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Afghani: rimpatri forzati fra le bombe

Tornano. Sono costretti a tornare nel Paese da cui erano fuggiti per cercare un’esistenza futura. Sono migliaia di afghani che, come altri migranti e rifugiati, si vedono respinti dall’aria che tira in Europa, un’aria xenofoba fomentata o subìta dai tanti governi Ue. Che in troppe circostanze, e nelle più diverse latitudini, non hanno attuato un’adeguata politica dell’accoglienza e dell’inserimento delle emergenze migratorie, così da ritrovarsi decine di migliaia di vite in sospeso. E nelle condizioni più varie: dalle para-detenzioni di taluni centri di accoglienza, alla ghettizzazione e all’autoemarginazione in città e campagne di chi cerca di arrangiare un’agra realtà pur di non tornare negli inferni conosciuti. Di chi si fa fantasma sociale pur rientrando nella catena dell’uso e dello sfruttamento di mano d’opera. Un fenomeno discusso dalla gente per via, prima che dai politici nelle sedi istituzionali e nei salotti televisivi. Discusso spesso in assenza d’informazioni, lamentando le proprie contraddizioni crescenti, col sangue agli occhi per la contrapposizione dei diritti e lo scontro razziale e razzista che ne consegue. E l’Italia non è fra le piazze peggiori, visti i muri e le minacce sollevati in questi anni dal pensiero neonazista riagitato nell’Europa della tradizione e della conservazione. Indifferenti all’orgiastica competizione dell’assassinio di civili per accaparrarsi la leadership del terrore che è in atto da due anni fra talebani e Isis del Khorasan, i governi del nostro continente aumentano i rimpatri forzati di richiedenti asilo afghani.

Nel 2016 avevano respinto circa 10.000 individui, compresi molti minori, nell’anno che s’è chiuso la cifra è aumentata, nonostante siano cresciute le vittime nelle province dove gli afghani vengono rispediti. Ma a premier e ministri degli Interni dei Paesi dell’Unione, anche quelle anime politiche che si fanno belle di sani princìpi di cristiana ospitalità poco interessa il contorno esterno. Premono ragioni di Stato e i risultati elettorali di un’Occidente ormai assillato da paure e chiusure, una società che si asfissia in una futile tecnologia della pace, trasferendo i prodotti della propria tecnologia della morte nel mondo posto sotto tutela. Cui s’aggiunge la sciagurata potestà delle alleanze economiche e geostrategiche che disegnano i disastri presenti nei luoghi di crisi. Con l’ultimo governo locale, frutto delle fallimentari alchimie sperimentate nei sedici anni di occhi e mani sull’Afghanistan, l’Occidente ha siglato il patto “Joint way foward”. Come nei tanti progetti sparsi dall’imperialismo  attorno alle sventure create, di condiviso in quella sigla non c’è nulla. Anzi, niente di più unilaterale si nasconde nella proposta rivolta al presidente Ghani. Se il Paese non accetterà di riprendere gli afghani che le nazioni rispediscono al mittente, Kabul, che già deve fare i conti coi serrati assalti jihadisti e talebani, vedrà tagliarsi i fondi  con cui l’Occidente lo mantiene in un comatoso stato di sopravvivenza. L’Afghanistan risponde a una tipologia di rentier-state. Utilizzato dalla Nato, e principalmente dagli Usa, quale avamposto militare strategico per l’Asia. Le basi aeree di: Kabul, Bagram, Parvan, Charikar, Kandahar, Khost, Paktia, Maza-e Sharif, Jalalabad garantiscono al Pentagono osservazioni, controllo e incursioni tramite F-16 e droni.

L’altra rendita proviene dallo sfruttamento del sottosuolo dove, nell’ultimo quindicennio, sono state scoperte vene minerarie cui è interessata l’industria bellica e l’high-tech. In realtà molti rilievi erano stati fatti a inizi anni Ottanta, durante l’occupazione sovietica. I russi, da sempre attenti a fonti energiche e materie prime, avevano compiuto scandagli, sapendo che per conformazione geologica gli urti fra subcontinente indiano e piattaforma asiatica aveva stratificato vari metalli. Dal 2004 l’Us Geological Survey, grazie all’occupazione dell’Enduring Freedom, ha formalizzato le ispezioni attorno a giacimenti di rame, ferro, cobalto, alluminio, mercurio, litio e le famose ‘terre rare’, stimando in mille miliardi di dollari il patrimonio di quelle viscere. A sfruttare talune riserve, il rame ad esempio, copioso in un punto dove c’è un’antichissima area archeologica (Mes Aynak) è il China Metallurgical Group. Il governo Karzai ne cedette l’estrazione trentennale all’azienda di Pechino in cambio di tre miliardi di dollari. Come per altre concessioni avvenute in questi decenni (terreni per le basi aeree, terreni per la coltivazione dell’oppio) non se ne è avvantaggiato il Pil del Paese; i capitali sono finiti nelle tasche di uomini di governo, clan familiari, clan tribali, Signori della guerra. Perché chi vuol sfruttare le risorse, dall’esterno e dall’interno, consente solo questa via. In quest’Afghanistan vengono rispediti, a morire o patire, i ragazzi che cercano un domani nella vecchia Europa.

Enrico Campofreda
Pubblicato 30 gennaio 2018
Articolo originale
dal blog Incertomondo
nel settimanale Libreriamo

Kabul, la corsa al primato del terrore

Prosegue la gara dell’attentato in una Kabul sfibrata più che blindata. Non c’è check-point, controllo, cinta muraria o ‘cittadella proibita’ che non possa risultare violata da attentati a ripetizione. Stamane la capitale afghana ne registra il terzo in dieci giorni, quand’è ancora mobilitata a tamponare la pesantissima strage di sabato presso l’ospedale Jamhuriat, in pieno centro città, dove le vittime sono salite a oltre un centinaio. All’alba un commando, in quest’occasione dell’Isis che ha rivendicato l’azione  (secondo alcune fonti compiuta di fatto da alleati tattici) ha assaltato l’edificio dell’Accademia militare d’élite ‘Marshal Fahim’, situato nella zona nord-ovest della capitale. L’attacco è durato ore, provocando l’uccisione di 11 militari e 4 assalitori, due dei quali kamikaze. Fra i motivi dell’azione attribuita alla rete di Haqqani, sempre riottosa verso il potere centrale talebano, ci sarebbero “sanzioni” americane verso il gruppo. L’unica sanzione che i comandi del ‘Resolute support’ riservano ai turbanti sono i missili per uccisioni mirate. E nel ‘mors tua vita mea’ tornata a essere unica legge vigente nella quotidianità afghana, talebani ortodossi, dissidenti, miliziani Isis autoctoni e venuti da fuori rivaleggiano a suon di assalti contro militari e civili del luogo. Alla popolazione che ha avuto la fortuna di raggiungere i trent’anni torna alla mente l’assedio di Kabul di inizio anni Novanta, quando a scontrarsi per il potere erano i Signori della guerra, divisi in bande che si cannoneggiavano dai crinali delle montagne attorno alla capitale.

Come allora, e con le diversità apportate dalla tecnologia, i kabulioti girano con dei foglietti infilati nel kurta-paijama. Ci son scritti: numero di cellulare, indirizzo di amici e parenti, gruppo sanguigno. Lo racconta un cittadino afghano a un inviato di Al Jazeera, ricordando come questo appunto potrebbe risultare inutile o essere solo scaramantico. La pesantissima aria che si respira negli ultimi mesi, proprio nel centro città, conduce all’incertezza e al pessimismo cronici. Ci son giovani che confessano di guardare più alla morte che alla vita e c’è chi pensa che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo. Si vive sospesi, fra esplosioni e un ossessivo riecheggiare di sirene. Dopo attentati devastanti, alcuni dei quali anche senza rivendicazione (quello del 31 maggio 2017 che fece 150 vittime), di certe persone si presume la morte perché non è stato possibile identificarle, in più taluni corpi dilaniati non riescono ad avere neppure una degna sepoltura secondo la ritualità islamica. Nello scenario della geostrategia terroristica, che s’interseca con la geostrategia dei Paesi che praticano il terrorismo di Stato attraverso interventi diretti e indiretti, l’attuale conflitto fra talebani e Isis vede sostegni e burattinai nient’affatto sconosciuti. Le intelligence statunitense e pakistana in primo luogo. Quest’ultima s’è trovata scavalcata in molte delle operazioni americane degli ultimi anni, dallo scontro con Qaeda per l’eliminazione di Osama bin Laden ad Abbottabad (2010), alla ripresa dei colloqui coi talebani da parte del governo Ghani, sempre su suggerimento di Washington (2016).

La trattativa è stata l’ultima pietra traballante posta dall’amministrazione Obama prima di lasciare la Casa Bianca. E non ha prodotto effetti. L’anno di Trump è stato, come per tante mosse della sua gestione, confuso, tranne vagheggiare ritorni di guerra massicci annunciati con la mega esplosione della Moab. Ma la partita afghana, in ballo da un quarantennio, calamita altri interessi. Oltre quelli delle basi militari statunitensi, il Paese è terreno di conquista fra contendenti regionali, e mentre Iran e Turchia rivaleggiano nel Piccolo Medio Oriente, il Pakistan è il gigante del Grande Medio Oriente. Da parte sua la megalomane monarchia Saud, protettissima dagli Usa, interviene su entrambi i fronti, in genere coi vari volti del jihadismo, Qaeda e ora Isis. Islamabad, l’alleato nucleare che impensierisce Washington, sta sicuramente lavorando con la sua Inter Services Intelligence sul fronte afghano. Lo scorso anno ha ricevuto 1.3 miliardi di dollari statunitensi, li usa anche per foraggiare la galassia talebana, la più difficilmente sradicabile dalla terra dell’Hindū Kūsh. E vuole la sua contropartita, fra l’altro difficilmente identificabile, viste le spinte centrifughe presenti nella più grande nazione islamica (200 milioni di abitanti, in gran parte sunniti, ma anche con tendenze fondamentaliste deobandi, e comunque 30 milioni di sciiti). Ad arricchire il panorama, la ‘protezione’ cinese del sistema pakistano, per gli effetti economici che Pechino conduce nella propria geopolitica, che la vede molto interessata alle miniere afghane, tanto da avere ottenuto da oltre un decennio il primato di ricerca e sfruttamento del sottosuolo, ricco delle cosiddette terre rare (scandio, ittrio, cadmio, ricercate nell’alta tecnologia) e non solo.

Enrico Campofreda

Pubblicato 29 gennaio 2018
Articolo originale
dal blog Incertomondo
nel settimanale Libreriamo

Africa: Il Sahel italo-francese non «combat»

Di un intervento italiano nel Sahel si parlava già dal maggio scorso con l’Operazione “Deserto Rosso”, ma la Difesa aveva smentito, ora è una realtà la presenza dei militari italiani nel Niger affianco delle truppe francesi, ma non per combattere, come ha tenuto a specificare il capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano, ma limitandosi ad «addestrare le forze nigerine e renderle in grado di contrastare efficacemente il traffico di migranti ed il terrorismo».

Ma la preparazione dell’intervento si potrebbe far risalire all’ottobre del 2016, con la decisione presa dal Consiglio dei ministri dell’allora presidente Matteo Renzi, con Paolo Gentiloni ministro degli Esteri, di istituire, nella capitale nigerina Niamey, una rappresentanza diplomatica che verrà aperta nel febbraio nel febbraio 2017 e successivamente (ottobre 2017), nell’ambito dell’accordo di cooperazione tra Italia e Niger, seguito dall’invio di una decina di addestratori  italiani.

Ora la prospettiva è di un contingente di poco meno di cinquecento militari che sembrano troppi per addestrare e pochi per contrastare efficacemente i trafficanti e i terroristi.

Nel Niger operano ben cinque gruppi terroristici tra Isis, al Qaeda e Boko Haram che alimentano il terrore. Pochi i nostri militari, troppi, o forse è il numero giusto per affiancare i militari francesi e statunitensi nel “difendere” gli interessi occidentali sulle risorse nigerine che non comprende solo l’uranio, ma anche petrolio, oro e diamanti.

Sicuramente per il governo italiano operare nel Niger significa bloccare il traffico di esseri umani per non fare intraprendere ad un’umanità disperata un viaggio pericoloso, ma anche perché scegliere il paese africano in posizione centrale (a nord l’Algeria e la Libia, a est con il Ciad, a sud con la Nigeria e il Benin e a ovest con il Burkina Faso e il Mali), e perché istruire i militari quando sarebbe più efficace un controllo sul malaffare e la corruzione che riducono permeabili e inefficaci le frontiere?.

Che cosa mai possono fare di più i nostri militari dell’addestramento francese alle truppe nigerine?

L’idea di intervenire in Africa nasce con il summit tenutosi il 13

dicembre 2017 presso La-Celle-Saint-Cloud, vicino a Parigi, dove il presidente francese Emmanuel Macron ha invitato non solo i paesi del G5 Sahel (Mali, Mauritania, Niger, Ciad e Burkina Faso), ma anche Italia, Germania, Arabia saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Precedentemente il Consiglio di sicurezza dell’Onu (giugno 2017) aveva approvato all’unanimità la nascita del G5 Sahel e il 30 ottobre scorso, gli Stati Uniti hanno promesso di fornire 60 milioni di dollari che vanno ad aggiungersi ai 58 milioni di dollari donati dall’Unione Europea e al contributo saudita di 100 milioni che permettono di avvicinarsi all’obiettivo di 492 milioni.

La scelta del governo italiano di spostare una parte dell’impegno militare italiano dall’Iraq al nord, nell’ambito della coalizione anti-Daesh, all’affiancamento del Corpo antiterrorismo G5-Sahel ha fatto sorgere delle sarcastiche critiche nel vedere i militari italiani come i pochi aiutanti dei soldati francesi, ma l’impegno è sotto l’egida dell’Onu che coinvolgerà non solo l’Italia e la Francia, già presente nell’area del Sahel con gli oltre 3mila militari dell’operazione «Barkhane», nell’affiancare i 5 paesi del Sahel, ma anche i soldati statunitensi e tedeschi.

L’impegno italico per contare di più in Europa si va a scontrare con l’attivismo Macron – Merkel nel rinverdire i fasti franco-tedesco degli accordi di amicizia del 1963 tra Charles de Gaulle e Konrad Adenauer, ma Gentiloni non si arrende e propone a presidente francese, nell’ambito del vertice Med-Set dei Paesi del Sud Ue, il «Trattato del Quirinale» e l’invio dei militari italiani in Niger è parte della strategia perché l’Italia non sia esclusa dalla prima fila europea.

Da sinistra si fa presente che i campi di concentramento libici continuano ad essere il teatro di stupri e torture, mentre dalla Lega si sollecita di sigillare i nostri confini, invece di chiudere i passaggi altrui, ma c’è anche l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

La presenza di militari fuori dal territorio nazionale è da ritenersi uno strumento di offesa o di prevenzione? È difficile instaurare un rapporto dialettico per la risoluzione delle controversie quando la controparte opera con le armi e non con le parole.

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Migrazioni, cooperazione Ue-Libia | L’ipocrisia sovranazionale
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L’Europa in cerca di una nuova anima

La nuova Cortina di Ferro all’interno dell’Unione europea vede ampliarsi il Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) con lo spostamento a destra dell’Austria e che farà muro contro l’impennata d’orgoglio dell’Ue nell’attivazione delle procedure previste dall´Articolo 7 dei Trattati, quando si riscontrano delle violazioni gravi di uno Stato membro, la Polonia, dei valori fondamentali dell’Unione.

La Polonia rischia sanzioni che prevedono la riduzione degli aiuti e la sospensione dei diritti di voto, per aver approvato una riforma che mina l’indipendenza della giustizia polacca, mettendo in pericolo lo Stato di diritto.

Il vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per la migliore legislazione, Frans Timmermans, ha affermato che la Polonia ha adottato, in questi ultimi anni, 13 leggi capaci di mettere in pericolo i valori fondamentali per uno stato democratico.

L’Europa solo ora si accorge di quanto la Democrazia sia in pericolo in Polonia, dopo aver lasciato da sole tutte quelle migliaia di persone che hanno manifestato per settimane contro il progetto legislativo per ingabbiare la Giustizia.

Per sospendere la Polonia dal diritto di voto in Consiglio, prevista dall’articolo 7 del Trattato, serve l’unanimità degli Stati membri che si prevede difficilmente raggiungibile, vista l’opposizione scontata dell’Ungheria di Viktor Orbán e degli altri del Gruppo di Visegrá.

Il Consiglio d’Europa potrebbe sospenderli tutti, dopo aver riscontrato non solo una deriva autoritaria nei singoli paesi, ma anche per la loro avversità a conformarsi alle scelte sulla ripartizione della ricollocazione dei richiedenti asilo all’interno della Ue.

Anche in occasione della risoluzione di condanna del riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale d’Israele, messa in votazione all’assemblea generale Onu, lo schieramento dei paesi dell’est europeo (Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania), si è differenziato dal resto della Ue, scegliendo di astenersi e non esprimere un voto contrario.

L’Europa, in occasione del caso Polonia, si sta muovendo non più per procedure di infrazione di ordine economico, ma per i valori fondanti dell’UE, e ciò potrebbe essere l’occasione di rifondare Unione sui principi originari e non solo sugli interessi economii.

Per l’Europa, ritrovare l’Anima del Manifesto di Ventotene, è un’opportunità per riscattarsi dai tanti anni di arido tecnocratismo e trovare un’unità nei valori etici piuttosto che sulla convenienza.

Una convenienza che i paesi di Visegrá sembrano aver ben messo a frutto e ora, dopo aver preso tutto il possibile dalla Ue, si apprestano rendere difficile la convivenza tra gli stati membri.

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Europa: anche i tecnocrati sognano
Migrazioni, cooperazione Ue-Libia | L’ipocrisia sovranazionale
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Un’altra primavera in Europa

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Africa: senza infrastrutture crescerà l’emigrazione

4 dicembre 2017

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Cambiamenti climatici, mancanza di acqua, avanzamento dei deserti, impoverimento dell’agricoltura. Non sono soltanto argomenti per dibattiti politici o accademici ma questioni reali che determinano la vita di intere popolazioni. Europa compresa. Per i paesi poveri, soprattutto dell’Africa, sono causa di emigrazione. E in Italia sappiamo bene che c’è un legame stretto tra sottosviluppo ed emigrazione. Oggi lo vivono fortemente i paesi del sud del mondo. Cento anni fa, cinquanta anni fa è stata la piaga che aveva colpito tutte le nostre regioni. E, purtroppo, lo sta diventando anche oggi. Possibile che non abbiamo imparato nulla dalla storia? Eppure alcuni interventi virtuosi potrebbero aiutare ad affrontare alla radice le cause della povertà e delle migrazioni incontrollate. Invece si spende solo per le situazioni di emergenza.

Al riguardo, recentemente si è tenuto a Roma il summit internazionale «Water and Climate: Meeting of the Great Rivers of the World – L’acqua e il clima: incontro sui Grandi Fiumi del Mondo», organizzato dal nostro governo insieme alla Commissione Economica per l’Europa dell’Onu. Con una partecipazione di oltre 100 esperti provenienti da 48 paesi, esso ha offerto una grande opportunità di confronto e di scambio di esperienze. Nel mondo vi è una crescente scarsità d’acqua che sta creando tensioni sulla sua ripartizione e sul suo futuro utilizzo. Ciò accade ancor di più, dove fiumi, laghi e riserve d’acqua interessano dei bacini che coinvolgono vari paesi e differenti confini. Possono diventare anche cause di conflitti e di terrorismo.

A livello internazionale non manca un principio guida, ma un effettivo processo di dialogo. Tali situazioni, invece, potrebbero essere opportunità di nuove e più efficaci politiche di collaborazione. Il summit di Roma è stato un momento importante per confrontare vari progetti tra le organizzazioni che gestiscono i grandi bacini fluviali e lacustri del pianeta. Uno di questi, forse il più importante ed emblematico, è quello della regione del Lago Ciad, in Africa. Sull’argomento è intervenuto il presidente del Consiglio dei ministri, Paolo Gentiloni, che correttamente ha evidenziato «la vicenda del lago Ciad che alimenta un bacino di settanta milioni di persone, in diversi paesi, la cui crisi gravissima negli ultimi decenni ha provocato effetti notevoli. Si calcolano due milioni e mezzo di persone sfollate in quel bacino». Ci sono persino relazioni evidenti tra la crisi idrica del lago Ciad, la destabilizzazione socioeconomica e l’emergere di minacce terroristiche in alcune di quelle regioni.

Abdullahi Sanussi

L’intervento è stato apprezzato da Sanussi Abdullahi, segretario esecutivo della Commissione per il Bacino del Lago Ciad (Lcbc), che, parlando di progetti di trasferimento idrico, ha ricordato che fu l’impresa italiana Bonifica del Gruppo Iri a sviluppare più di quarant’anni fa il progetto «Transaqua – Un’idea per il Sahel» per evitare il prosciugamento del lago e la sua progressiva trasformazione in deserto. Esso prevedeva la costruzione di un canale navigabile di 2.400 km che dal fiume Congo portasse acqua dolce fino al Lago Ciad. Lungo il suo percorso beneficerebbero molti paesi e popolazioni con effetti positivi sullo sviluppo agricolo, sulla produzione di energia pulita ed anche per nuovi insediamenti urbani sostenibili.

Riteniamo interessante il fatto che la succitata Commissione abbia già concluso un accordo con il colosso cinese delle progettazioni e costruzioni infrastrutturali «PowerChina» per un’ulteriore verifica della fattibilità del progetto, a cui partecipa anche la nuova impresa Bonifica che è subentrata alla vecchia società del soppresso Iri. La Commissione sta cercando altri sostegni e partecipazioni per assicurare che il programma sia economicamente fattibile e sostenibile anche a livello finanziario e politico. Il progetto potrebbe fungere da catalizzatore per altri programmi pan-africani, che colleghino l’Africa centrale all’Africa occidentale, e al Sahel, generando occasioni di sviluppo agroindustriale.

Un secondo progetto di rilevanza strategica è quello riguardante il lago salato Chott el Jerid, interno alla Tunisia. È in una zona minacciata dall’avanzamento del deserto. L’idea, vecchia di quasi 150 anni, sarebbe di costruire un canale navigabile che lo colleghi al Mediterraneo, distante circa 25 km. Così le acque, fluendo lungo il canale, andrebbero a riempire il bacino lacustre, realizzando il sogno di un mare nel deserto. Si calcola che il conseguente sviluppo agro-industriale, turistico e abitativo potrebbe creare fino a 50 mila nuovi posti di lavoro.

Finanziare questi due grandi progetti sarebbe il modo più serio, più utile ed efficace di “aiutarli a casa loro”. Altrimenti la crisi migratoria continuerà a mietere vittime innocenti con la gravissima perdita di energie umane e produttive per i paesi di loro provenienza. Sarebbe bello se l’Italia riuscisse a diventare la guida per l’Europa di tali concrete politiche di sviluppo.

In testata: Il lago Ciad oggi. L’acqua si sta ritirando e la forte salinità del suolo rende difficile la vita sulle aree che restano allo scoperto. Foto OUALID KHELIFI/UNHCR

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