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Migrazione: L’Europa e i suoi flussi condivisi

La cancelliera tedesca Angela Merkel, anche in occasione del mini vertice parigino sui flussi migratori condivisi, si pone come nume tutelare e apri pista a nuovi equilibri per una regolamentazione dell’accoglienza, come il “momentaneo” blocco dei ricongiungimenti in Germania, ed ecco che oltre a lodare l’operato italiano in Libia e per il codice di comportamento dedicato alle Ong, toglie ogni veto al superamento del trattato di Dublino, per non vincolare il profugo alla spiaggia d’arrivo e rendere partecipi tutti i paesi dell’Unione.

Nell’incontro di Parigi, oltre alla Francia e alla Germania, hanno partecipato i rappresenti di Italia e Spagna, oltre a quelli del Ciad, Niger e il premier libico al Serraji, ma non l’uomo forte dell’atra Libia generale Khalifa Haftar, per rafforzare i confini, e per dare un senso di ufficialità anche  all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini.

Un vertice per venire incontro non solo allo sforzo sostenuto dall’Italia, ma anche a quello sopportato dalla Grecia, stato che nessuno però ha ritenuto d’invitare, con la differenza che l’impegno italiano si addentra nelle zone grigie, intrattenendo rapporti con le varie milizie presenti in Libia.

Una situazione complessa quella nella quale l’Italia si è calata, superando ogni amletico dubbio, come viene posto all’odierna Mostra del Cinema di Venezia 2017 nel film L’ordine delle cose di Andrea Segre, tra etica e ragion di stato. Funzionari dello Stato italiano vigilano da tempo sulle interazioni tribali di una Libia post Gheddafi e ora osserva da vicino una Ue che nega se stessa e ogni diritto a quell’umanità “ospitata” nei discussi centri di raccolta.

L’Italia va oltre ai problemi esistenziali di un funzionario di polizia catapultato in Libia, toccando con mano la disperazione di un’umanità che non è formata, come sostengono in molti, da delinquenti. Donne e bambini non possono essere dei farabutti e molti uomini fuggono non solo dalla carestia, ma anche dalle persecuzioni religiose o tribali.

Venezia è anche dove l’artista cinese Ai Weiwei ha presentato il documentario Human flow, dedicato alla migrazione come un epico inarrestabile flusso umano. Un biblico mosaico di vite impegnate, visto il contesto nel quale si muovono, in una transumanza.

Nel film di Segre è espresso un travaglio esistenziale, con Ai Weiwei si ha un documentario stile National Geographic, dove tutta la tragicità della vita e i momenti gioiosi vengono proposti con gusto estetico.

Sulla migrazione vengono proposte visioni di spostamenti collettivi, ma esiste un esodo “privilegiato”, senza dover intraprendere perigliosi viaggi, fatto di un biglietto aereo o navale per chi è in possesso di documenti

Quello che potrebbe essere imbarazzante per la Ue che ha istituito il Premio Sacharov, ed è tacitamente permesso ai singoli stati dell’Unione, è come aprire agli accordi con il turco Erdogan o ipotizzarne altri con l’egiziano al-Sisi, ed ora ci si appresta a trattare con i governanti del Ciad e del Niger, dove la democrazia non è un consuetudine, e dove la Francia pensa di rafforzare la presenza militare con la scusante degli hotspot.

L’Unione europea si dimostra sempre più composta da singoli Stati più che da un corpo unico necessario per concertare un’unica posizione verso una Turchia che periodicamente è tentata a rendere permeabile, come fece Gheddafi, il suo confine verso l’Europa, per alzare la posta sugli aiuti.

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Macron: Un’Europa in salsa bearnaise

La Francia si è sempre dimostrata con una politica estera bivalente tra europeismo e interessi nazionali, schierandosi con la Ue e l’Onu nel appoggiare il capo del Consiglio del governo di unità nazionale libico, Fayez al-Serraj, ma simpatizzando con l’uomo forte di Tobruk, il generale Khalifa Haftar, tanto da garantirsi nella futura Libia un posto di riguardo.

Una posizione quella francese che ha certamente facilitato l’incontro tra le due parti alle porte di Parigi, nel castello di La Celle Saint Cloud, che non ha portato alla firma di un accordo sul cessate il fuoco e ad elezioni in primavera, ma solo a una dichiarazione d’intenti che non ha fatto limitato i toni trionfalistici, anche se Le Monde metteva in evidenza la mancanza di garanzie sul risultato Emmanuel Macron parraine un accord en Libye, sans garantie de résultat e l’irritazione di Roma per l’iniziativa non concordata.

Poche ore e i toni trionfalistici sull’accordo sponsorizzato dalla Francia sulla non belligeranza libica si trasformano in delusione ed ecco il generale Haftar non fa in tempo a ritornare in Libia che da del “fanfarone” ad al-Serraj, bollando come un Flop l’incontro parigino voluto da Emmanuel Macron per la Libia.

Forse si poteva essere prevedere un esito negativo, dopo il fallimento del primo tentativo, nel maggio scorso, ad Abu Dhabi.

Il caso ha voluto che la tradizionale politica francese si frantumasse davanti alla marcia trionfante di Macron, ma come la salsa bearnaise è nata dall’erroneo trattamento di uno degli ingredienti e con un nome riferito la soprannome di Enrico IV il Bearnaise, da Béarn della regione la nascita del sovrano conosciuto per la facilità di abiurare per interesse.

Un Macron che improvvisamente si trova a guidare la Francia che sogna di mettere al centro di ogni situazione geopolitica, i suoi predecessori si erano limitati a curare gli interessi francesi nelle ex colonie, lui vuol fare della grandeur La Grandeur, apprestandosi, dopo 10/15 anni di una Europa dal volto teutonico, a modulare la Ue con caratteri gallici, scoprendo un sovranismo europeista che si dilata nell’affaire Fincantieri-Stx, dove il patriottismo economico è un argine nel controllo italiano sul cantiere navale di Saint Nazaire, sulla foce della Loira, ma anche un’occasione di trattare per una parità in cambio di una cooperazione militare, oltre che civile.

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Migrazione: Non bastano le pacche sulle spalle

Per anni l’Europa non ha mostrato interesse alla questione migratoria che coinvolgeva le “frontiere” del Mediterraneo, poi sono cominciati i rimproveri per il poco impegno italiano nello schedare e nel non riuscire a tenere quei fuggitivi in Italia, nel rispetto della convenzione di Dublino, ma solo da poco si è inaugurata l’era delle pacche sulle spalle, dei ringraziamenti per il lavoro svolto.

Ora però sarebbe opportuno andare oltre la semplice rassicurazione del presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker nell’affermare che l’Italia può “continuare a contare sulla solidarietà europea” sul fronte della crisi dei migranti.

Un piccolo passo è stato compiuto da Macron, europeista e sovranista, con la sua critica ai paesi dell’est che hanno confuso l’Unione europea come un emporio dove fare la spesa senza pagare la merce acquistata, mostrando cinismo nel trattare la questione dei rifugiati.

Il presidente francese pone comunque dei distinguo tra i profughi dalle violenze e quelli della carestie, come se morire di fame e sete non fosse una violenza pari a quella di trovarsi vittime di conflitti, solo per ribadire, come aveva fatto Hollande, che la Francia si attiene al nuovo trigono del motto della Rivoluzione francese in “Liberté, Égalité, Telibecchitè”, trovando la Fraternité obsoleta, chiudendo da tempo le frontiere.

Con il vertice di Parigi tra Italia, Francia e Germania, il ministro degli interni italiano ha posto la questione di un codice per le Ong impegnate nel Mediterraneo, oltre ad indirizzare le navi su altri porti per lo sbarco dei migranti ed a maggiori pressioni sui paesi europei non impegnati nella ricollocazione.

Un vertice quello parigino che si è posto come preparatorio a quello del G20 a Amburgo, ma soprattutto all’incontro informale dei ministri dell’Interno dell’Unione a Tallinn per superare le minacce italiane di chiudere i porti italiani alle navi straniere, con una revisione del Trattato di Dublino.

Mentre l’Italia minaccia la chiusura dei porti, Francia e Spagna, insieme ad altri paesi che non si affacciano sul Mediterraneo, sprangano i loro approdi e l’Austria mette in scena un spot elettorale, poi rientrato, con il voler schierare i blindati sulla frontiera del Brennero, come dimostrazione di tanta ammirazione e empatia per lo sforzo italiano.

Anche l’avvertimento del commissario alla Migrazione Dimitris Avramopoulos sul “Ricollocarli o ci saranno sanzioni” gridata contro l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca, pronto a proporre l’apertura di procedure d’infrazione, rimane solo una vaga minaccia.

A Berlino, al vertice preparatorio del G20, il primo ministro italiano Paolo Gentiloni ringrazia “i leader per la solidarietà e la comprensione per le difficoltà che dobbiamo affrontare in comune”, ma aggiunge anche che dopo tante espressioni di solidarietà è ora di passare ad un aiuto più concreto.

Il concreto aiuto che l’Italia si aspetta, viene specificato dal ministro degli interni Marco Minniti, in un maggiore coinvolgimento europeo nell’ospitalità dei profughi e nell’impegno di guardare all’Africa come soluzione e non come fonte del problema. Minniti all’incontro di Tallinn non ha commosso nessuno e vedere l’Africa come una risorsa rimane difficile con una Libia ufficialmente divisa in due governi e centinaia di tribù e milizie, oltre al fatto che la Cina si è radicata proprio negli stati africani da dove proviene gran parte della migrazione.

La Cina ha fatto dell’Africa, in questi ultimi decenni, un suo territorio d’oltre oceano, con gli enormi scambi di dare avere che difficilmente portano del benessere alle popolazioni native che continuano a migrare, anche per la cessione dei terreni più fertili alle compagnie cinesi, oltre ai conflitti per territori e ricchezze.

Tra pacche sulle spalle, tante parole d’incoraggiamento, ma soprattutto risatine di arroccamenti europei e porte chiuse, interviene Emma Bonino affermando che siamo stati noi a offrire i nostri porti, nell’ambito dell’operazione europea Triton, per gli sbarchi, ed ora è complicato disfare quell’accordo.

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Missione e Cooperazione

olo-missioni-e-cooperazioneIn una recente serie di documenti ufficiali risalta la differenza tra le spese italiane per la Difesa e quelle per la Cooperazione, fortemente sbilanciate: 9 contro 1 (fonte: Rapporto Sbilanciamoci! 2016). In dettaglio, nel confronto con la spesa militare, negli anni l’investimento nella cooperazione è passato dal 14% all’11%. Mettendo insieme i due settori, l’Italia ha diminuito i fondi del 16,6%. E’ vero che, nel corso degli anni, attraverso il Decreto Missioni, la percentuale delle risorse destinate alla cooperazione è aumentata. Dobbiamo però ricordare che i fondi stanziati con l’atto rappresentano appena il 4% del bilancio totale per difesa e l’aiuto allo sviluppo. Per le missioni militari con il provvedimento si eroga all’incirca 1,3 miliardi di euro all’anno, la spesa militare totale dell’Italia è invece di 23 miliardi. Stesso discorso vale per la cooperazione: per una spesa totale poco sotto i 3 miliardi, con il Decreto Missioni se ne stanzia solamente il 4,57% (136 mln). Un’analisi complessiva rileva dunque la tendenza a diminuire la parte dedicata alla cooperazione, in dieci anni passata dal 14% all’11%. Nel 2005 la spesa totale era di 4,5 miliardi, passata poi nel 2014 ad appena sotto 3 miliardi di euro. Una contrazione del 34%, quasi tre volte quella della spesa per la difesa, che nello stesso periodo di tempo è diminuita del 13%. Quindi, in 10 anni la spesa complessiva è diminuita del 16,6%. L’investimento militare invece è passato dai quasi 27 miliardi del 2005, ai 23,3 del 2104. Ma perché nel frattempo la percentuale programmata per la cooperazione è scesa nel corso degli anni? E come opera nel mondo? Questo almeno è facile vederlo da questo sito specializzato sulla Cooperazione italiana.

Ma se fuori dei confini nazionali spendiamo molto per la componente militare e poco per quella civile, questo rivela un difetto di politica. Da oltre due secoli è assodato che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, mentre il primato della politica già lo aveva preconizzato Machiavelli. Ma è con la teorizzazione del generale prussiano Karl von Klausevitz (1780-1831) che lo strumento militare viene ricondotto sotto l’egida della politica, sorta di ‘ultima ratio’ – visto il suo costo economico e umano – per costringere l’avversario ad accettare le proprie condizioni. Nel caso poi, oggi frequente, di guerre civili e turbolenze esterne al proprio stato nazionale, si mandano i soldati per congelare la situazione sul campo, separando i contendenti o evitando che una parte violenti l’altra. Tutto questo finché non si trova una soluzione politica, altrimenti il presidio militare diventa costoso e indefinito: esattamente quanto avviene in Kosovo, in Afghanistan e in Libano. Sono passati 15 anni dalla nostra presenza in Afghanistan, dove abbiamo perso 53 uomini (di cui 31 militari), speso 6 miliardi di euro, impegnato fino a 4000 soldati per volta (ora sono meno di 1000), con scarsi risultati.  Quando c’erano gli Imperi i conflitti etnici erano una questione interna, oggi gli stati nazionali sono costretti quasi ogni giorno a intromettersi nelle guerre civili altrui per evitare massacri e soprattutto l’alluvione dei profughi alle proprie frontiere. E se l’Impero spostava i propri soldati da una provincia all’altra, gli stati nazionali sono invece costretti a chiedere ai propri cittadini il conto di operazioni militari che nessuno sente come proprie, tant’è vero che vengono sempre presentate come operazioni umanitarie. E se si rientra nelle spese, guai a dirlo! Quando si è saputo che dopo la seconda guerra del Golfo l’ENI aveva ottenuto concessioni petrolifere in Iraq, si è gridato allo scandalo, anche se non sta scritto da nessuna parte che una guerra umanitaria deve essere sempre in perdita, quando nessuno si scandalizza se la Cina cerca di occupare le isole ricche di petrolio del Mar Cinese meridionale in base a teorie simili a quelle dello spazio vitale teorizzato da Hitler in Mein Kampf.

Ho alluso prima alle carenze della politica. Oltre il 70% dei fondi per la cooperazione va ad organizzazioni internazionali e non direttamente ai paesi in via di sviluppo. E il 20% dei fondi per la cooperazione è devoluto a organismi internazionali o bilaterali, il resto viene gestito in proprio dall’Italia per vie dirette con i paesi destinatari. Sono 694 milioni euro. Albania, Afghanistan ed Etiopia sono stati i beneficiari maggiori degli accordi bilaterali, seguiti da Mozambico e Vietnam (dati del 2013). E’ interessante notare che sempre nel 2013 l’Italia ha promosso progetti in 113 paesi nel mondo, ma oltre il 40% delle risorse è stato impegnato entro i confini nazionali per far fronte all’emergenza rifugiati. Come dire che l’idea di aiutarli a casa loro per non doverne andare a prendere troppi davanti alle coste libiche è rimasta una bella idea.

 

 

Da Treviso ad Atene: riconnettere i fili di un’opposizione politica e sociale in Italia e in Europa

Accennerò appena agli assalti ai rifugiati di Quinto di Treviso e di Casale San Nicola. Essi sono degli episodi (non i primi e probabilmente non gli ultimi) che meritano di essere considerati non solo per le conseguenze materiali prodotte (in primis su quei poveri uomini «trattati come cani, picchiati e insultati» ), ma soprattutto per quel che rappresentano nella attuale narrazione della politica italiana (ed europea). Attraverso il Jobs Act e la “Buona Scuola” il governo Renzi ha completato l’obiettivo perseguito da Mario Monti con la riforma Fornero e la legge sul pareggio di bilancio in Costituzione, ovvero quello di “distruggere la domanda interna”, come lo stesso Monti aveva dichiarato nella sua intervista alla CNN del 2013 . Durante la crisi, le istituzioni e i poteri dello Stato italiano hanno definitivamente dismesso quelle poche lacere vesti di enti “super partes” del conflitto sociale e si sono completamente trasformati in strumenti “privati”, immediati e arbitrari della classe sociale dominante che ha gestito la crisi e dei novelli “despoti” (ieri Berlusconi, oggi Renzi, domani Salvini?); sulle ceneri dello Stato liberale novecentesco si erge la contemporanea democrazia totalitaria, basata su governi “carismatici” e modelli politici leaderistici in cui, va riconosciuto, buona parte della società si riconosce. Una classe politica corrotta e dequalificata, aveva già denunciato Michele Ciliberto qualche anno fa , gestisce un nuovo autoritarismo di massa imperniato sull’esercizio del consenso, attraverso gli immaginari diffusi e conculcati dai media mainstream. Come hanno invece recentemente ricordato Judith Revel e Sandro Mezzadra durante il Festival Internazionale dei Beni Comuni a Chieri, la linea di demarcazione fra “pubblico” e “privato” è diventata impercettibile, a scapito della solidarietà e del concetto di “comune”. In questo contesto che ho sommariamente ricostruito, i partiti del populismo xenofobo e nazionalista (Lega Nord, Fratelli d’Italia, in parte Movimento 5 Stelle, coi loro addentellati come Casa Pound e Forza Nuova) si sono abituati a muoversi perfettamente su un terreno in cui le politiche autoritarie della “terza repubblica” e la crescita dell’individualismo e dell’egoismo sociale stanno creando (sicuramente con importanti, ma rare eccezioni) seri problemi di isolamento sociale alle idee e alle forze che si basano sull’azione collettiva, sul conflitto sociale, sulla solidarietà di classe. Nelle vuote navate di una cattedrale costituzionale ormai svuotata (basti pensare alle attualissime riforme istituzionali), si ingrossa e si moltiplica quindi la voce dei razzisti e dei “fascisti del terzo millennio”. L’aumento costante delle pressioni sociali accelerato anche dalle contraddizioni aperte dal processo di unificazione europea (il cui vero volto di operazione di strozzinaggio internazionale i fatti di Grecia hanno oggi mostrato), danno oggi rinnovato spazio a queste forze, che solo pochi anni fa erano ridotte a relazionarsi con i vari governi, come coloro che, magistralmente rappresentati da Ken Kalfus nel suo romanzo “Il compagno Astapov”, aspettavano la morte di Tolstoj per riuscire ad accaparrarsi qualche briciola del suo testamento.
Gli episodi di Treviso e di Roma Nord, come altri che l’avevano preceduto (assalto al centro rifugiati di Tor Sapienza a Roma nel novembre 2014; caccia all’uomo a Corcolle, sempre Roma, nel settembre 2014), sono sì il prodotto dello sfaldamento sociale e identitario (in termini di appartenenza di classe) del mondo del lavoro autoctono, nel quale però le bande neofasciste e xenofobe spadroneggiano, grazie alle “larghe intese” delle forze filo-austerità e all’inanità delle residue e sempre più assottigliate forze della cosiddetta “sinistra radicale”, e col sostegno ponziopilatesco dei dirigenti del M5S, come testimonia l’intervista a Di Battista del 18 luglio .
Non nutro alcuna fiducia, tanto per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti, in eventuali provvedimenti del Governo, che anzi ha dimostrato, in epoca recente, dall’aggressione agli attivisti del Centro Sociale Dordoni di Cremona alle medaglie d’oro assegnate “per errore” agli ufficiali repubblichini, la sua continuità coi governi precedenti in tema di rimozione della memoria della Resistenza e di sostanziale impunità del neofascismo.
Il mero antifascismo e antirazzismo, sebbene condizione necessaria, è però, per quanto scritto all’inizio, non sufficiente. Esso non ci mette al riparo dalle drammatiche conseguenze della macelleria sociale operata nei confronti di un mondo del lavoro ormai profondamente diverso e molto più sfaccettato e (attualmente) debole di quello novecentesco. Distruzione della domanda interna fa rima con austerità, alla quale dobbiamo saper rispondere con nuove rivendicazioni e con un nuovo modello di welfare riappropriandoci, come ha detto Toni Negri sempre nel festival di Chieri, del “comune” (inteso come sostantivo e non come aggettivo) che ci appartiene. Per fare ciò, però, dobbiamo avere chiaro che lottare contro il “nostro” Governo non sarà sufficiente e che oggi ci troviamo di fronte un soggetto – l’Unione Europea e le sue strutture, dall’Eurogruppo alla Commissione, dal Consiglio d’Europa alla BCE – che costituisce il sistema europeo dell’austerità. D’altronde, per tornare al tema iniziale, è lo stesso sistema che blinda i suoi confini e i suoi mari (dal Mediterraneo alle Alpi, dalla Manica ai Carpazi), col terrificante e vergognoso corollario di morti migranti, di pogrom razzisti, di populismo xenofobo che, come è sotto gli occhi di tutti, non riguarda solo l’Italia.
Lotta contro xenofobia, razzismo e neofascismo e lotta contro l’austerità sono quindi aspetti inscindibili, e la dimensione nazionale, sebbene immediata e inevitabile, rischia di essere depotenziante se non si inscrive nel contesto più ampio di un movimento di opposizione politica e sociale a livello europeo, se non anche mediterraneo. Di questo compito urgente non possiamo illuderci si facciano carico le continue riorganizzazioni dei settori della sinistra istituzionale eredi della tradizione del PCI (ex PD, SEL, PRC, ecc.), che, sebbene impegnati in un eterno rimescolamento delle (poche) carte che ormai hanno a disposizione non hanno alcuna intenzione di uscire dalla logica politica che vuole ricercare a tutti i costi una compatibilità fra i nuovi assetti imposti dall’austerità e dalla democrazia totalitaria e le prospettive di liberazione sociale per quel “nuovo proletariato” precario (autoctono, meticcio o immigrato che sia) che proprio dell’austerità è la prima vittima.
In ballo c’è molto e le prospettive sono francamente fosche al momento: la guerra civile in Ucraina, la destabilizzazione in tinta islamista dei Paesi del lato sud del Mediterraneo (Libia, Tunisia, Egitto), ed infine il terribile diktat imposto dall’Eurogruppo a guida germanica alla Grecia di un (alla fine) pavido Tsipras sono inquietanti avvisaglie di un processo politico in cui, nel nome della stabilità e della crescita finanziaria, si destabilizzano non solo società e popolazioni ritenute subalterne ed “inferiori”, ma si fomenta un nuovo nazionalismo che oggi assume i contorni delle contraddizioni franco-italiane a Ventimiglia o britannico-europee sull’immigrazione, oppure della follia ungherese del muro contro l’immigrazione serba, ma che, in un ipotetico quanto probabile peggioramento delle generali condizioni economiche e sociali nel continente europeo – dovute sempre a quella “distruzione della domanda interna” che sembra diventata la nuova religione del mercato – potrebbero non tardare a far deflagrare conflitti molto ben peggiori di quelle attuali.
Ecco, oggi in Italia ci si trova ad una svolta molto grave della nostra vita sociale, politica e culturale, senza avere gli strumenti necessari per capire cosa fare e come farlo. Gli avvenimenti ucraini, greci, nordafricani, ecc. sono rimasti conoscenza solo di pochi “addetti ai lavori” o militanti generosi, come testimonia la insufficiente partecipazione di massa alle manifestazioni o attività di sensibilizzazione che in questi mesi sono state organizzate.
Come ha giustamente scritto la redazione di Effimera qualche giorno fa, l’Europa è in guerra . Non solo una guerra economica “civile” dichiarata dalle élites finanziarie agli abitanti dell’UE, ma anche una guerra “di civiltà” dichiarata di fatto ai Paesi nordafricani e mediorientali, e una guerra di espansione dichiarata a Est contro la Russia attraverso la guerra civile in Ucraina. Una guerra che però si sta già ritorcendo contro la stessa fortezza Europa (come dimostrano i sanguinosi fatti di Parigi) e che potrebbe in breve, medio periodo deflagrare nel cuore stesso dell’UE, qualora la questione greca (come io credo) non dovesse risolversi per il “meglio”.
Conclusione? È sicuramente necessaria quella razionalità e quella profondità di comprensione degli avvenimenti che eviti di farci scivolare dentro una nazionalistica “opposizione anti-tedesca” (pur essendo la Germania la prima protagonista della macelleria sociale europea). Al tempo stesso è però necessario rimettere in moto intelligenza, passione e generosità per riconnettere i fili di un’opposizione politica e sociale all’austerity (e alle recrudescenze razziste e fasciste che ne sono uno dei prodotti) non solo sul piano nazionale, ma quanto meno europeo. Avendo, infine, presente che di fronte ci troviamo (e ci troveremo) un potere oligarchico continentale (e le sue propaggini nazionali) oramai divenuto una perversa commistione di potere pubblico e privato che ha di fatto svuotato, come aveva già denunciato qualche anno fa Colin Crouch, le già traballanti democrazie tradizionali attraverso una prassi politica autoritaria.

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