisti, notissimi e pregiati, che imperversano incoronati dalla critica ufficiale come i Maestri del Nuovo e del Profondo.

Così i piccoli, coperti e giustificati dagli esempi glorificati dalla ribalta internazionale, non si peritano di prodursi in installazioni ed eventi che fanno della originalità a tutti i costi (stupire!) la maschera immotivata della loro solenne incapacità tecnica e creativa.

Se lasciare stupita e allibita la spaesata umanità che è chiamata ad ammirare le ormai scontate performance è l’unica ragione d’essere di tanta presunta e pretesa arte contemporanea be’, devo dire che siamo messi proprio male! Avallare le più curiose e impensabili “trovate” come importante rinnovamento estetico è un ricatto stupido e infantile… Si dica pure, una volta per tutte, senza inutili pudori:” Ma il re è nudo!”… Povero cavalier Marino! Caposcuola di tanto eccessivo e “sorprendente” barocco, siamo ancora in braccio alla sua estetica. Solo che i contenuti dei cassonetti e le cianfrusaglie dei rigattieri si sono sostituiti ai ghirigori e alle spirali barocche!

 

Africa: senza infrastrutture crescerà l’emigrazione

4 dicembre 2017

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Cambiamenti climatici, mancanza di acqua, avanzamento dei deserti, impoverimento dell’agricoltura. Non sono soltanto argomenti per dibattiti politici o accademici ma questioni reali che determinano la vita di intere popolazioni. Europa compresa. Per i paesi poveri, soprattutto dell’Africa, sono causa di emigrazione. E in Italia sappiamo bene che c’è un legame stretto tra sottosviluppo ed emigrazione. Oggi lo vivono fortemente i paesi del sud del mondo. Cento anni fa, cinquanta anni fa è stata la piaga che aveva colpito tutte le nostre regioni. E, purtroppo, lo sta diventando anche oggi. Possibile che non abbiamo imparato nulla dalla storia? Eppure alcuni interventi virtuosi potrebbero aiutare ad affrontare alla radice le cause della povertà e delle migrazioni incontrollate. Invece si spende solo per le situazioni di emergenza.

Al riguardo, recentemente si è tenuto a Roma il summit internazionale «Water and Climate: Meeting of the Great Rivers of the World – L’acqua e il clima: incontro sui Grandi Fiumi del Mondo», organizzato dal nostro governo insieme alla Commissione Economica per l’Europa dell’Onu. Con una partecipazione di oltre 100 esperti provenienti da 48 paesi, esso ha offerto una grande opportunità di confronto e di scambio di esperienze. Nel mondo vi è una crescente scarsità d’acqua che sta creando tensioni sulla sua ripartizione e sul suo futuro utilizzo. Ciò accade ancor di più, dove fiumi, laghi e riserve d’acqua interessano dei bacini che coinvolgono vari paesi e differenti confini. Possono diventare anche cause di conflitti e di terrorismo.

A livello internazionale non manca un principio guida, ma un effettivo processo di dialogo. Tali situazioni, invece, potrebbero essere opportunità di nuove e più efficaci politiche di collaborazione. Il summit di Roma è stato un momento importante per confrontare vari progetti tra le organizzazioni che gestiscono i grandi bacini fluviali e lacustri del pianeta. Uno di questi, forse il più importante ed emblematico, è quello della regione del Lago Ciad, in Africa. Sull’argomento è intervenuto il presidente del Consiglio dei ministri, Paolo Gentiloni, che correttamente ha evidenziato «la vicenda del lago Ciad che alimenta un bacino di settanta milioni di persone, in diversi paesi, la cui crisi gravissima negli ultimi decenni ha provocato effetti notevoli. Si calcolano due milioni e mezzo di persone sfollate in quel bacino». Ci sono persino relazioni evidenti tra la crisi idrica del lago Ciad, la destabilizzazione socioeconomica e l’emergere di minacce terroristiche in alcune di quelle regioni.

Abdullahi Sanussi

L’intervento è stato apprezzato da Sanussi Abdullahi, segretario esecutivo della Commissione per il Bacino del Lago Ciad (Lcbc), che, parlando di progetti di trasferimento idrico, ha ricordato che fu l’impresa italiana Bonifica del Gruppo Iri a sviluppare più di quarant’anni fa il progetto «Transaqua – Un’idea per il Sahel» per evitare il prosciugamento del lago e la sua progressiva trasformazione in deserto. Esso prevedeva la costruzione di un canale navigabile di 2.400 km che dal fiume Congo portasse acqua dolce fino al Lago Ciad. Lungo il suo percorso beneficerebbero molti paesi e popolazioni con effetti positivi sullo sviluppo agricolo, sulla produzione di energia pulita ed anche per nuovi insediamenti urbani sostenibili.

Riteniamo interessante il fatto che la succitata Commissione abbia già concluso un accordo con il colosso cinese delle progettazioni e costruzioni infrastrutturali «PowerChina» per un’ulteriore verifica della fattibilità del progetto, a cui partecipa anche la nuova impresa Bonifica che è subentrata alla vecchia società del soppresso Iri. La Commissione sta cercando altri sostegni e partecipazioni per assicurare che il programma sia economicamente fattibile e sostenibile anche a livello finanziario e politico. Il progetto potrebbe fungere da catalizzatore per altri programmi pan-africani, che colleghino l’Africa centrale all’Africa occidentale, e al Sahel, generando occasioni di sviluppo agroindustriale.

Un secondo progetto di rilevanza strategica è quello riguardante il lago salato Chott el Jerid, interno alla Tunisia. È in una zona minacciata dall’avanzamento del deserto. L’idea, vecchia di quasi 150 anni, sarebbe di costruire un canale navigabile che lo colleghi al Mediterraneo, distante circa 25 km. Così le acque, fluendo lungo il canale, andrebbero a riempire il bacino lacustre, realizzando il sogno di un mare nel deserto. Si calcola che il conseguente sviluppo agro-industriale, turistico e abitativo potrebbe creare fino a 50 mila nuovi posti di lavoro.

Finanziare questi due grandi progetti sarebbe il modo più serio, più utile ed efficace di “aiutarli a casa loro”. Altrimenti la crisi migratoria continuerà a mietere vittime innocenti con la gravissima perdita di energie umane e produttive per i paesi di loro provenienza. Sarebbe bello se l’Italia riuscisse a diventare la guida per l’Europa di tali concrete politiche di sviluppo.

In testata: Il lago Ciad oggi. L’acqua si sta ritirando e la forte salinità del suolo rende difficile la vita sulle aree che restano allo scoperto. Foto OUALID KHELIFI/UNHCR

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La fine del catechismo

Trovo strana ma tutto sommato molto italiana l’inversione di quest’estate: in pochi giorni le ONG diventano paracriminali, mentre ora in Libia arruoliamo i contrabbandieri come guardie di frontiera. In più, qualche africano neanche emarginato ma solo ingrato e sciagurato ce la mette tutta per finire sui giornali, mentre la sindaca di Roma pensa di risolvere in due giorni una situazione vecchia di anni. Definisco molto italiano questo modo di fare perché i nostri politici sono velisti da regata, pronti tutti a sfruttare il vento in vista delle elezioni. Ed essendo ormai in perenne campagna elettorale, l’allenamento è continuo. E siccome si pensa che i voti li prenderà chi sarà capace di frenare l’immigrazione dall’Africa, meglio ancora se musulmana, il calcolo viene prima dell’ideologia, sperando che nessun elettore si accorga che in politica l’originale è meglio della brutta copia.

Perché parlo di catechismo? Col termine intendo un insieme dottrinale di concetti enunciati con chiarezza – quindi comprensibili – e ribaditi di continuo, in linea con la tradizione dei cristiani sociali e del vecchio partito comunista. Ma se ai concetti non si accompagna un’adeguata analisi teorica, tutto resta infine un insieme di frasi fatte e come tale viene ripetuto alla nausea dai mass-media. In più c’è il problema di qualsiasi politica: il passaggio dall’idea alla realizzazione concreta nel sociale. Faccio qualche esempio: “La società futura sarà multietnica e multiculturale” ; “lo straniero ti arricchisce” ; “ fuggono dalla guerra”. Analizzando questi stupendi concetti: nel primo caso ormai il futuro è il presente, ma ancora non è chiaro come questa società deve funzionare. Che lo straniero o l’immigrato ti arricchisca è vero fino a un certo punto, visto che si tratta di masse di poveri. Quanto alla guerra, spesso è difficile distinguere il profugo politico da quello economico, anzi trovo la distinzione praticamente priva di senso e spesso impossibile da certificare.

Ora, cosa non ha funzionato? Cosa ha spinto la politica a cambiar vela di corsa? Perché la gente normale non segue più neanche gli appelli di papa Francesco? Proviamo a dare qualche risposta.

Lasciando da parte – per ora – la diffidenza verso l’Islam, alimentata dal terrorismo ma forte della presenza in Italia di quasi due milioni di musulmani (partiti da zero quarant’anni fa), la prima osservazione è che da dieci anni viviamo una crisi economica e dunque sociale, quindi le classi sociali meno ricche e meno scolarizzate devono spartire le risorse con i nuovi arrivati, ma in modo perverso: diminuiscono le prime, mentre aumentano i secondi. La seconda osservazione è che lo Stato si sta riprendendo solo ora le prerogative che aveva delegato a organizzazioni private. Parlo delle cooperative di volontariato o di assistenza, degli appalti e subappalti per insegnare l’italiano ai migranti, dei centri gestiti da chi non l’ha mai fatto prima, e naturalmente delle ONG. Si può anche parlarne male, ma il termine stesso “non governative” suggerisce che per definizione queste organizzazioni non sono necessariamente allineate alla politica del governo, qualunque esso sia. Possono commettere qualche peccato veniale per la giusta causa, ma sono coerenti con sé stesse, a differenza di un governo che accoglie tutti e poi non sa che farne e dove metterli. Se sono davvero una risorsa, i migranti non sono valorizzati come serve. Anche per questo la gente mugugna.

Tra una Costituzione disattesa o un eccesso di difesa

Da dove iniziare? Naturalmente dall’articolo 11 della Costituzione:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

L’Italia dunque rifiuta la guerra, tant’è vero che lo ha messo per iscritto e a chiare lettere. Ma è proprio vero? Storicamente lo è, ma solo dopo la disastrosa sconfitta militare che ha spazzato via il regime fascista e la monarchia che lo aveva appoggiato. Fino a quella data l’Italia di guerre ne ha fatte tante, con alterne vicende e col supporto di un apparato ideologico superato solo da pochi anni. Il libro di Andrea Santangelo a dire il vero inizia da molto lontano, addirittura dalla preistoria e protostoria italiche, mentre forse troppo poco è dedicato ai decenni più recenti. Che le legioni romane siano un esempio perfetto di grande unità funzionale ai fini strategici di Roma lo sapevamo, com’è assodato che le guerre italiane sono passate dai professionisti al popolo grazie alle guerre napoleoniche, lasciandosi alle spalle le compagnie di ventura e le guerre dinastiche. L’excursus storico copre mille anni, ma in effetti senza leggerlo è difficile capire come mai una penisola in mezzo al Mediterraneo possa essere, a seconda delle epoche, troppe volte terra d’invasione (anche ora) e quasi mai potenza egemone. In senso negativo hanno influito sicuramente il frazionamento politico che segue la caduta dell’Impero Romano, il feudalesimo, il potere temporale dei Papi e così via. Ma arriviamo finalmente all’unità d’Italia, guarda caso attraverso le guerre d’Indipendenza, tre per i manuali scolastici, quattro con la Grande Guerra secondo la vecchia ideologia. L’Italia a quel punto cosa fa? Ambisce al ruolo di media potenza e, pur priva di risorse, sgomita per entrare nel concerto europeo, cerca di conquistare colonie e devolve alle forze armate parte consistente del PIL, introducendo la leva obbligatoria e stabilendo la centralità dell’Esercito nella vita sociale italiana. La guerra poi può anche deflettere verso l’esterno le tensioni sociali, come sanno tutti i nazionalisti. La dinastia sabauda poi ha origini e tradizioni guerriere e le ribadirà fino alla fine, anche se nessuno dei Savoia regge il confronto con gli antenati: Emanuale Filiberto comandante dell’invitta 3° armata nel 1917 è un mediocre stratega e il Duca d’Aosta che si arrenderà ad Amba Alagi nel 1941, in quei frangenti altro non poteva fare. Quanto a Vittorio Emanuele III, si fa sempre ritrarre in divisa e nella Grande Guerra è il Re Soldato che visita tutti i reparti, ma nel 1943 lascia i soldati al loro destino. Quanto abbia influito nel Regno d’Italia lo spirito di casta dei militari di alto grado legati al Re ma nei fatti poco preparati al loro mestiere è comunque un argomento trattato nel libro. Sia chiaro: in Italia il concetto di casta è relativo, visto che agli alti gradi delle FF.AA poteva arrivare anche la piccola e media borghesia di provincia, ma quello dei militari di carriera era ed è rimasto per decenni un mondo a parte. Peccato che l’autore non vada in profondità, perché la Grande Guerra ha messo in crisi un sistema intero e perché alla fine le guerre italiane si somigliano tutte, comprese le attuali c.d. operazioni di pace: la mancanza di risorse spinge ad alleanze temporanee, le decisioni politiche non vengono affrontate in modo coordinato; le operazioni militari sono inizialmente assai caute, lente, e il dispositivo militare si dimostra sempre sottodimensionato e inesperto, salvo imparare la lezione a proprie spese e se il nemico gliene lascia il tempo. Il risultato è quindi alla fine sempre inferiore alla spesa e lo sforzo richiesto agli italiani supera il preventivo iniziale. Niente di che meravigliarsi se a livello popolare esercito e guerre non sono la passione degli italiani. Andrebbe però meglio analizzato il rapporto profondo che lega gli italiani alla propria classe dirigente, visto che le guerre non si fanno senza un consenso collettivo. Il Fascismo ha cercato di ottenerlo, ma nella riforma delle proprie forze armate ha inciso solo sulla forma (scenografica) e non sulla sostanza, affrontando una guerra mondiale con un esercito buono per quella precedente, e non incidendo assolutamente sulla casta militare sabauda, antiquata e poco aggiornata sulla guerra moderna. E’ vero che l’esercito era del Re, ma le Camicie Nere (MVSN) non erano certo meglio comandate, addestrate ed equipaggiate dei reggimenti di linea. Di questo il libro poco parla, ma sarebbe invece un ottimo argomento di studio. Già comunque lo storico inglese Denis Mack Smith ne Le guerre del Duce (1976) aveva notato che il Fascismo ha sempre cercato la guerra ma poco si dava da fare per organizzarla in modo moderno. Ma passiamo al dopoguerra: l’Italia ha perso tutto, è stata devastata da sud a nord e sia popolo che nuova classe politica di guerra non ne vogliono più sapere. L’Italia però entra nella NATO nel 1948 e fino alla fine della Guerra Fredda (1989) avrà precisi obblighi militari, subordinati agli USA, che hanno interesse ad avere basi militari proprie e considerano il nostro paese strategicamente importante. Sono gli anni dell’egemonia democristiana, ma anche quelli in cui tutti gli italiani maschi hanno fatto il militare nell’arco geografico che va da Bolzano a Trieste. Ma sono comunque anni di pace, mentre nell’arco della loro vita i nostri nonni e padri hanno fatto anche due guerre. Da trent’anni a questa parte abbiamo poi scoperto (o riscoperto) la nostra vocazione internazionale e accettiamo di mandare soldati ovunque la pace sia minacciata, cioè quasi dappertutto. Le c.d. operazioni di pace sono affidate ragionevolmente a soldati professionisti e il bacino di reclutamento è assicurato dalla disoccupazione meridionale, ma bisogna prendere atto che la loro qualità – ufficiali e sottoufficiali compresi – è sicuramente migliorata e la loro esperienza preziosa. Rimane aperta la questione di cui si parlava prima: quali sono gli interessi nazionali e come vengono prese le decisioni politiche? Ci siamo fatti invischiare in Iraq e in Afghanistan; la Folgore nel 2000 l’abbiamo mandata persino a Timor Est, mentre in Libia nel 2011 la guerra ce la siamo fatta da soli, né ancora si capisce bene come vogliamo gestire il problema dei migranti e di chi traffica sulle loro vite. Sappiamo ora dalla TV che manderemo soldati in Niger, ma – per carità – non combatteranno. Nel frattempo ci si è accorti di quanto costa un esercito professionale e si vorrebbe reintrodurre una sorta di servizio militare ausiliario. Purtroppo l’instabilità politica italiana non aiuta né ha mai aiutato la strategia. Infine, nell’ultimo capitolo l’autore ipotizza la natura delle guerre del futuro, compresa la cyberwarfare. Che dire? Chi fa la guerra non produce armi e noi le esportiamo. La guerra elettronica è una eccellenza russa e americana, mentre noi europei ancora non riusciamo a coordinare un’industria bellica comune. Sul terrorismo nulla di originale; sulla resilienza dell’italiano medio di fronte alle varie crisi imposte dalla globalizzazione poche righe. Ma lascerei aperto il capitolo, anche se scritto nel 2017: le operazioni russe in Siria suggeriscono la sopravvivenza di operazioni militari tradizionali integrate da guerra irregolare, i c.d. conflitti misti. Mai fare l’errore di prepararsi a combattere un solo  tipo di guerra. E soprattutto, non rimuovere il problema. Fino alla Guerra Fredda la guerra veniva chiamata col suo nome, ora si parla solo di pace, anche quando si mandano i soldati in missione in zone dove si spara. Parlate coi militari e sentite cosa ne pensano delle belle parole riservate al telegiornale! Indicativa poi è la storia del 4 novembre: fino al 1976 era festa nazionale ed era ufficialmente il giorno della Vittoria (del 1918); successivamente è stato derubricato e ogni anno viene ribattezzato e ridefinito in una maniera diversa. Se anche la guerra è stato l’elemento che ha unito l’Italia e gli italiani, perché negarlo? E per una volta che abbiamo vinto noi, perché dobbiamo vergognarcene? Come si vede, l’Italia è ancora un paese politicamente giovane.

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L’Italia va alla guerra.
Il falso mito di un popolo pacifico
di Andrea Santangelo

Editore: Longanesi, Milano, 2017, pp. 199
Prezzo: € 16,90
EAN:9788830448261

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Partita a scacchi nel Mediterraneo: Il Poseidon

di Aldo Ferrara

Lo stato dell’arte nella situazione del Medio Oriente

Mentre il Presidente Trump sposta a Gerusalemme l’Ambasciata USA, con tutte le implicazioni politiche che ciò comporta, l’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini si affretta a dichiarare di aver “… rassicurato sulla ferma posizione dell’Ue, che lo status finale di Gerusalemme come capitale futura di entrambe gli stati, sia decisa con negoziati che soddisfa(i)no le aspirazioni delle parti”. Lo zoom politico ci riporta dunque, dal triangolo del Nord-Irak curdo verso quel versante da decenni condizionato da eventi bellici. La nostra interpretazione geopolitica vede anche nel petrolio una delle cause, neanche nascosta,di quanto si apprende nei media.

Il petrolio genesi di nuovi equilibri nel MO

Lo scacchiere del mediterraneo orientale si arricchisce di un nuovo evento. Cipro, Grecia, Italia e Israele hanno concertato il progetto di un gasdotto idoneo a ridurre la dipendenza dell’UE dalla Russia.

dal sito IGI-Poseidon
Il novo gasdotto EastMed. Dal sito IGI-Poseidon

La progettazione e costruzione sono di competenza della IGI Poseidon, joint venture della società italiana Edison e della società greca Depa. Il gasdotto, denominato EastMed, al termine della costruzione avrà una portata di ben 16/20 miliardi di metri cubi di gas/anno dal bacino levantino. Avrà la sorgente nel tratto di Mediterraneo tra Libano, Israele e Cipro in direzione Grecia e Italia. L’anno di esercizio definitivo è fissato nel 2025. La sua portata a regime consentirà l’afflusso di gas & greggio pari al 5% del consumo annuale dell’UE, ma ciò significa anche compensare i 100 miliardi di metri cubi all’anno che l’UE acquista dalla Russia (Andrew Rettman, EuObserver.com, 6 dicembre 2017). Il gasdotto presenta costi elevati, pari a oltre 4 miliardi di euro, sia pure con un contributo della UE di 2 miliardi di euro in conto della sicurezza energetica. Beninteso, non è dato sapere i prezzi con cui gas e petrolio saranno immessi nel mercato. Con i suoi 1.900 km è, al momento, la più lunga pipeline sottomarina al mondo e quindi presenta pari problematicità di tipo ambientale, basti immaginare un lunghissimo tunnel in fondo al Mediterraneo a rischio quotidiano di sversamenti.

Le implicazioni politiche

È il tragitto del nuovo gasdotto che induce a riflessioni di ordine geopolitico. Il tragitto sembra evitare le coste turche, quasi a conferma che il fascio degli oleodotti che attraversa quella nazione sia considerato a “rischio politico”. Inoltre questo gasdotto sembra la risposta politica al suo omologo del Nord, il North Stream II, il cui tragitto evita accuratamente le coste del Nord Europa, specie quelle polacche e danesi nella sua traiettoria verso lo sbocco tedesco, nel distretto di Greifswald.

La seconda considerazione riguarda i Paesi promoters. Appare evidente che nella situazione attuale del MO, nessuno dei Paesi promotori avrebbe sviluppato questo progetto, senza l’approvazione tacita o esplicita dell’amministrazione statunitense. Inoltre si evidenzia come sia interessata anche l’Italia in questo progetto. Il gasdotto, infatti, dopo aver percorso l’intero Mediterraneo orientale in senso trasversale, dovrebbe sfociare nelle coste pugliesi.

È prevedibile dunque una nuova sollevazione della popolazione già in lotta per la foce del gasdotto TAP nella spiaggia salentina di S. Foca.

La terza considerazione è che appare improbabile che il Governo italiano non ne fosse a conoscenza. Tuttavia l’Ente nazionale di riferimento, l’ENI, non è interessata nel progetto, affidato a una struttura, la IGI Poseidon, società in joint al 50% tra Edison e la greca Depa. Il beneplacito arriva indirettamente da una dichiarazione governativa italiana. Il ministro dell’industria italiano, Carlo Calenda ha dichiarato a Roma: “Siamo la seconda economia manifatturiera in Europa, la diversificazione e la qualità delle nostre fonti energetiche sono fondamentali per il Paese e la sua competitività”. Il ministro, che nella compagine governativa attuale è forse colui il quale gode di maggior credito, sembra quasi voglia dire: Diversifichiamo le fonti e con esse le industrie italiane coinvolte… Ciò significa che il ruolo dell’ENI resta universale, ma per questo progetto forse era più adatta una Compagnia privata, quasi che questa possa essere sganciata dagli obblighi internazionali italiani.

Che sia un’operazione ormai decisa lo dimostra la firma apposta a un memorandum d’intesa sul progetto EastMed, a Nicosia, martedì 5 dicembre 2017, dai ministri dell’Energia cipriota, greca e israeliana con l’ambasciatore italiano a Cipro, in previsione di un accordo intergovernativo per il prossimo anno:

Il Progetto

…”La capacità di progettazione del progetto è stata aggiornata fino a 20 miliardi di metri cubi all’anno, al fine di consentire il trasporto di più fonti di gas, dalla Turchia / confine greco e dalla regione del Mediterraneo orientale.

La strada Il punto di partenza dell’oleodotto è la stazione di compressione, situata nell’area di Florovouni a Thesprotia (regione dell’Epiro) dove si prevede che sia collegata ad altre infrastrutture di approvvigionamento di gas come EastMed e / o IGI Onshore.

Dalla stazione di compressione, il gasdotto continuerà verso l’approdo greco da dove attraverserà la piattaforma greca, discenderà il pendio nel bacino settentrionale dello Jonio, ascenderà il versante italiano e infine raggiungerà la terraferma italiana, a est di Otranto.

Il gasdotto proseguirà poi fino alla stazione di misurazione entro i confini del comune di Otranto, dove sarà collegato al sistema nazionale di trasporto del gas nazionale.

Stato europeo Lo sviluppo del progetto Poseidon è coperto da un accordo intergovernativo tra la Grecia e l’Italia, ratificato dai parlamenti competenti.

Nel 2015, a seguito del contributo del progetto agli obiettivi europei, il gasdotto Poseidon è stato confermato come Progetto di interesse comune (PCI), incluso dalla Commissione UE nella seconda lista PCI tra i progetti del Corridoio meridionale del gas.

Il gasdotto Poseidon è stato incluso anche nell’ultimo piano di sviluppo decennale (TYNDP), in linea con l’obiettivo degli ENTSOG (European Network Transportation System Operators) di creare un mercato unico europeo per il gas e una rete di trasmissione affidabile e sicura in grado di soddisfare le esigenze attuali e future dell’Europa.

Il gasdotto Poseidon ha beneficiato di sovvenzioni europee di ca. 9 milioni di euro attraverso i programmi del piano europeo di ripresa economica (EERP) e dell’energia transeuropea delle reti (TEN-E).”

Conclusioni

Sotto il profilo politico, è un progetto che non riduce certo le frizioni tra UE e la Russia. Ciò porterà a un’ulteriore divaricazione tra Paesi dell’Europa tradizionale e Paesi europei dell’Intermarium di Visěgrad, che sostengono l’indipendenza energetica da Gazprom e Rosneft, le principali aziende della distribuzione dell’oil di matrice russa.

Se queste sono le caratteristiche tecniche dell’oleodotto, ben altre sono le perplessità che suscita.

In primis, il ruolo cardine di Israele in questo progetto può riaprire nuove frizioni politiche, nell’ambito della UE, specie nei rapporti con la governance palestinese. Si pone anche una questione politico-giuridica: affidare a paesi non Membri UE la gestione della distribuzione dell’energia non rientra nel piano Energia 2009 e ripropone, come nel caso North Stream II, la questione degli oleodotti off-shore.

Anche sul piano ambientale pioveranno le critiche: un oleodotto che attraversi l’intero Mediterraneo per ben 1900 km pone problematiche di salvaguardia che metteranno a dura prova i rapporti tra Cipro e Grecia. Peraltro non sarà risparmiato il versante italiano dove i Comuni salentini, riorganizzati in Comuni per la Costituzione, cercano di impedire, a suon di ricorsi, lo sfocio della Trans –Adriatic Pipeline (TAP), a S. Foca, e medesimo comportamento potrebbero avere verso il futuro possibile sfocio del Poseidon nei pressi di Otranto.

Fonti:

Rettmann A. EU states and Israel sign gas pipeline deal,  EuObserver, 6 dic. 2017

IGI Poseidon sito http://www.igi-poseidon.com/en/poseidon

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