Gallerie

Giovanni Pisano: Il cesellatore del marmo

…Il percorso espositivo è organizzato in nove stanze, ciascuna delle quali ospita un’opera di Giovanni Pisano, il grande scultore che operò a cavallo tra il Duecento e il Trecento.
Si parte con un preludio: il rilievo con le Stimmate di San Francesco di Nicola Pisano, padre di Giovanni. È quanto resta di un monumento funebre risalente agli anni Settanta del Duecento, molto probabilmente eretto nella chiesa di Santa Maria del Prato, prima chiesa francescana di Pistoia, in luogo della quale fu poi costruita l’attuale chiesa di San Francesco. Il destinatario di questo sepolcro era probabilmente Filippo da Pistoia, già vescovo di Ferrara, di Firenze e arcivescovo di Ravenna.
Le altre otto stanze sono dedicate a Giovanni Pisano.
Nella seconda trova spazio una Madonna con Bambino, tondo in marmo che rappresenta uno dei vertici dell’opera del giovane scultore. Proveniente dalla collegiata di Sant’Andrea, è confluito nel Museo di Empoli. Le forme armoniche mostrano come l’artista avesse iniziato a muovere i primi passi sotto la guida paterna, ma la torsione del volto della Vergine permette di cogliere, in fieri, quell’idea di movimento che Pisano svilupperà nell’arco della sua carriera.
Per tutto il Medioevo fu frequente la pratica di riutilizzare le opere d’arte a seconda di nuove esigenze del culto: ne è un probabile esempio l’opera lignea esposta nella terza stanza, un Angelo in veste di diacono che ostende la testa di San Giovanni Battista. Il delicatissimo Angelo, che regge una grande e drammatica testa del Battista, presenta dissonanti aspetti stilistici: l’Angelo, in tutto corrispondente ai più noti esempi di scultura gotica francese della metà del Duecento, reggeva probabilmente in mano un oggetto più piccolo. Il volto del Battista, molto grande e dalle palesi differenze stilistiche rispetto al corpo della statua, è sicuramente attribuibile a Giovanni Pisano, all’epoca ancora giovane.
L’ultima opera è marmorea: una sobria figura allegorica della Giustizia (stanza 9), che faceva parte del monumento funebre di Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Enrico VII, morta di peste nel 1311. L’incarico di realizzarlo fu affidato al quasi settantenne Giovanni Pisano, considerato il miglior scultore di allora in Italia. Pur anziano, Giovanni dà prova di un’ulteriore, inaspettata evoluzione del suo stile, raggiungendo con quest’opera le vette di un’espressività meno stridente, più armonica, con la dolce mestizia del volto della Giustizia.

****************************

OMAGGIO A GIOVANNI PISANO
Dal 18 giugno al 20 agosto 2017

Pistoia
Palazzo Fabroni

Orari:
.dal martedì alla domenica e festivi
10-18
chiuso il lunedì

Ingresso:
intero € 6,00 – ridotto € 3,00

Informazioni:
tel. 0573/371214

****************************

 

Migrazione: Non bastano le pacche sulle spalle

Per anni l’Europa non ha mostrato interesse alla questione migratoria che coinvolgeva le “frontiere” del Mediterraneo, poi sono cominciati i rimproveri per il poco impegno italiano nello schedare e nel non riuscire a tenere quei fuggitivi in Italia, nel rispetto della convenzione di Dublino, ma solo da poco si è inaugurata l’era delle pacche sulle spalle, dei ringraziamenti per il lavoro svolto.

Ora però sarebbe opportuno andare oltre la semplice rassicurazione del presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker nell’affermare che l’Italia può “continuare a contare sulla solidarietà europea” sul fronte della crisi dei migranti.

Un piccolo passo è stato compiuto da Macron, europeista e sovranista, con la sua critica ai paesi dell’est che hanno confuso l’Unione europea come un emporio dove fare la spesa senza pagare la merce acquistata, mostrando cinismo nel trattare la questione dei rifugiati.

Il presidente francese pone comunque dei distinguo tra i profughi dalle violenze e quelli della carestie, come se morire di fame e sete non fosse una violenza pari a quella di trovarsi vittime di conflitti, solo per ribadire, come aveva fatto Hollande, che la Francia si attiene al nuovo trigono del motto della Rivoluzione francese in “Liberté, Égalité, Telibecchitè”, trovando la Fraternité obsoleta, chiudendo da tempo le frontiere.

Con il vertice di Parigi tra Italia, Francia e Germania, il ministro degli interni italiano ha posto la questione di un codice per le Ong impegnate nel Mediterraneo, oltre ad indirizzare le navi su altri porti per lo sbarco dei migranti ed a maggiori pressioni sui paesi europei non impegnati nella ricollocazione.

Un vertice quello parigino che si è posto come preparatorio a quello del G20 a Amburgo, ma soprattutto all’incontro informale dei ministri dell’Interno dell’Unione a Tallinn per superare le minacce italiane di chiudere i porti italiani alle navi straniere, con una revisione del Trattato di Dublino.

Mentre l’Italia minaccia la chiusura dei porti, Francia e Spagna, insieme ad altri paesi che non si affacciano sul Mediterraneo, sprangano i loro approdi e l’Austria mette in scena un spot elettorale, poi rientrato, con il voler schierare i blindati sulla frontiera del Brennero, come dimostrazione di tanta ammirazione e empatia per lo sforzo italiano.

Anche l’avvertimento del commissario alla Migrazione Dimitris Avramopoulos sul “Ricollocarli o ci saranno sanzioni” gridata contro l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca, pronto a proporre l’apertura di procedure d’infrazione, rimane solo una vaga minaccia.

A Berlino, al vertice preparatorio del G20, il primo ministro italiano Paolo Gentiloni ringrazia “i leader per la solidarietà e la comprensione per le difficoltà che dobbiamo affrontare in comune”, ma aggiunge anche che dopo tante espressioni di solidarietà è ora di passare ad un aiuto più concreto.

Il concreto aiuto che l’Italia si aspetta, viene specificato dal ministro degli interni Marco Minniti, in un maggiore coinvolgimento europeo nell’ospitalità dei profughi e nell’impegno di guardare all’Africa come soluzione e non come fonte del problema. Minniti all’incontro di Tallinn non ha commosso nessuno e vedere l’Africa come una risorsa rimane difficile con una Libia ufficialmente divisa in due governi e centinaia di tribù e milizie, oltre al fatto che la Cina si è radicata proprio negli stati africani da dove proviene gran parte della migrazione.

La Cina ha fatto dell’Africa, in questi ultimi decenni, un suo territorio d’oltre oceano, con gli enormi scambi di dare avere che difficilmente portano del benessere alle popolazioni native che continuano a migrare, anche per la cessione dei terreni più fertili alle compagnie cinesi, oltre ai conflitti per territori e ricchezze.

Tra pacche sulle spalle, tante parole d’incoraggiamento, ma soprattutto risatine di arroccamenti europei e porte chiuse, interviene Emma Bonino affermando che siamo stati noi a offrire i nostri porti, nell’ambito dell’operazione europea Triton, per gli sbarchi, ed ora è complicato disfare quell’accordo.

****************************

Qualcosa di più:

Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

****************************

Psichiatria e politica

Franco Basaglia ce lo aveva insegnato: la psichiatria afferisce non solo alla medicina, ma anche alla politica. Quello che non poteva immaginare è che si realizzasse anche l’opposto: che fosse la psichiatria a occupare il vuoto lasciato dall’analisi politica. A capo del neonato partito anti-islamizzazione (PAI) c’è infatti uno psichiatra criminologo, Alessandro Meluzzi. La fondazione del suo partito è curiosamente simmetrica e contemporanea a quella del suo omologo, il futuro Partito islamico, che è perlomeno promosso da una persona accreditata: Roberto Hamza Piccardo, l’ex esponente dell’Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii). Il 2 luglio, in via Maderna a Milano, si è riunita la Costituente islamica di cui Piccardo è segretario. Un’assemblea che, secondo l’ex esponente Ucoii, “vuole dare una rappresentanza democratica ai circa 2,6 milioni di musulmani italiani”. Chi pensava di guadagnar voti con l’approvazione dello Jus soli ha fatto male i calcoli: i gruppi etnici o religiosi si organizzano da soli, come del resto proprio in Italia insegna l’esempio della Sudtiroler Volkspartei.

L’iniziativa di Meluzzi ha in realtà un inquietante precedente: anche Radovan Karadzic’ era uno psichiatra. Vi rinfresco la memoria: presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina dal 1992 al 1996, politico e criminale di guerra condannato nel marzo 2016 a 40 anni di reclusione in primo grado dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia per genocidio (a Srebrenica), crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo e le altre campagne di pulizia etnica contro i civili non serbi durante la guerra in Bosnia. Sia chiaro: Meluzzi e Karadzic’ sono due persone diverse (per fortuna!), ma la loro coincidenza professionale è più di una curiosità.

Intanto, il dissenso politico verso l’islamismo è etichettato con una parola che non afferisce alle categorie della politica ma della psichiatria: islamofobia, esattamente come l’ostilità verso i gay è bollata come omofobia. Se io sono contrario all’islam politico perché difendo lo Stato laico, i diritti delle donne e la democrazia parlamentare sono forse un malato di mente? L’unica che affrontò il problema solo apparentemente semantico fu qualche anno fa l’antropologa Ida Magli, oggi ingiustamente dimenticata. In sostanza disse che nelle democrazie post-moderne il dissenso politico non ha un reale diritto di cittadinanza nel conformismo generale. Da qui etichette di comodo, come populismo, che scredita l’avversario ma non ne analizza le reali, profonde motivazioni.

Ma torniamo alla psichiatria. Proprio alla luce delle etichette di cui sopra, la spiegazione del paradosso è definibile come un rovesciamento: se tu non accetti o non capisci la mia opposizione politica e mi screditi come instabile mentale, allora io ti dimostro il contrario: sono uno psichiatra, quindi i pazzi veri li curo io. Le Brigate Rosse, l’OLP e l’ISIS, pur praticando il terrorismo, hanno sempre accusato lo Stato di terrorismo, ribaltando così l’accusa. E Karadzic’ trasformò la sua Bosnia-Erzegovina in un enorme manicomio a cielo aperto, dove l’opposizione al “paradiso” serbo era per l’appunto una malattia mentale.

 

Caporetto – una storia diversa

A ottobre di quest’anno ricorre il centenario della più grande sconfitta militare rimasta nella memoria italiana, e il libro di Claudio Razeto cerca di fare il punto su una vicenda tuttora controversa. Lo fa in maniera molto chiara, seguendo gli avvenimenti dal 1916 al 1918 e oltre, corredando la narrazione con una scelta accurata di mappe e fotografie d’epoca. In questo l’autore è uno specialista, vista la sua esperienza di ricercatore di archivi storico-fotografici e il suo lavoro all’ANSA. La dodicesima battaglia dell’Isonzo – così gli Austriaci chiamano Caporetto – portò il nemico a occupare Veneto, Friuli e Carnia in pochi giorni, fino alla linea del Piave, dalla quale è partita la nostra riscossa finale. Il fronte italiano correva per 600 km lungo l’arco alpino, ottimo per difendersi ma non per attaccare. In più, il Trentino (austriaco) s’incuneava in modo tale da minacciare lo schieramento italiano tutto proteso a est. Per ben due volte – nel 1916 con la Battaglia degli Altopiani o Strafexpedition e nel 1918 con la Battaglia del Solstizio – l’Italia rischiò l’invasione dalle valli del nord. A est le vie d’accesso all’Impero Austro-Ungarico erano solo due: la via per Vienna, cioè il valico del Tarvisio (dove era passato Napoleone) e la via per Lubiana, ovvero Gorizia e le gole d’Isonzo. Trieste era invece naturalmente difesa dal Carso, un ampio, arido rilievo prossimo alla costa ma ben difendibile. Scartato stranamente il Tarvisio, Cadorna per due anni e mezzo attaccherà sistematicamente su due soli punti: verso la val d’Isonzo e verso Trieste. Direttrici obbligate: la valle dell’Isonzo scende parallela all’arco orientale delle Alpi e l’accesso per Gorizia passa per un’ampia gola scavata dal fiume tra due montagne, di fronte a Tolmino. La presa di Gorizia (1916) è l’unica conquista significativa: le undici battaglie dell’Isonzo, tutte combattute su due soli fulcri, portarono a guadagni di terreno minimi a fronte di perdite enormi. Trieste non fu mai presa e nell’alta val d’Isonzo – circondata dalle montagne – ci attestiamo già dal 1916 nel saliente fra Caporetto e Tolmino. Ed è dal luogo fisico che dobbiamo partire: Caporetto, Kobarid per gli Sloveni, è un villaggio che occupa un’ampia conca lungo la valle dell’Isonzo dalla parte slovena, all’incrocio fra il fiume e la piana del Friuli. Noi, incuneati nel saliente, potevamo al massimo prendere Tolmino e risalire la ferrovia sino a Lubiana, mentre il nemico, una volta sfondato il varco verso Gorizia, avrebbe visto aperta la piana del Veneto, costringendo l’intero schieramento italiano ad arretrare per tutto l’arco alpino. E questo è esattamente quanto avvenne il 24 ottobre del 1917.

Il libro si apre immergendoci nello scenario che di poco precede la battaglia: si è conclusa la sanguinosa undicesima battaglia dell’Isonzo (agosto 1917) e l’esercito austroungarico ritiene di non poter resistere a un’altra offensiva italiana: al 31 agosto ha lasciato sul campo 85.000 uomini contro 144.000 nostri soldati. Abbiamo pagato un duro prezzo per pochi chilometri di terreno, ma restano ancora le risorse per un altro attacco frontale, mentre le riserve nemiche sono logorate. Il generale tedesco Ludendorff se ne rende conto e decide di intervenire a favore dell’esercito austro-ungarico. La situazione è favorevole: i Russi sono stati sconfitti e usciranno di scena, quindi è possibile spostare truppe dal fronte orientale. La 14° Armata di Otto von Bulow, marciando di notte, manovra dunque verso la Slovenia, mentre il generale austriaco Boroevic’, detto appunto “il Leone dell’Isonzo” rinforza le linee difensive. Cadorna insiste da anni con attacchi frontali sempre sulle stesse posizioni e Boroevic’ su quelle resiste e rincalza di continuo le perdite. La sua strategia è puramente difensiva, forse l’unica possibile, ma ha logorato il suo esercito. Entrambi i generali sono duri e privi di fantasia e combattono una guerra moderna col cervello antico. I tedeschi invece sono tatticamente più moderni e l’hanno già dimostrato su entrambi i fronti, coordinando artiglieria e fanteria e addestrando formazioni di assaltatori – Sturmtruppen – capaci di infiltrarsi in pochi punti dello schieramento e penetrarlo in profondità, superando così la guerra di trincea. Proprio nelle trincee di Caporetto regna una calma irreale: lo schieramento italiano è tutto proteso in avanti, la dodicesima battaglia dell’Isonzo sarà combattuta in primavera, ma Cadorna ha buone informazioni e rinforza le difese. Non può sapere però che i Tedeschi hanno mandato il generale Konrad Krafft von Delmensingen, comandante degli alpini tedeschi, l’Alpenkorps. I suoi uomini hanno un ordine preciso: infiltrarsi, trascurare le cime e sfondare a valle; al rastrellamento ci penseranno le successive ondate di fanteria. Per capirne il senso, consiglio un libro scritto dall’allora tenente Erwin Rommel, la futura Volpe del deserto: Fanteria all’attacco (1 ). Il suo reparto alpino di assalto addirittura prende le nostre posizioni aggirandole alle spalle e penetra per chilometri in profondità, mentre il nostro Comando ancora non ha capito la reale portata dell’offensiva. Colpa nostra: il fronte italiano è tutto proteso verso un saliente, ma poco scaglionato in profondità. E’ uno schieramento anomalo: offensivo ma costretto in uno spazio chiuso e serrabile a tenaglia. Ma Cadorna, pur cosciente del pericolo, non accetta di cedere il terreno conquistato a caro prezzo, mentre il generale Capello, a capo della 2° Armata, non è d’accordo e pianifica una controffensiva che non solo va contro gli ordini di Cadorna, ma che non sarà mai sferrata. Sui contrasti fra i due generali è stato scritto molto, ma senz’altro Capello è più moderno del suo capo. Anche Badoglio, comandante del 27° corpo d’Armata, è fiducioso, ma il giorno dopo i suoi cannoni non spareranno neanche un colpo (2). Questo scoordinamento al vertice sarà disastroso.

Nel libro, l’attacco iniziato alle 02.00 del 24 ottobre 2017 viene descritto come in una radiocronaca, citando anche fonti austro-tedesche (3). Bombardamento intenso e preciso, uso dei gas, seguito dalle 06.20 dall’assalto duro e deciso delle truppe d’assalto contro Plezzo (Bovec) da nord e da Tolmino (a sud), favorite dalla nebbia. Questo comunica una nostra postazione avanzata:

Gli austriaci sono usciti dalle trincee, li vediamo, tra la nebbia, che vengono avanti, passano i reticolati. Noi ci ritiriamo.”

Le linee italiane crollano subito e il sistema di comunicazioni entra nel caos; la resistenza si tramuta in rotta e lo sfondamento del fondovalle spalanca al nemico la pianura friulana e veneta. L’artiglieria italiana non spara un colpo e tutto lo schieramento italiano si ritira in disordine. Ai soldati trincerati sulle quote il nemico ci penserà dopo: le avanguardie vanno avanti, senza preoccuparsi dei collegamenti. Gli stessi tedeschi e austriaci sono sorpresi dal successo. Così scrive un ufficiale austriaco, il tenente Weber:

Neppure la notte impedì agli attaccanti di accrescere a ritmo vertiginoso i successi già ottenuti, di trasformare lo sfondamento in un disastro totale, la ritirata del nemico in una fuga”

Il 28 ottobre, quando Udine non era ancora caduta, il generale Cadorna dirama il discutibile comunicato, passato alla storia, nel quale accusava i soldati di viltà:

La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della 2° Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, hanno permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia.”

Giudizio ingiusto, sfruttato anche dalla propaganda austro-ungarica. Presto ricorretto ma noto a tutti, questo comunicato fu la Caporetto anche di Cadorna, destituito dal nuovo capo del Governo, Vittorio Emanuele Orlando. Il nemico aveva applicato tattiche più moderne, ma il motivo della sconfitta era tutto interno allo Stato Maggiore. Cadorna in realtà non era diverso da Haig, Joffre, Nivelle e Hamilton: tutti i generali della Grande Guerra erano anziani, aristocratici e disprezzavano le masse quanto il parlamento, quindi incolpare la propaganda disfattista e socialista era per loro normale, solo che in Italia nessun movimento politico d’opposizione – Chiesa cattolica compresa – aveva una reale influenza sui soldati e sulle masse. Piuttosto, la vera carenza della politica italiana – e non solo italiana – era lo scarso controllo sui militari: oggi Cadorna e Badoglio sarebbero destituiti entro un mese e la struttura di SM è più articolata. Quanto ai soldati, ormai ci si chiede piuttosto come hanno fatto a resistere per tanti anni in condizioni di vita inaccettabili anche all’epoca. La risposta sta nelle tante, significative foto che Razeto ha scelto per accompagnare la narrazione: trincee, paesaggi devastati, ma soprattutto uomini. E’ impressionante il contrasto fra Sturmtruppen e fanteria di linea, fra i duri volti degli Schuetzen che difendono casa loro e lo sguardo straniato del contadino italiano mandato su un altro pianeta. Ma è proprio quel tipo di soldato – oggi introvabile – che alla fine ha resistito e vinto.

La narrazione continua: dopo l’Isonzo e il Tagliamento, alla fine – è il 9 novembre – resta la linea del Piave. Abbiamo perso circa 12.000 morti, 30.000 feriti e 265.000 prigionieri (nota: i morti sono 12 volte meno dell’undicesima battaglia dell’Isonzo) e l’invasore dilaga in tutta la pianura veneta. La ritirata ora si ricompone, l’avanzata nemica ormai raggiunge la zona di esaurimento dell’offensiva. Nel frattempo il comando passa al generale napoletano Armando Diaz, più umano con i soldati. Anche qui Razeto ci fa praticamente marciare insieme ai soldati, con testimonianze di entrambi i fronti. Alla fine del 1918 l’ago della bilancia penderà dalla nostra parte. Per sempre. Ma il regolamento di conti interno al nostro esercito sarà lungo: la commissione d’inchiesta costituita il 19 gennaio 1918 pubblicherà i risultati nel 1919 e i suoi tre volumi rimangono tuttora un documento fondamentale (4). E infatti l’ultimo capitolo del libro s’intitola: Processo a Caporetto.

****************************

Caporetto. Una storia diversa
Claudio Razeto
Editore: Edizioni del Capricorno, 2017, p. 166

Caporetto – una storia diversa

Prezzo: EUR 9,90

ISBN-10: 8877073330
ISBN-13: 9788877073334

EAN: 9788877073334

****************************

NOTE

  1. Fanteria all’attacco / Erwin Rommel . Longanesi, 1982. Il libro uscì in tedesco nel 1937, quando Rommel insegnava all’Accademia militare di Potsdam.
  2. Badoglio, duca di Caporetto / Carlo De Biase. Roma, edizioni del Borghese, 1965
  3. Dal Monte Nero a Caporetto : le dodici battaglie dell’Isonzo, 1915-1917 / Fritz Weber Milano : Mursia, 1972. L’autore è un tenente di artiglieria austriaco, il quale stima i nostri soldati molto più di quanto non facessero i nostri generali.
  4. Dall’Isonzo al Piave : 24 ottobre-9 novembre 1917 / relazione della Commissione d’inchiesta R. D. 12 gennaio 1918, n. 35 Roma, 1919.    3 volumi: · 1: Cenno schematico degli avvenimenti . 2: Le cause e le responsabilità degli avvenimenti · 3 / relazione della Commissione d’inchiesta

 

75 ore a Milano

Premesso che è consigliabile perdersi in una città per poterla apprezzare o diventarne allergico, il vero e proprio viaggio inizia appena fuori dalla stazione.

Remo Turchi, alla fine degli anni ’30, cinguettava: Passeggiando per Milano /camminando piano, piano / quante cose puoi vedere, / quante cose puoi sapere, poi venne Memo Remigi con Innamorati a Milano (1965) – Sapessi com’è strano / sentirsi innamorati / a Milano. / Senza fiori, senza verde, / senza cielo, senza niente / fra la gente, (tanta gente)  – e oggi abbiamo Dargen D’Amico che rap: Amo Milano perché quando il sole sorge / Nessuno se ne accorge / Amo Milano perché non si nota / Per l’Europa Italia, per l’Italia Europa / Amo Milano perché è un giardino degli Emirati / E siamo tutti immigrati.

Milano è una di quelle mete facilmente raggiungibili da ogni luogo d’Itala e di Europa, rendendo il viaggio godibile se realizzato con il treno per lo scorrere dei paesaggi e potersi soffermare alla giusta distanza, non è come essere ingabbiati nelle carlinghe volanti, con le storie narrate dai volti e dagli abiti dei cooviaggiatori, ma soprattutto potendo limitare le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera e trovarsi subito direttamente nel cuore della città.

È opportuno, scegliendo di arrivare a Milano dalla Stazione Centrale, prenotare la visita al Binario 21 e al Memoriale della Shoah da visitare magari il giorno della partenza, non essendo sempre aperto al pubblico. La visita è l’occasione di riflessione sulla “banalità del male” negli spazi sotterranei nei quali si accede da via Ferrante Aporti, dove gli ebrei venivano, dal 1943 e al 1945, raccolti e deportati, dopo una sosta di un paio di giorni, verso Auschwitz-Birkenau, Bergen Belsen o ai campi italiani di raccolta come quelli di Fossoli e Bolzano. Un’umanità che veniva caricata su vagoni merci, con l’utilizzo di un elevatore per essere trasportati al sovrastante piano dei binari.

Ci si accorge, uscendo dalla Stazione Centrale, della grandiosità pretenziosa della sua architettura, impegnata a dare un contributo più al pesante Déco che al Liberty, ma il risultato e una rilettura dell’architettura assiro-babilonese nell’ingabbiare binari e servizi in uno sproporzionato sarcofago. Una realizzazione nonostante tutto ben più austera, in linea con l’Italia giolittiana di quel periodo, di quello che prevedeva il progetto originario ricco ornamenti di corone, festoni e motivi geometrici astratti, oltre a torri, statue e orologi.

Nello piazzale antistante la Mela integrata di Pistoletto non è solo il simbolo di un’idea d’arte, ma anche il reale rifugio di un’umanità migratoria che sosta a Milano con la speranza di potersi ricongiungersi con i familiari in Francia, in Germania o magari sino ai paesi Scandinavi, come raccontato nel film Io sto con la sposa .

Si lasciano i bagagli a casa di amici o in una foresteria religiosa, per non andare incontro ai poco economici alberghi meneghini, affrontando poi una città che guarda più a Parigi per gli spazi che all’intimità viennese, come si decanta nel libro di Sellerio Milano è una seconda Parigi (2007) sulle impressioni dei viaggiatori angloamericani.

Milano appare subito come una città protesa verso il futuro, con passo spedito che da anni miete vittime nelle testimonianze del passato. Come le antiche mura del periodo romano, come di quelle medioevali e spagnole, grazie all’impegno del Barbarossa che le giudicava una sfida e poi successivamente con il ritenerle un impedimento alla viabilità cittadina.

La Torre Velasca o il Pirellone, progenitori dei nuovi grattacieli che costellano Milano, hanno sostituito le torri medioevali. Una città che per fare spazio a un “risanamento” edilizio ha sacrificato il Lazzaretto nel centro o l’antica chiesa della Ss. Trinità che in passato era nota come il Borgo degli Scigolatt (ortolani), rimpiazzata da un’altra dai dubbi risultati architettonici. Un edificio architettonicamente poco attraente, ma che è un riuscito esempio di scambio di conoscenze, non solo per l’oratorio e la catechesi, ma anche corsi di lingua, sovrastato dai palazzi della speculazione edilizia che hanno sostituito gli edifici di altri tempi.

Tra ciò che appare curioso sapere su Milano è quello di una città pratica capace di rinnovarsi senza crisi di coscienza nel buttare giù o spostare testimonianze di altre epoche in luoghi diversi da quello originale, come decontestualizzare un colonnato romano per far posto a un condominio.

Il trasporto pubblico è efficiente e grazie ad una serie di tessere orarie o abbonamenti ricaricabili che permette la prima tappa allo sfarzo e alla futilità dell’acquisto di oggetti e abbigliamenti che per molti significa lo stipendio di un anno. Si passa per corso Buenos Aires per raggiungere via Monte Napoleone.

Monte Napoleone è una zona ben diversa da viale Piave dove si trova la sede dell’Opera San Francesco per i Poveri, un punto di riferimento per gli indigenti bisognosi di assistenza gratuita e accoglienza, come il ristorante solidale Ruben (via Gonin, 52).

Il giorno successivo si passa dalla “necessità” del superfluo materialistico alla spiritualità dell’essenziale, con la visita di sant’Eustorgio e all’arca di San Pietro Martire, nella cappella Portinari, commovente esempio di scultura gotica del 1339. Più di una scultura è un’architettura ispirata alle virtù cardinali e teologali, impreziosite dalle figure allegoriche di animali e rappresentazioni mitologiche.

Ad arricchire l’iconografia la decorazione del sarcofago con le storie dei santi e la rappresentazione dei miracoli compiuti da san Pietro martire (il Miracolo del muto, della Nube, la Guarigione dell’infermo e dell’epilettico, il Miracolo della nave) per concludersi con il Martirio, i Funerali e la Canonizzazione.

Dopo un tour nella Milano d’epoca una passeggiata in quella odierna, protesa verso il cielo, con la suggestione di realizzazioni di architetti interessati più ai volumi imponenti, con facciate a specchio che ridisegnano lo skyline della città e meno alla durevole funzionalità degli spazi.

Complessi labirintici, come la nuova sede della Regione Lombardia, molto simile alle carceri del Piranesi e ben lontani dalla lezione razionalista.

Un tour tra le nuove edificazioni e i cambiamenti del quartiere Isola, un quartiere sventrato dalla stazione Garibaldi, chiamata una volta “le varesine” perché serviva principalmente il zona Nord di Milano (come le ferrovie Nord a Cadorna) ed in particolare la zona di Varese, utile per i treni diretti a Torino e per l’alta velocità, e da grattacieli di 25/30 piani che a tutt’oggi rimangono in gran parte vuoti.

La fantasia non manca, ma spesso l’architettura moderna pecca di lungimiranza nella durevolezza del manufatto, come i “grattacieli” milanesi che abbisognano di continue manutenzioni.

Sono edifici indubbiamente interessanti, ma ben lontani da quelli della Défense o di Canary Wharf, come il complesso di torri che vanno sotto il nome di Bosco Verticale, l’ultimo nato dello Studio Boeri, che mette in pratica la lezione di Patrick Blanc con i suoi giardini verticali come il Musée du quai Branly

Uno dei luoghi per poter avere un’idea dell’alta borghesia milanese, con i suoi capricci e ossessioni, è il Cimitero monumentale della metà dell’800, con un’infinità di riproduzioni dell’Ultima Cena di Leonardo in versione scultorea e una riproduzione ridotta della Colonna di Traiano. Viali alberati con una varietà di visioni per la “memoria” del caro estinto. Rare le lastre tombali con i dati essenziali, la maggioranza sono arricchite da sculture e ornamenti, per le famiglie altolocate si va dal Golgota rivisitato alle monumentali architetture dagli stili eclettici ispirate ai templi greci e obelischi elaborati, da elaborazioni neogotiche, sino a proporre un’architettura assiro lombarda e all’etereo cubo in memoria degli 847 milanesi caduti nei campi di concentramento. Un monumento semplice che si discosta dalle altre testimonianze funerarie sino al quel momento principalmente figurative. Progettato ed eseguito in una settimana, nel 1946, dal gruppo B.B.P.R. (Belgioioso, Banfi, Peressuti e Rogers), con successive ricostruzioni, è un cubo di tubi metallici con le facce suddivise in una serie di croci, con un cubo più piccolo e un’urna contenente la terra di Mauthausen.

Non è il cimitero parigino del Pére Lachaise, ma il cimitero milanese è il luogo dove hanno trovato riposo Alessandro Manzoni e Francesco Hayez, Arturo Toscanini e Vladimir Horowitz, Arrigo Boito e Sergio Monelli, Gino Bramieri e Alik Cavaliere, Walter Chiari e Guido Crepax, Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Un luogo ordinato e curato, ben diverso dal degrado, come stanno a dimostrare le tombe di Belli e Trilussa, che regna nel romano Verano.

Un museo all’aperto, turisticamente poco frequentato, che raccoglie gli esempi della scultura del XVIII secolo, contenuti in un complesso architettonico eclettico ideato nel 1864 dall’architetto-ingegnere Carlo Maciachini e con monumenti funerari realizzati da artisti come Medardo Rosso o Adolfo Wildt, con cappelle che spaziano dal Liberty che si trasforma in espressionismo, sino a proporre l’architettura degli anni ’50 e ’60.

A due passi dal Cimitero il Quartiere cinese, non una Chinatown dalle architetture caratteristiche, ma un dedalo di vie tra le più trafficate di Milano dove pullulano botteghe di artigiani nei cortili e su strada, dalle sartorie ai conciatori, ma anche del vetro, del ferro e del legno.

Una comunità presente a Milano sin dal 1920 e durante il fascismo il quartiere era chiamato “quartier generale dei cinesi”.

Alle spalle delle Stazione Centrale un altro luogo di multiculturalità è via Padova, ben pubblicizzata dalle iniziative promosse da Città Migrande per conoscere le culture presenti nella città attraverso visite guidate. Una zona compresa tra il Parco Trotter e Piazzale Loreto, dove i nuovi cittadini di Milano svolgono le loro attività artigianali e commerciali, tra gli aromi del curry e del cardamomo.

Il terzo giorno inizia andando alla scoperta del Lazzaretto di manzoniana memoria. Testimonianza del quadrilatero che componeva il Lazzaretto ora rimane San Carlo al Lazzaretto, detto San Carlino per le modeste dimensioni, conosciuto soprattutto per la descrizione che ne fa’ Alessandro Manzoni nel 36esimo capitolo dei I Promessi Sposi e il fulcro di un futuro parco letterario. Un edificio di conforto agli appestati e che ora risente degli oltre quattrocento anni di vita che aspetta ormai un energico intervento per risanare le lesioni e l’umidità che deforma l’architettura. Un restyling che si attende da anni e al quale partecipa anche il colosso delle omonime patatine che ha iniziato la sua attività nel 1936 a poche centinaia di metri dalla chiesa.

Altre tracce del Lazzaretto sono rappresentate dal frammento di muro nei pressi della Chiesa Russa Ortodossa di San Nicola di Milano, al numero 5 di via San Gregorio, dove è la presenza di un’icona che periodicamente lacrima olio vegetale, conosciuto anche come Sacro miron.

Il Museo del ‘900, senza sigle fantasiose, tanto di moda per i nuovi musei, è una tappa importante, nonostante venga ignorato da molte guide per essere stato inaugurato solo recentemente, non solo per il lavoro di recupero realizzato sul Palazzo dell’Arengario che si affaccia su piazza del Duomo, ma soprattutto per aver riunito alcune opere sparse nei vari luoghi di Milano, offrendo una lettura unitaria della storia dell’arte italiana degli ultimi cento anni. Ricevuto il benvenuto da una versione del Quarto Stato di Giuseppe Pelizza Da Volpedo, si possono affrontare gli arditi accostamenti come Braque e Morandi in due opere “minimali” dalle quali traspaiono i primi indizi di Cubismo nel primo e la grandezza delle “piccole” cose quotidiane nel secondo.

Il percorso espositivo è intricato ma la cortesia del personale facilita la comprensione senza perdere neanche un granello d’arte incentrata sulla presenza italiana nel panorama artistico del ‘900 con il Futurismo come discriminante tra la figurazione e l’astrazione. Con Umberto Boccioni si affronta questo passaggio verso la rarefazione, per approdare ad altro. Poi Lucio Fontana che prima di mettere in comunicazione il davanti con il retro delle tele attraverso i tagli dimostra che sapeva fare altre ben cose, dimostrando che non ci si inventa artisti. Seguno Carrà, Soffici, de Chirico, Sironi, Martini, Morandi, Fontana, Manzoni, Kounellis, la collezione Marino Marini con i mille volti della cultura del ‘900. Defilato non poteva mancare l’estroso Pistoletto.

Nel Museo è rarissima la presenza femminile per muoversi dal Futurismo al Novecento, dallo Spazialismo all’Arte Povera.

La maggior sorpresa il Museo la riserva nell’ultimo piano con le enormi vetrate per un impressionante sguardo sul Duomo e dintorni, poi ancora qualche scalino per accedere al contenitore con i tagli di Lucio Fontana. Il percorso termina con la discesa tra ascensori e scale mobili.

Lasciando il Museo e superando la Galleria Vittorio Emanuele II ci si trova davanti ad una scampata testimonianza della Milano Medioevale rappresentata dalle vestigia del Palazzo della Ragione, nella piazza dei Mercanti, poggiato su ampie arcate dove si ritrovavano gli artigiani e i bottegai per il commercio delle loro mercanzie. L’edificio, oltre al commercio, era adibito anche all’attività giudiziaria ed è un’isola nel degrado a due passi dal Duomo, con lo strano connubio di finestre dai vetri infranti e l’avveniristica scala di cristallo per accedere al primo piano.

Sul prospetto interno alla piazza, all’altezza di un pregiato pozzo del XIV sec., è possibile vedere il rilievo di Oldrado da Tresseno a cavallo (1233), attribuito alla scuola di Benedetto Antelami, podestà di Milano al quale si deve la costruzione del Palazzo della Ragione e difensore della fede e della spada, come recita in latino l’epigrafe posta alla base dell’edicola, che costruì il palazzo e bruciò, come doveva, i Catari.

Un periodo, quello del ‘200, d’insofferenza religiosa verso i Catari, e delle altre realtà considerate eretiche dalle gerarchie ecclesiastiche, che durò vent’anni e si concluse con la loro scomparsa dalla Lombardia e dall’Europa.

Sulla facciata “esterna” c’è la possibilità di scoprire il bassorilievo della Scrofa semilanuta, un mitico essere riconducibile alla leggenda sul fondazione di Milano attribuita al capo celtico Belloveso, arrivato da oltralpe, e alle indicazioni venute da una dea in sogno con le fattezze di una scrofa di cinghiale con il pelo molto lungo sulla parte anteriore del corpo, decidendo di costruire la sua città in quel luogo e di chiamarla Mediolanum, cioè “semilanuta” (medio-lanum).

La Scrofa semilanuta fu inserita nel gonfalone comunale, sino a quando venne sostituita come emblema della città dal biscione visconteo.

Se avete ancora del tempo per fare un salto fuori dal centro, in via Giulio Natta (Lampugnano), è possibile visitare un nuovo spazio mussale, il Mudec, dedicato alle culture del Mondo. Degno non solo per voler dare una casa alle diverse culture ma anche per essere un progetto dell’architetto britannico David Chipperfield che ha recuperato il distretto industriale nella zona dell’ex Ansaldo.

Nel QT8, quartiere che nasce per celebrare l’ottava Triennale di Milano (Q come quartiere T per Triennale e 8 per ottava edizione), è da visitare “Il giardino dei giusti del mondo” , sul modello dello Yad Vashem di Gerusalemme, in memoria di chi si è opposto ai genocidi. Un Giardino che ha trovato spazio sul cosiddetto Monte Stella, un’altura cresciuta con le macerie degli edifici distrutti dai bombardamenti subiti dalla città.

A Milano si può soddisfare ogni voglia di dolce e di salato, con le numerose pasticcerie e forni, mentre per i pasti, rimanendo nell’ambito milanese anche se non mancano locali multietnici, non si trova certo difficoltà a trovarne, ma se si vuole qualcosa di autenticamente milanese come la trattoria Madonnina in zona Navigli è necessario prenotare, ricordando che la domenica è chiusa come la meno centrale, ma altrettanto ambita, trattoria da Tomaso in zona Isola. Per chi ama atmosfere meno frenetiche, più pacate, si può rivolgere alla trattoria sant’Eustorgio, nell’omonima piazza, o Lo strapuntino a corso Garibaldi, dietro il Teatro Strehler.

Per il dolce e non solo Milano offre una vasta scelta, ma sicuramente la pasticceria Biffi (C.so Magenta 87) rappresenta la gioielleria dei dolci, dove trovare il panettone tutto l’anno con la possibilità di ordinarlo anche online.

Altrettanto nota, ma dai prezzi meno esagitati, la pasticceria Cucchi (Corso Genova, 1) con mille sfiziosità e dar non dimenticare il miglior panettone di Milano preparato (secondo l’antica ricetta e con ingredienti tutti naturali) la piccola ma rinomata pasticceria Corcelli (via Plinio 13).